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 2014  novembre 23 Domenica calendario

L’INTELLETTUALE E L’ARMATORE

[Longanesi e Lauro]
MARCELLO VENEZIANI
Quando cadde il regime fascista, per due volte Leo Longanesi fu tentato dalla politica. Accadde ambedue le volte a Napoli e si risolsero entrambe nel nulla. La prima fu con Curzio Malaparte, nel febbraio del ’44, nella sede del Partito comunista a San Potito. I due scrittori e giornalisti, in forte odore di fascismo - autori di motti come «Mussolini ha sempre ragione» e «Spunta il sole canta il gallo Mussolini monta a cavallo» - arrivano accompagnati dal vicesindaco di Capri, l’ingegner Talamona. Ad accoglierli c’è Maurizio Valenzi, dirigente comunista e membro del Cln, che poi sarà sindaco di Napoli e lo racconta nel suo libro C’è Togliatti, edito da Sellerio: Malaparte e Longanesi «hanno molta simpatia per il Pci, lo considerano il partito dell’avvenire». Valenzi ha tra i suoi collaboratori il giovane Giorgio Napolitano. Leo e Curzio sostengono di non essere mai stati strumento del regime, anzi dicono di possedere documenti, articoli, testimonianze che dimostrano l’estraneità alle colpe del fascismo.
In effetti, oltre che arcifascisti i due sono stati anche dissidenti, Malaparte è finito al confino a Lipari; a Longanesi hanno chiuso un paio di riviste e censurato alcuni scritti. Siamo imbarazzati, confessa Valenzi, che chiede loro di compilare una domanda autografa raccontando la loro storia. Malaparte lo farà, consegnerà poi l’autobiografia a Spano per sposare il Pci, seppur guardato con diffidenza dai comunisti. Longanesi invece tace, si fa assente, «non lo rivedremo più», annota Valenzi. Probabilmente accompagnava solo Malaparte, voleva annusare il Pci o pensava a una bravata estemporanea delle sue, ma non era seriamente intenzionato a iscriversi al Pci, come invece sembra credere Lorenzo Catania che ne ha scritto il 14 novembre scorso sulla Repubblica. Malaparte, che poi descrisse la Napoli di quei giorni ne La pelle, più radicale, finì innamorato della Cina comunista e tra le braccia di Togliatti; Longanesi, più conservatore, fondò Il Borghese e contestò da destra l’antifascismo, la sinistra e i comunisti. Malaparte amò gli estremi, Longanesi preferiva i paradossi. L’unico modo per neutralizzare il Pci, avrà allora pensato, era entrare in massa nel partito, borghesi inclusi...
Più serio fu dieci anni dopo il suo tentativo di scendere in politica. Leo aveva fondato in tutta Italia i circoli del Borghese, che erano una prefigurazione dei club del centrodestra, aperti a conservatori, moderati, liberali, cattolici, missini e monarchici. Girò per mezza Italia a fondare circoli e raccogliere adesioni. Pensò allora di andare a trovare il presidente del Partito Monarchico, nonché editore del quotidiano Roma e armatore ricco e famoso, il Comandante Achille Lauro, all’epoca sindaco di Napoli. Si fece accompagnare da un giovane collaboratore del Borghese e del Roma, Toni Savignano, che gli procurò l’appuntamento (gli feci raccontare l’episodio in un articolo che pubblicai sul settimanale Lo Stato). Lauro fece fare anticamera a Longanesi. Spazientito per l’attesa, Leo andava su e giù senza sedersi. Poi Lauro ricevette i due nello studio che affacciava su Piazza Municipio, dopo aver percorso interminabili corridoi tra ali di vigili in alta uniforme.
Fu un dialogo tra sordi. Leo tentò di parlargli dei circoli e della necessità di fondare un movimento di centrodestra oltre i partiti; don Achille non lo ascoltava e gli parlava invece di Napoli, lo faceva affacciare al balcone, gli mostrava i cambiamenti che voleva apportare alla Piazza e al teatro Mercadante, per rendere bella e moderna Napoli. A un certo punto Longanesi non ce la fece più, sibilò a Savignano «non c’è niente da fare», si alzò di scatto, salutò «’o Comandante» e schizzò via dallo studio. I sogni politici di Longanesi, di sinistra e poi di destra, per due volte, morirono a Napoli tra le braccia di due sindaci della città, uno comunista, l’altro monarchico.
Ma Longanesi non fu una specie di Gramsci, semmai il suo rovescio perché il suo progetto non fu quello di organizzare la cultura, ma di disorganizzarla, cioè liberare il talento da ogni ceppo militante e da ogni servitù di partito. Anche in epoca fascista, tanto più allineate apparvero le riviste longanesiane ai dettami di regime quanto più disorganiche, vivaci e scapigliate furono di fatto. Longanesi mantenne, anche sotto il regime, una divertita libertà che riuscì a esercitare anche sotto l’antifascismo. Perché aveva l’impermeabile dell’intelligenza libera. Col Duce non condivise la romanità, semmai la romagnolità.
Longanesi pensò a uno stile, a un gusto, ma si guardò bene dal volere una borghesia ideologica, compatta e simmetrica al comunismo e alla sinistra. Teneva più a Bodoni che a Machiavelli; fu uomo di carattere, ma tipografico. Fautore dell’ordine, Longanesi si distinse per il suo disordine creativo. Tentò di far nascere negli anni Cinquanta una destra mezza tradizionale e mezza paleoberlusconiana, con qualche venatura asburgico-leghista a nord e borbonico-laurina in quel di Napoli. Ma Longanesi viveva di lampi e d’ironia, non era un leader politico. Era incostante e scoppiettante, non certo uno stratega a diesel. Così il progetto naufragò. La destra per Longanesi era conservatrice e leggermente anarchica, ma non priva di senso dello Stato. Come Guareschi, Leo amava l’italianità mediterranea, che è cattolica anche quando è pagana, popolare anche quando è borghese, individualista anche quando invoca l’autorevolezza dello Stato, provinciale e strapaesana anche quando è cittadina e milanese. Differente, insomma, dalla destra anglosassone. Longanesi sognava un conservatorismo nostrano, immerso nel nostro ragù più che nel brodo calvinista e protestante. Amava l’America come ombrello protettivo e arnese d’uso, non come modello di vita e di cultura. Aveva una visione solare della borghesia italiana, non umbratile o piovosa. Una borghesia rispettabile ma non austera, leggermente giocosa.
Ma la borghesia italiana, alla fine, perse il suo status e la sua funzione proprio per la sua voglia di mimetizzarsi e somigliare agli altri, i proletari di casa o le borghesie di fuori. Volle apparire a tutti i costi nuova e d’importazione, non discendente da una tradizione e da una storia dignitosa, ma figlia smaliziata del proprio tempo. Alla fine la borghesia italiana morì travestita da radical chic, in versione finto-proletaria. E finì all’inferno perché desiderò la borghesia d’altri. Longanesi ne scrisse in anticipo l’epitaffio, le scattò la foto per la lapide futura e le dedicò non fiori ma opere.