Luigi Spera http://www.wired.it/attualita/politica/2014/02/10/afghanistan-ritiro-italiani/, 23 novembre 2014
Afghanistan addio: i militari italiani si ritirano Dopo 13 anni le truppe italiane lasciano l’ultima base tattica a Shindand vicino a Herat
Afghanistan addio: i militari italiani si ritirano Dopo 13 anni le truppe italiane lasciano l’ultima base tattica a Shindand vicino a Herat. Le elezioni del 5 aprile sono cruciali per il futuro del paese Luigi Spera Luigi Spera Pubblicato febbraio 10, 2014 * supersize FULLSCREEN FotoRitiroWired_002 FotoRitiroWired_002 Un gruppo di donne afghane sulla strada per Herat (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_003 FotoRitiroWired_003 Un bambino vicino ai mezzi italiani (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_004 FotoRitiroWired_004 Una pattuglia italiana vicino alla base di Shindand (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_005 FotoRitiroWired_005 I distintivi sull’uniforme delle forze afghane (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_007 FotoRitiroWired_007 (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_001 FotoRitiroWired_001 Il segno d’impatto sul ventro blindato di uno dei mezzi italiani (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_008 FotoRitiroWired_008 In volo nella zona di Shindand (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_009 FotoRitiroWired_009 Un convoglio alleato (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_010 FotoRitiroWired_010 Un convoglio alleato (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_011 FotoRitiroWired_011 Un convoglio italiano vicino alla base di Shindand (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_012 FotoRitiroWired_012 Il terreno nell’area di Shindand (Foto: Luigi Spera). FotoRitiroWired_006ww FotoRitiroWired_006ww Una pattuglia delle forze dell’ordine afghane (Foto: Luigi Spera). 01/12 FotoRitiroWired_002 Un gruppo di donne afghane sulla strada per Herat (Foto: Luigi Spera). I circa 600 militari che nei giorni scorsi si sono ritirati definitivamente dalla base La Marmora di Shindand, nell’Ovest dell’Afghanistan vicino ad Herat, sono gli ultimi soldati italiani a cedere il controllo completo del territorio alle forze di sicurezza afgane. È la conclusione della fase di transizione dei poteri stabilita dalla Nato e dalla forza internazionale Isaf con l’accordo del governo afgano. Dopo un breve passaggio a Camp Arena, la base di Herat che è anche sede del Regional Command West (Rcw) al momento affidato alla Brigata “Aosta” di Messina, i soldati del 183° reggimento paracadutisti rientreranno in Italia. Da quel momento Camp Arena resterà l’unica base controllata dai nostri militari. Così, il numero del contingente italiano, che nel 2011 aveva raggiungeva le 4700 unità (il terzo dopo americani e britannici) e 2200 a fine 2013, si attesterà sui 1400 militari. Ai seicento militari che lasceranno la base di Shindand infatti si sommano 200 che rientreranno da Kabul. Quella di La Marmora a Shindand, è una Forward operating base, (“Fob” in gergo) una base tattica che ospita la principale base aeronautica afgana. Qui gli italiani hanno contribuito per anni all’addestramento degli avieri di karzai ed è solo l’ultima in ordine ti tempo tra le basi italiane a chiudere: la settima di un processo iniziato nel 2012, quando la missione è entrata come stabilito nella sua terza fase: quella di la transizione. Entro la fine del 2014, dopo le elezioni presidenziali in agenda per il 5 aprile, anche gli ultimi militari italiani dovrebbero tornare a casa. L’mpegno degli italiani continuerà comunque fino al 2016, ma non sarà più ‘combat’. È legato a doppio filo alla vicenda dell’accordo bilaterale tra Usa e Afghanistan, un accordo che ha già avuto l’ok della Loja Jirga, la grande assemblea del popolo afghano, che comprende a vario titolo leader tribali o regionali, figure politiche, militari e religiose, funzionari del governo, ma che vede il presidente Karzai impegnato in un braccio di ferro con il presidente statunitense Barak Obama. Solo con un accordo positivo, invocato da più parti anche in Afghanistan, potrà prendere il via il piano Nato “Resolute Support”, già pronto sulla carta e che dovrebbe garantire una presenza militare occidentale anche dopo il ritiro definitivo del 2014. Si tratterebbe di una missione di sostegno alle forze armate locali e vedrà gli italiani impegnati nell’addestramento e aggiornamento dei militari afgani. Quanto alla partecipazione italiana non si dovrebbero superare le 800 unità. Ma per conoscere gli sviluppi, bisognerà attendere la decisione politica e soprattutto le disposizioni della difesa americana, soprattutto quanto all’impatto numerico dei propri uomini sul terreno. Mentre il futuro è ancora incerto, il presente ha una road map ben scandita dal progressivo abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze armate internazionali impegnate in Isaf. Parola d’ordine della missione negli ultimi due anni è stata infatti “intequal”, termine utilizzato sia in lingua dari che pashtu, idiomi ufficiali della repubblica afgana, per indicare il concetto di transizione. Una transizione nelle competenze sulla sicurezza del territorio nazionale che è l’obiettivo finale militare di Isaf, cui principale mission era proprio quello di formare esercito e polizia afgane in grado di badare alla sicurezza del proprio Paese. In questa direzione si è mossa l’azione dei contingenti impegnati in Afghanistan, in particolare tra il 2007 e il 2012, anni di maggiore impegno delle forze Isaf che, come nel caso dell’Italia per il settore ovest del paese, hanno rilevato la competenza che prima era principalmente delle truppe statunitensi sin dal 2001. Durante questo periodo, nel quale era impensabile per l’Afghanistan contrastare le attività dei talebani, le operazioni militari sono state portate avanti sostanzialmente dalle forze della coalizione, con anche risultati in termini di contrasto agli ‘insurgents’. In tutta questa prima lunga fase di stabilizzazione delle istituzioni afghane infatti, le forze di sicurezza locali offrivano agli occidentali solo un supporto e ne ricavavano una formazione sul campo. Con il tempo sono però cresciute, sia in termini numerici che qualitativi. Come stabilito nel summit Nato di Lisbona nel 2010 e confermato con tanto di timeline nel successivo del maggio 2012 a Chicago, sin dal luglio 2012 è dunque iniziato il passaggio progressivo di competenze agli afgani. La fase di transizione è l’ultima prima del ritiro completo delle forze. La decisione di devolvere la sicurezza alle forze afgane è basata di volta in volta su considerazioni di ordine economico, politico e di operatività delle forze di sicurezza nazionali. A macchia di leopardo l’Afghanistan inzia, dunque, a tornare agli afgani. Quanto al Regional Command West a guida italiana, sin dal luglio 2012, è iniziato il passaggio di consegne che si concluderà a fine mese. Si potrà forse solo allora iniziare a tracciare un bilancio della missione, ancora troppo in divenire. Ma cosa è stato fatto dagli italiani finora? Un passo indietro è utile. Il contingente del nostro Paese è impegnato in Afghanistan dal 2001. L’Italia si schierò sin da subito a fianco degli Usa che a seguito degli attentati delle Torri Gemelle avevano dichiarato guerra al regime dei Talebani che governava l’Afghanistan, e ritenuto luogo di addestramento e ospitalità degli autori dell’attacco a New York. Dopo poche settimane da quell’intervento “Enduring Freedom”, a seguito della vittoria militare sul campo, il 20 dicembre 2001 l’Onu autorizzò con risoluzione il dispiegamento di una Forza multinazionale, “International Security Assistance Force” appunto, con il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afgane a mantenere un ambiente sicuro, nel quadro degli accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. L’11 agosto 2003 la responsabilità della condotta dell’operazione fu presa dalla Nato. Nell’ambito della rotazione dei Comandi Nato per la guida di Isaf, l’Italia, a partire dal 4 agosto 2005 e per nove mesi, ha avuto la leadership della missione. Il grosso delle truppe sul campo però era ancora principalmente Statunitense. È solo a partire dal 4 febbraio 2007 che una modifica sostanziale nella missione ha visto crescere, e di molto, l’impegno italiano. Il Paese fu infatti diviso in 5 comandi regionali: North, West, South, East e Capital. Agli italiani andò il comando del Regional Command West che ha nell’antichissima città di Herat il principale centro a “Camp Arena”. È lì il comando del contingente nazionale interforze che ha la responsabilità anche su quattro Provincial Reconstruction Team, nuclei che si occupano della ricostruzione del Paese in accordo con le popolazioni e amministrazioni locali. Oltre che a Herat quello italiano, quarto contingente dopo Usa, Uk e Germania, è schierato anche nella città di Kabul, gli italiani sono presenti nello staff del Comando generale dell’operazione, da dove entro fine mese rientreranno 200 militari. Sul piano operativo, la missione è stata caratterizzata da cinque fasi. Fase 1: Analisi e preparazione; Fase 2: Espansione, suddivisa, in 4 stage: Area Nord, Ovest, Sud ed Est; Fase 3: Stabilizzazione; Fase 4: Transizione (in atto); Fase 5: Rischieramento. La fase di stabilizzazione è stata di certo quella più complessa e quella che ha causato anche il maggior numero di vittime. L’Italia ha pagato con 53 morti il suo impegno. Con i suoi militari l’Italia ha partecipato alla missione di Polizia “Eupol” Afghanistan sotto egida dell’Unione Europea che si inserisce nell’ambito dell’iniziativa di Politica Europea di Sicurezza e Difesa (Pesd). La missione partita dal 2007 insieme a quella di formazione dell’esercito, ha come fine principale sviluppare le attività di training, advising e mentoring del personale della Polizia l’Afghan National Police, con i Carabineri e della Polizia di Frontiera Afghan Border Police, con la guardia di finanza. Cosa si lasciano alle spalle i nostri militari è una grande incognita. Saranno in grado le forze di sicurezza di assicurare un minimo di stabilità a un Paese in guerra da 35 anni e con strutture feudali e tribali ancora vivissime nell’80% del territorio? Per quanto tempo i militari e i poliziotti entrati nel nuovo esercito afgano riusciranno a resistere alle sirene della guerriglia e della resistenza talebana, già negli ultimi mesi sempre più forte? Molto dipenderà dalla politica e dall’impegno che ciascun afgano vorrà mettere per tenere il Paese stabile e in grado di rialzarsi. Il momento delle elezioni del prossimo 5 aprile è fondamentale. Sanno bene agli afgani, che quella che viene loro offerta è un’opportunità che mai più si riproporrà: mai avranno l’attenzione che la comunità internazionale, dall’Onu, alla Nato alle grandi potenze del globo che hanno ora. Mai avranno a disposizione, in caso di falle di poter chiedere e ottenere un intervento operativo alle forze armate che resteranno nel Paese ancora qualche mese. Un ultimo sforzo che le nazioni occidentali non faranno mancare, considerato anche il rischio che in caso di ‘crollo’ istituzionale, significherebbe aver buttato via una quantità impressionante di miliardi senza aver ottenuto alcun risultato. E senza neanche aver smantellato del tutto, nonostante i tanti colpi inferti, la rete del terrore che in Osama Bin Laden, ma che può contare comunque su migliaia di giovani disposti a lottare contro gli occidentali I progressi fatti nei 13 anni di intervento internazionale sono effettivi, ma limitati ad alcune aree e i ritardi e i deficit istituzionali restano notevoli. L’Afghanistan ha una costituzione moderna, un esercito, una polizia e un assetto istituzionale abbastanza delineato. Il passaggio dalla carta ai fatti non è certo immediato. La situazione della donna è migliorata, ma non molto oltre le città di Herat e Kabul. Molto meglio va per l’istruzione gli studenti afgani sono attualmente 9 milioni, di cui il 40% donne. Prima della missione, in epoca talebana si arrivava a 800mila, e ovviamente solo uomini. Anche dal punto di vista sanitario con Isaf sono stati costruiti 120 ospedali in tutto il paese. ll 70% della popolazione può fare ricorso a strutture sanitarie, mentre prima era solo il 20%. Ma anche in questo caso i dati sono tutti centrati sulle principali città. L’area a Sud e a Sudest del Paese, quella rurale più tradizionalista, ha vissuto davvero pochi miglioramenti. Dal punto di vista amministrativo infatti, una parte del territorio è di fatto fuori dal controllo centrale a causa anche delle difficoltà negli spostamenti in un Paese praticamente privo di infrastrutture. Dal punto di vista giudiziario è difficile imporre un modello occidentale dove già si sommano altri livelli, uno tradizionale fondato sul carisma del leader e uno religioso fondato sulla rigorosa interpretazione della sharia. Questo comporta anche ritardi in tutti quegli standard che prevedono un livellemento verso l’alto della condizione femminile che in molte aree del sud è un vero e proprio miraggio. Quanto all’economia, la situazione è davvero inquietante. Da sempre l’80% del paese ha vissuto, e continua a vivere di una economia di sussistenza e una agricoltura feudale, dominata tuttora, nonostante Isaf dalla coltivazione dell’oppio, in crescita addirittura nel 2013 quando è stato registrato dall’Undp un + 50% di produzione con un’area destinata alle coltivazioni del papavero passata dai 154.000 ettari ai 209.000 (+36% ). L’industria è invece presente solo in maniera molto limitata in pochissimi centri urbani. In assenza di economia legale controllabile, e dunque senza riscossione di tributi, le casse dello Stato sono al momento alimentate dai soli aiuti internazionali, che però da qui a pochi anni cesseranno di arrivare. E chi pagherà gli stipendi di dipendenti pubblici, militari e poliziotti. È ovvio che questo mette a rischio soprattutto la sicurezza, che comunque, nonostante il miglioramento degli standard, non è certo ottimale. Nonostante un esercito e una polizia formati, addestrati ed equipaggiati, la gran parte del Paese è fuori controllo, e in mano a bande di criminali non meglio definiti. Azioni che si sommano a quelle ostili di talebani, signori della guerra, signori della droga e leader tribali che gli occidentali riuniscono nella definizione di ‘insurgens’, sempre più intense. Un +16% nel 2013 rispetto al 2012 con prospettiva di peggioramento già evidente a seguito degli attentati di Kabul della scorsa settimana. C’è da attendersi che le cose peggioreranno e di molto e pare dato per scontato che le elezioni saranno un’occasione per sfruttare l’attenzione internazionale per la propaganda. Dopo 13 anni di missione dunque, le certezze restano poche, i dubbi tanti, e le domande sul futuro di questo difficile paese tutte aperte.