Giampaolo Pansa, Libero 23/11/2014, 23 novembre 2014
Avete mai visto uccidere un poliziotto? Io sì. Mi accadde a Milano nel 1969, in un novembre più o meno simile a questo, il mercoledì 19
Avete mai visto uccidere un poliziotto? Io sì. Mi accadde a Milano nel 1969, in un novembre più o meno simile a questo, il mercoledì 19. Come avviene oggi, anche allora la Triplice sindacale aveva proclamato uno sciopero generale. Al Teatro Lirico, in via Larga nel centro della città, i capi delle tre organizzazioni avevano tenuto un comizio nemmeno tanto incendiario. Il più applaudito era stato Bruno Storti, il segretario generale della Cisl, tribunizio, sempre alla ricerca dell’effetto parolaio. Poco dopo le undici, la gente raccolta al Lirico cominciò a sfollare. Faceva freddo, c’era il sole, il cielo su Milano era altissimo e azzurro. Lo scenario giusto perché non succedesse nulla. Invece su via Larga comparvero all’improvviso tre cortei. Uno del Movimento studentesco che dopo essere stato davanti al Palazzo di giustizia stava tornando all’Università. Il secondo di anarchici, non più di una cinquantina. Tra loro c’era anche un frenatore delle ferrovie, un quarantenne con baffi e pizzetto che qualche settimana dopo sarebbe diventato il centro di un enigma mai risolto: Giuseppe Pinelli. Il terzo corteo era il più imponente. A organizzarlo era stata l’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti. Una parata con bandiere rosse, striscioni, cartelli pieni di promesse: “Il governo rivoluzionario darà una casa a tutti”. Quasi un migliaio di persone, con molte donne e bambini. Al collo portavano fazzoletti tutti uguali, con la scritta: “Servire il popolo”. I bambini alzavano il libretto rosso di Mao. All’improvviso esplose il caos. Via Larga venne invasa da giovani decisi a scontrarsi con la polizia che sorvegliava l’uscita dal Lirico. Cominciarono a farlo subito grazie a un arsenale adatto alla battaglia: il cantiere per rifare la facciata dell’anagrafe comunale, accanto al teatro. Decine di tubi d’acciaio Innocenti divennero armi micidiali. Uno di questi, usato come lancia, trafisse un giovane agente che guidava un gippone. Insieme ad altri due cronisti, lo vidi accasciarsi sul volante e sbandare. Morì poco prima delle tre del pomeriggio al Policlinico, dopo un inutile intervento nel reparto di chirurgia d’urgenza. Il poliziotto ucciso si chiamava Antonio Annarumma. Aveva 22 anni e veniva da Monteforte Irpino, un paese della provincia di Avellino, stretto a sud dalla piana di Battipaglia, un posto da disperati, e a nord dal deserto dell’Alta Irpinia. Quattromila anime, compresi i mille emigrati all’estero. In quel mortorio non mancava soltanto il lavoro. Niente cinema, nessun ritrovo, zero sale da ballo, una piazza per passeggiare e basta. A Monteforte la vita era ferma a due secoli prima. Guardare il nastro dell’autostrada Napoli-Bari, a mezza costa sulle colline che fronteggiano il paese, era scrutare la luna. Il padre di Antonio, Carmine Annarumma, era un bracciante uscito da un romanzo sulla miseria dell’Ottocento. Quando il parroco e il maresciallo dei carabinieri andarono a informarlo che il figlio era morto, stava tornando dal lavoro sui campi. Tanto sfinito dalla fatica che, lì per lì, non comprese quel che gli stavano dicendo. La fine di Annarumma fece capire, a chi voleva intendere, che esistevano ragazzi in divisa incaricati di proteggere la nostra tranquillità anche a costo di morire. Ma la borghesia di sinistra continuò a considerare nemici i poliziotti e i carabinieri. Sull’agente ucciso in via Larga si costruirono favole assurde, raccolte da una parte dei giornali. In quel tempo emerse un paradosso che resiste tuttora. Più un ceto era abbiente e acculturato, più odiava i poveri che per uno stipendio da fame avevano il dovere di tutelarlo. Me ne resi conto il giorno che vidi il gesto di una ragazza che conoscevo di vista, nipote di un vecchio avvocato. In uno dei tanti sabati del disordine milanese, camminava nel gruppo di testa di un corteo. Quando si trovò di fronte alla prima fila di agenti, con un gesto improvviso si alzò la gonna, si calò lo slip e mostrò il tesoro che custodiva tra le cosce. Quindi urlò: «La vedete questa fica? Non è roba per voi, sporchi questurini, ma per i proletari che voi della pula picchiate e uccidete!». Da quell’epoca sono trascorsi quarant’anni, un tempo infinito che non devo voltarmi a scrutare per non avvertire il vuoto alle mie spalle. Eppure è ricominciata la stessa storia di allora. Poliziotti e carabinieri sono di nuovo sotto accusa. Picchiano gli operai delle aziende in crisi. Pestano persino le donne incinte e gli provocano l’aborto. Non sono più forze dell’ordine, perché fomentano il disordine di chi si limita a protestare. Replicano con cattiveria ai mattoni, alle pietre, alle molotov che gli piovono addosso. Non tutti gli italiani la pensano così. Ma ho il sospetto che nel governo stia prevalendo un atteggiamento suicida. La sinistra, o quanto le assomiglia, vorrebbe dormire sonni tranquilli, protetta da angeli custodi capaci di controllare le piazze con qualche appello urlato nei megafoni. «Se vi attaccano, dialogate» sembra essere la norma cardine delle nuove regole d’ingaggio per le forze dell’ordine. A questo punto dovrei tirare in ballo il premier, il Matteo Renzi che ama dipingersi come un boy scout pronto a comprendere il “disagio sociale” di chi protesta. Però mi sono stancato di considerarlo l’unico ispiratore di un atteggiamento che considero sbagliato, perché capace di produrre il peggio invece del meglio. E preferisco confessare ai lettori del Bestiario le mie previsioni amare. In questo inverno del 2014, l’Italia si troverà al centro di una tempesta dagli esiti ignoti. Tutti gli attori in campo stanno uscendo di senno. Persino un furbone come Maurizio Landini, il capo della Fiom e futuro leader della Cgil, si lascia scappare parole incaute. Gli antagonisti, gli anarchici che maneggiano bombe, le truppe dissennate dei centri sociali, i cani sciolti che vogliono il caos, diventeranno sempre più aggressivi. Ogni giorno, in molte città italiane, qualcuno farà la prova generale dello sfascio. Gli italiani pacifici hanno un solo difensore: le forze dell’ordine. Se ne rende conto il boy scout di Palazzo Chigi? Oppure considera anche questi cittadini per bene dei gufi, dei rosiconi, degli inguaribili pessimisti che non vedono il glorioso futuro della nostra repubblica? Il premier deve stare attento a non commettere questo errore. Allo stesso modo deve sapere che garantire la tranquillità sociale è un dovere primario rispetto al “disagio sociale”, l’attenuante escogitata da un magistrato per lasciare in libertà quattro rumeni che avevano occupato un appartamento non loro. Anche un bambino è in grado di prevedere che la crisi economica porterà in piazza milioni di persone che hanno perso il lavoro o temono di non trovarlo. È uno scotto che non pagherà l’Italia da sola, ma anche altre nazioni europee. Soprattutto chi vive nelle grandi città dovrà sperare che la barriera degli agenti e dei carabinieri sappia reggere l’urto nel modo migliore. Anche nel caso che ci scappi il morto da una parte o dall’altra, un evento terribile sempre dietro l’angolo. Per tornare alla storia di Annarumma, resta da aggiungere che la sera del 19 novembre 1969 molti agenti volevano uscire dalla caserma Sant’Ambrogio. Per invadere l’università, con le armi in pugno. Quella sommossa fu scongiurata. Il Padreterno ci protesse tutti. Ma confidare in lui non basta, poiché anche Iddio qualche volta si distrae. di