Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 23/11/2014, 23 novembre 2014
TRA AMORI RITROVATI E VERITÀ DELL’ANIMA ECCO LA VITA SEGRETA DELLE NOSTRE PASSWORD
Fra le parole che usiamo tutti i giorni ce ne sono alcune davvero speciali. Lo sono perché le diciamo a noi stessi e a nessun altro, le scegliamo con cura, ci disperiamo quando non le rammentiamo e saremmo imbarazzati se dovessimo spiegare perché abbiamo scelto proprio quelle, e non altre. Sono le password, devono custodire la privatezza dei nostri segreti epistolari, dei nostri valori materiali e dei nostri documenti, personali e di lavoro. Contro tutti gli ammonimenti che riceviamo, càpita di affidare una mansione tanto delicata al nome di un cane, alla data di nascita di una figlia, alla marca di un auto, a un’oscenità.
Parole-chiave, appunto, e sarebbe molto utile poterle analizzare scientificamente, poiché dicono di noi molto più di quanto noi stessi non possiamo sospettare. Ma le password sono segrete, e lo sono essenzialmente: come raccoglierne a sufficienza, per studiarle? Linguisti dell’Ontario University hanno analizzato un corpus di 32 milioni di password (pubblicato da un hacker che era penetrato nel database di un sito di giochi online) e hanno scoperto che le persone non sono poi così preoccupate per la propria privacy. Sono quelli che Ian Urbina chiama i “nudisti digitali”: non sentono il bisogno di coprirsi più di tanto.
Urbina è un inviato del New York Times e una sua recente inchiesta sulle password ha preso le mosse dalla storia di Howard Lutnick. Top manager di Cantor Fitzgerald, un’agenzia di servizi finanziari fra le maggiori al mondo, la mattina dell’11 settembre 2001 Lutnick non era nella sede centrale di una delle due Torri di Manhattan, a differenza di 658 suoi colleghi (fra cui il fratello) che morirono nel crollo. Nello sgomento di quei giorni Lutnick doveva provare a salvare almeno l’azienda ed era necessario recuperare le password perdute con la morte degli impiegati e con la distruzione del server. Così telefonò ai parenti delle vittime, per chiedere, con estrema quanto inadeguata delicatezza, una serie di dati privati (nomi di animali domestici, scuole frequentate, ricorrenze famigliari...), da cui i tecnici avrebbero poi ricostruito le password di ognuno. Si sapeva già benissimo che pochi seguono il consiglio o l’ordine di scegliere sequenze del genere «K9?#/&mX». La maggior parte delle persone opta per parole e nomi significativi per la propria vita personale. Come Citizen Kane con “Rosebud”, insomma. Nel momento in cui entriamo in contatto con un automa, alla sua interfaccia contrapponiamo il nostro volto umano, sotto forma di password. Dietro ci possono essere storie struggenti: la donna che usa il nome che avrebbe dato al figlio morto prima di nascere, l’ex carcerato che usa il numero di matricola ricevuto in galera, la madre che rinviene la password del figlio morto suicida e solo dall’allusione lì criptata viene a sapere che il figlio era omosessuale. Molti adottano proprio la parola “password”, o l’aggettivo “scorretta” (la rammenta il computer stesso quando ci dice: «la password è scorretta»). C’è chi si rivolge esortazioni motivazionali, come “dimenticatela!” o “smetteredifumare”; sportivi che digitano il record che vogliono arrivare a battere, insospettabili professionisti che ricordano canzonette della loro gioventù.
Molti dichiarano un amore, magari segreto come deve essere la password. Quella stringa di caratteri contiene, infatti, ciò che decidiamo di ricordare ogni giorno e lo dimostra la storia più romantica fra quelle raccolte da Urbina. Maria Allen aveva sempre usato come password una frase che le ricordava un amore durato una sola estate. Dopo undici anni di distacco totale, il suo bello si rifà vivo: si rivedono, si piacciono ancora. Quando lui le ha domandato se nel lungo intervallo lei lo avesse pensato, lei ha potuto rispondergli: «Tutte le mattine, accendendo il computer». La password ora è incisa all’interno dell’anello nuziale di lui.
Come dice Urbina, l’umana non è l’unica specie capace di risolvere rompicapo; però è l’unica che ne costruisca per il solo piacere di risolverli. La password è questo: un piccolo enigma privato con cui ognuno sfida il se stesso futuro, perché il se stesso futuro sia certo di non avere smarrito il proprio passato. Ed è per questo che dimenticarci una password ci fa disperare tanto.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 23/11/2014