VARIE 23/11/2014, 23 novembre 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - IN AFGHANISTAN KAMIKAZE SI FA ESPLODERE DURANTE PARTITA DI PALLAVOLO
REPUBBLICA.IT
KABUL - Un attentatore suicida si è fatto esplodere mentre era in corso una partita di pallavolo nel distretto di Yahyakhail, nell’Afghanistan orientale. Il bilancio è di almeno 50 morti e oltre 60 feriti. Tra le vittime ci sono diversi bambini.
Mokhis Afghan, portavoce del governatore della provincia di Paktika, al confine con il Pakistan, ha confermato che ad assistere alla partita, organizzata dalla polizia locale, c’erano un centinaio di persone: "Era la finale di un torneo interno, l’attentatore suicida è arrivato in moto poi si è mischiato alla folla e si è fatto esplodere". Proprio questa mattina il Parlamento afgano ha ratificato l’accordo che consentirà alla Nato e agli Stati Uniti di mantenere militari in Afghanistan oltre la fine dell’anno, secondo quanto deciso dal presidente Usa Barack Obama.
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Nessuno ha ancora rivendicato l’attentato di Yahyakhail. I media hanno cercato di ottenere una reazione dal portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, che però per il momento non ha commentato l’accaduto. La provincia di Paktika è stata da poco colpita da un altro attacco kamikaze contro civili. Lo scorso luglio 89 persone erano rimaste uccise per una bomba esplosa in un mercato. Il 2014 è stato uno degli anni più sanguinosi della guerra per i civili afgani, secondo le Nazioni Unite, con quasi 5 mila vittime accertate solo da gennaio a giugno. La maggior parte degli attentati sono stati attribuiti ai talebani.
LA PROMESSA DI OBAMA
WASHINGTON - Poco prima dell’estate aveva annunciato che sarebbero tornati a casa, ma con un ordine firmato silenziosamente nelle scorse settimane dopo un acceso dibattito all’interno dell’amministrazione, il presidente americano Barack Obama ha prorogato di un anno la missione di combattimento dei soldati americani in Afghanistan. Sono stati i militari a insistere, volevano mantenere pressioni sui talebani e hanno esortato Obama ad ampliare la missione nel caso di minacce contro le truppe rilevate dall’intelligence. I collaboratori civili hanno invece messo in guardia sul rischio per altre vite di americani, sostenendo che il ruolo dei marines doveva essere limitato alla missione antiterrorismo contro al-Qaeda.
Secondo quanto riferisce il New York Times, che cita una fonte anonima, a maggio scorso Obama aveva promesso che le operazioni di combattimento ’Enduring Freedom’ sarebbero cessate alla fine di quest’anno e che la metà dei 9.800 soldati americani che rimarranno (insieme a circa 4 mila militari degli alleati Nato tra cui Germania, Italia e Turchia), avrebbero avuto una missione di sostegno e addestramento delle forze afgane a Kabul e Bagram. Un ufficiale Usa ha spiegato al quotidiano che il Pentagono emetterà un ordine nelle prossime settimane dove sarà dettagliato il ruolo militare in Afghanistan che avrà un nuovo nome, ’Operation Resolute Support’.
L’esercito potrà attaccare i talebani solo nel caso in cui porranno una minaccia diretta alle forze americane o forniranno sostegno diretto ad al-Qaeda, mentre quest’ultima potrà essere presa di mira più indiscriminatamente. Il Nyt sostiene anche che il nuovo l’ordine autorizza le forze americane a effettuare missioni contro i talebani e altri gruppi militanti nel caso di minacce alle truppe e al governo di Kabul. Inoltre, permette anche l’uso di jet americani, bombardieri e droni in supporto alle truppe afghane in missioni di combattimento. "Nella misura in cui i membri dei talebani prenderanno di mira direttamente gli Stati Uniti e le forze della coalizione in Afghanistan o forniranno sostegno diretto ad al-Qaeda, tuttavia, prenderemo le misure appropriate per mantenere al sicuro gli americani", ha spiegato il funzionario. La presenza dei talebani in Afghanistan supera di molto quella di al-Qaeda, il che dà significato all’autorizzazione di Obama.
L’ordine di prorogare la missione dei militari Usa, secondo il quotidiano, è in parte dovuto al rapido avanzamento dei jihadisti dello Stato islamico in Iraq, la cui minaccia ha scatenato dure critiche contro Obama, accusato di aver ordinato il ritiro delle truppe Usa dal Paese prima che l’esercito iracheno fosse realmente preparato ad affrontare attacchi islamisti. Il nuovo presidente afghano, Ashraf Ghani, inoltre è più aperto all’idea di una missione ampliata per i militari americani in Afghanistan rispetto al suo predecessore, Hamid Karzai. Lo scorso settembre, Ghani ha firmato un accordo che permetteva ai marines di rimanere nel Paese oltre al termine fissato del 2014. La Nato, che all’inizio dell’anno aveva 50mila truppe in Afghanistan, la maggior parte dagli Usa, le sta piano piano ritirando, affidando il controllo alle forze di sicurezza locali.
La prima fase dell’operazione ’Enduring Freedom’ risale al 7 ottobre 2001 con intensi bombardamenti aerei britannici e americani a sostegno della resistenza anti-talebana dell’Alleanza del Nord, che avrebbe avuto ragione della roccaforte di Mazar-i-Sharif il 9 novembre e della capitale Kabul fra il 12 ed il 13 novembre. Il 25 novembre cade anche Konduz ed il 7 dicembre Kandahar. I talebani in rotta si rifugiarono sulle montagne, particolarmente nelle aree al confine col Pakistan, dove si sono riorganizzati.
REPUBBLICA 18 LUGLIO 2014
KABUL - Un continuo, incessante rumore di fondo accompagna gli eventi della cronaca internazionale: quello della guerra che ancora insanguina l’Afghanistan dopo 13 anni dal suo inizio. Nonostante le decine e decine di miliardi di dollari di aiuti versati dalla comunità internazionale, dal 2001 ad oggi, le condizioni di vita della popolazione afgana non solo non sono migliorate, ma sono peggiorate rispetto all’inizio della guerra. La povertà assoluta è salita di una decina di punti percentuali; l’aspettativa di vita è scesa da a 44 anni (in Italia è di 81 anni), la mortalità infantile è aumentata fino ad arrivare al 150 per mille (in Italia è 3 per mille), il tasso di alfabetizzazione si aggira attorno al 30%.
Miliardi di aiuti, ma agli afgani molliche di pane. Come purtroppo si è costretti a verificare spesso, da reportage, inchieste, rapporti ufficiali, la quasi totalità degli aiuti internazionali piovuti in questi anni in Afghanistan è finita nel gigantesco pozzo nero della corruzione, costruito dai governanti di Kabul, oppure è tornata indietro sotto forma di profitti alle aziende occidentali, dedite soprattutto alla sicurezza e alle consulenze, o anche ai laudi stipendi degli operatori stranieri delle organizzazioni internazionali e di alcune Ong. Alla popolazione afgana, dunque, sono molliche di pane. Del resto, anche la popolazione civile - più o meno organizzata - non può che prendere atto di tutto questo, tanto che oggi completamente disillusi e apertamente contrari sia all’occupazione straniera (a causa dei crimini di guerra e degli abusi delle forze Usa e Nato), sia al regime di Karzai (dominato da signori della guerra e della droga che sono saliti al potere con sfacciati brogli e che lo esercitano in maniera mafiosa e autoritaria).
E l’oppio coltivato è ancora di più di prima. In tredici anni di occupazione, la produzione di oppio in Afghanistan ha surclassato quella dell’epoca talebana. Quando il Mullah Omar bandì la coltivazione nel 2000 erano coltivati a papavero 82mila ettari. Nel 2007 erano saliti 193 mila; oggi sono 123mila (un calo da sovrapproduzione imposto dalle regole di mercato). Oggi inoltre l’Afghanistan esporta direttamente eroina (400 tonnellate l’anno) e la consuma (350mila tossicodipendenti e conseguente esplosione dell’Aids). Il business mondiale dell’eroina vale 70 miliardi di dollari l’anno.
Un report di Emergency. Martedì scorso - si legge in un report dell’équipe di Emergency dall’Afghanistan - al nostro ospedale di Kabul abbiamo ricevuto 23 persone ferite nell’attentato avvenuto in mattinata nella provincia di Paktika, vicino al confine col Pakistan: un’autobomba è stata fatta esplodere in un mercato affollato, facendo 89 morti e decine di feriti. I 23 pazienti arrivati da noi, di cui 3 bambini, hanno dovuto affrontare un viaggio in ambulanza di 7 ore.
Dopo 13 anni la situazione peggiora. Dopo 13 anni di guerra, fino a 130 mila soldati stranieri presenti nel Paese e 4,2 miliardi di dollari spesi ogni anno per le forze di sicurezza afgane - pari al 50% della finanziaria locale - la situazione del Paese peggiora di giorno in giorno. Gli attentati e i combattimenti sono quotidiani: nei primi 6 mesi del 2014 abbiamo registrato un incremento del 20% dei feriti di guerra nei nostri ospedali.
Un punto di vista anche su Gaza. Fedele alla sua missione umanitaria di associazione indipendente e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà, testarda nel promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani, e forte del fatto di aver curato oltre 6 milioni di persone in 16 Paesi, Emergency sente di proporre il suo punto di vista su quanto sta accadendo a Gaza. A 8 giorni dall’inizio dell’operazione "Confine protettivo" - si legge in una sua nota - a Gaza sono 194 i morti, più di mille e quattrocento i feriti. I bombardamenti non hanno risparmiato le scuole, gli orfanotrofi, le moschee e nemmeno gli ospedali che sono diventati un obiettivo degli attacchi. Oltre 20 mila persone - prosegue il comunicato - hanno lasciato le loro case in fuga dalla minaccia di un massacro che conoscono bene. La guerra è iniziata 66 anni fa e ancora continua: la violenza genera altra violenza, una nuova guerra evidentemente non è la soluzione al conflitto israelo-palestinese.
La guerra non è mai la soluzione. Lo vediamo tutti i giorni nei nostri ospedali, da vent’anni: la guerra non è mai la soluzione. A Gaza, come a Kabul, come a Bangui, come a Baghdad, la guerra è sempre e solo sopraffazione di altri esseri umani. Ad entrambe le parti - è l’appello di Emergency - chiediamo il cessate il fuoco immediato per la salvezza delle popolazioni civili e alla comunità internazionale di lavorare a un processo di pace che garantisca il rispetto dei diritti umani per israeliani e palestinesi. Possiamo ancora decidere di rinunciare alla guerra: solo il rispetto e la pratica dei diritti possono fermare la deriva di violenza che stiamo vivendo.
I volontari di Emergency. Il 25, 26 e 27 luglio i volontari di Emergency aspettano il pubblico all’Area Feste di Fagnano Olona (VA) per tre giorni di musica, buona cucina e sport per raccogliere fondi a favore del Centro pediatrico di Bangui, in Repubblica Centrafricana.
MOLTIPLICATI GLI ATTACCHI
ROMA - Un anno nero il 2013. Un anno in cui l’insicurezza legata al terrorismo è cresciuta, come cresciute, anzi più che raddopiate sono state le vittime degli attacchi. Su 162 paesi presi in considerazioni dall’Institute for economics and peace (Iep)per redigere il Global terrorism index, solo cinque contano l’80% dei morti per attantentati.
La top five del terrore.
IRAQ - In un anno, l’Iraq ha visto aumentare del 44% il numero degli attentati. Di questi solo una piccola parte è stata reclama da gruppi fondamentalisti, tra cui Isil e altri riconducibili a cellule legate ad al-Qaeda. In Iraq hanno perso la vita più di sei mila persone, la maggior parte civili, mentre 14 mila sono rimaste ferite dagli attacchi, fatti soprattutto con esplosivi.
AFGHANISTAN - In seconda posizione c’è l’Afghanistan, dove i talebani detengono ancora lo scettro del terrore e sono responsabili del 75% degli attacchi, che a differenza dell’Iraq, hanno colpito soprattutto le forze dell’ordine. Scomparso in larga parte dai media, il governo di Kabul ha visto aumentare del 10% gli attacchi sul suo terrirorio.
PAKISTAN - Influenzato storicamente dalla sua vicinanza all’Afghanistan, anche il Pakistan ha visto aumentare del 37% il numero delle morti (2,345 morti e 5035 feriti). Il gruppo riconosciuto cui sono attribuitie il 49% delle azioni rivendicate è il Tehrik-i-Taliban Pakistan.
NIGERIA e SIRIA - Al quarto e quinto posto invece ci sono Nigeria, dilaniata dall’azione dai terroristi di Boko Haram e Siria che ha dovuto e deve fare i conti con il prezzo della guerra e delle sue evoluzioni.
Più paesi esposti. Oltre alle stime di vittime e attacchi, è aumentato anche il numero degli Stati che nel 2013 sono stati interessati in modo diretto dagli attacchi terroristici. Se nel 2012 i paesi ad aver contato più di cinquanta vittime degli attacchi erano 16, nell’anno preso in considerazione sono 24. In tutto sono 87 gli stati attaccati dal terrorismo nel 2013 e in 60 ci sono state vittime.
Terrorismo. Non è sempre facile definire il fenomeno del terrorismo, usato spesso come spauracchio e mezzo politico per giustificare azioni poche ortodosse, ma che sempre più sta influenzando e insieme cambiando il modo di intendere i conflitti. Sebbene sia difficile distinguere tra guerra "legale" e non, all’inizio del report è specificato che per terrorismo si intende "la minaccia o l’effettivo uso di forza e violenza da parte di un attore non statale, per raggiungere un obiettivo politico, economico o sociale attraverso, la paura, la coercizione o l’intimidazione". Restano fuori dunque le vittime delle fazioni politiche in Siria.
Terroristi. "Da quando abbiamo lanciato il Global terrorism index nel 2012 - afferma il presidente dello Iep Steve Killelea - abbiamo visto un aumento significativo e preoccupante dell’incidenza del terrorismo in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, l’aumento è collegato a gruppi radicali islamici che divulgano un’ideologia basata sulla violenza. Per contrastarli è necessario che gli stati a maggioranza islamica promuovano la dottrina moderata. Data la natura anche teologica del problema, l’influenza degli attori esterni resta marginale e difficile da ottenere". A sostegno delle parole ci sono i dati. Il 66% di tutti gli attacchi del 2013 sono riconducibili a quattro gruppi terroristici: Boko Haram, Isil (ora Is), al-Qaeda e Talebani.
Cosa fare? Nel corso dei decenni sono stati teorizzati diversi modi per combattere il terrorismo. Il più delle volte gli esiti sono stati fallimentari. L’irrazionalità che spesso viene legata al fenomeno ha dato seguito in alcuni casi a politiche che ne hanno favorito l’espansione. A partire dal 1960, solo il 7% delle organizzazioni terroristiche sono state sconfitte attraverso l’intervento militare, mentre nell’80% lo stesso risultato si è ottenuto attraverso un processo politico. "Il terrorismo - continua Killelea - non nasce da solo; identificando i fattori ad esso associati, si possono implementare delle politiche volte a migliorare il contesto che lo favorisce. Le azioni più significative che possono essere adottate sono ridurre la violenza promossa dallo Stato, come per esempio le esecuzioni extragiudiziali, moderare le ostilità tra i diversi gruppi e migliorare l’efficacia delle forze di polizia".
Basta allarmismi. Analizzando alcuni fattori politici e sociali, il rapporto dello Iep sottolinea che gli attacchi potrebbe aumentare in 13 paesi: Angola, Bangladesh, Burundi, Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Etiopia, Iran, Israele, Mali, Messico, Myanmar, Sri Lanka e Uganda. Per quanto riguarda invece l’area dell’Ocse, il rischio di attentati è minimo. Sebbene dal 2000 circa il 7% di tutti gli attacchi terroristici e il 5% dei decessi si siano verificati nei paesi dell’Ocse, nel 2013 c’è stata una lieve diminuzione. Inoltre gli autori del report ricordano che le probabilità di rimanere coinvolti in un attentato sono davvero poche: negli Stati Uniti, per esempio, è 64 volte più probabile essere vittima di un omicidio, mentre in Gran Bretagna la probabilità scende a 1 su 188.