Alberto Quadrio Curzio, Il Sole 24 Ore 23/11/2014, 23 novembre 2014
Al piano Juncker serve un «motore» finanziario In Europa e in particolare nell’eurozona (quasi) nessuno crede più che la crescita e l’occupazione riprenderanno con le politiche economiche e fiscali adottate sino ad ora
Al piano Juncker serve un «motore» finanziario In Europa e in particolare nell’eurozona (quasi) nessuno crede più che la crescita e l’occupazione riprenderanno con le politiche economiche e fiscali adottate sino ad ora. La semi deflazione e stagnazione europea sono ormai un fatto compiuto che preoccupa anche l’Fmi quale massima espressione del "governo" dell’economia mondiale. Urge che i responsabili delle politiche economiche spingano gli investimenti nell’eurozona. È questa anche la richiesta che Emma Marcegaglia, presidente del BusinessEurope delle Confindustrie europee tenutosi due giorni fa a Roma, ha avanzato con forza trovando unanime consenso, tra cui quelli del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Questo ci porta al piano Juncker da 300 miliardi in tre anni da valutare sia dal punto di vista politico che da quello economico-finanziario dove bisognerebbe coinvolgere la Bce. La credibilità di Juncker. Politicamente il piano va apprezzato perché, se attuato, segnerebbe un salto di qualità della Ue o della Uem per gli investimenti. L’implementazione del piano è cruciale anche per la credibilità di Juncker (molto indebolito da vicende lussemburghesi) e di conseguenza per quella della sua Commissione. In questa sfida (anche contro i Paesi frenatori) Juncker dovrebbe trovare un supporto nel Parlamento europeo che già in passato ha mostrato molta apertura per gli investimenti su scala europea. Di questo, e in particolare della necessità del supporto del Partito socialista democratico europeo, Juncker sembra rendersi ben conto come dimostra la lunga lettera (con firma aggiunta dal primo vicepresidente della Commissione, il laburista Frans Timmermans) che il 12 novembre ha indirizzato al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e al presidente di turno del Consiglio europeo Matteo Renzi. Juncker dunque riapre il tema degli investimenti europei senza menzionare gli Eurobond sui cui in passato si era espresso favorevolmente (come tanti altri, tra i quali noi stessi, con le più diverse modalità) per non incorrere nel veto tedesco che teme una mutualizzazione del debito pubblico dei Paesi membri. Juncker fa bene ma la questione prima o dopo riemergerà. Gli investimenti necessari. Sappiamo che i 300 miliardi del piano Juncker sono pochi. Infatti i mancati investimenti in capitale fisso lordo nell’eurozona, rispetto al trend che si sarebbe verificato senza la crisi, sono calcolati sull’anno corrente in 800 miliardi di euro. Questo dato può essere commentato da molti punti di vista e tra questi ne scegliamo due. Il primo è il danno che le politiche improntate alla dottrina tedesca, supportata da molti economisti un po’ dovunque, del rigore che genera crescita hanno causato all’eurozona. Ovviamente non si tratta di sostituire a queste politiche quelle del debito pubblico per fare sprechi ma quella di usare il debito per fare investimenti che si ripagano nel tempo come è stato dimostrato, specie in queste condizioni di fattori produttivi inutilizzati, dalle analisi dell’Fmi. Il secondo è che le entità necessarie indicate da più parti per un piano di investimenti efficace vanno dagli 800 miliardi in su. Il partito socialista democratico del Parlamento europeo punta su 800 miliardi per il periodo 2015-2020 come ha ribadito il presidente del gruppo Gianni Pittella. Nel citato BusinessEurope, Emma Marcegaglia ha cifrato in mille miliardi il finanziamento necessario. I programmi di Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva prefigurano investimenti in infrastrutture (trasporti, energia, digitalizzazione), per 2000 miliardi entro il 2020 e il 2030. Le modalità di finanziamento. La cifra dei 300 miliardi non è però neutra rispetto ai modi di finanziamento che si chiariranno entro il Consiglio europeo di metà dicembre. Riassumiamo in due le notizie circolanti. La prima notizia, cattiva, è che la Germania non vuole che si adatti allo scopo l’Esm (European Stability Mechanism) la cui capacità di prestiti, tramite raccolta sul mercato dei capitali, è già adesso di 500 miliardi (di cui solo 50 già impegnati) con garanzia degli Stati partecipanti al capitale. Su questa scelta lineare ci siamo già intrattenuti (si veda l’articolo dell’11 novembre scorso) e ci rammarichiamo della miopia tedesca che blocca un potente fondo ben accolto dal mercato e con due anni di rodaggio alle spalle. Concordiamo invece che la Bei non diventi il fulcro del piano Juncker sia perché la sua ottima attuale attività non va caricata di nuovi compiti sia perché il programma di investimenti addizionali del "compact for growth" del 2012 non è andato a buon fine. La seconda notizia è che la Commissione sta lavorando sul varo di un (o più?) Fondo di investimento con capitale iniziale fornito dalla Bei e dal bilancio comunitario su cui attrarre capitali privati. I capitali pubblici si assumerebbero il rischio delle perdite di avvio del programma di investimenti in tal modo garantendo gli investitori privati ai quali andrebbero invece i guadagni a regime. Il problema su cui non c’è concordanza è quello della leva che i fondi pubblici possono avere attraendo capitali privati. Si ipotizza addirittura una leva massima fino a 10 per cui 30 miliardi pubblici potrebbero mobilitare fino a 300 privati. L’operazione sarebbe completata da assistenza tecnica per la messa a punto di programmi di investimento infrastrutturale nei singoli Paesi e da norme per rendere anche fiscalmente attraente l’investimento nel fondo. Una conclusione lineare. Se i fondi pubblici dovessero essere così limitati l’operazione sarebbe fallimentare. I 300 miliardi devono essere mobilitati davvero e qui solo la Bce può farlo subito acquistando un pari importo di obbligazioni emesse dal Fondo di investimento (di natura pubblicistica) a sua volta garantito dagli Stati dell’eurozona. Con 300 miliardi di fondi certi e rapidi per investimenti infrastrutturali, gli effetti moltiplicativi verrebbero ben presto con altri investimenti privati nell’economia reale che la Bce non riesce a far decollare. Il problema vero è se la Germania vuole essere il Paese leader di una Europa quale prima potenza manifatturiera mondiale oppure esserne il primo frenatore.