Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 22 Sabato calendario

QUI SI DROGA IL CAVALLO DOPATO

[Intervista a Massimo Fini] –
È l’intellettuale che la Lega di Matteo Salvini vorrebbe. Recentemente, anzi, il leader neo-padano lo ha detto chiaramente: vedrebbe bene lui e Pietrangelo Buttafuoco a dare supporto ideale alla sua battaglia. Massimo Fini, giornalista e scrittore, classe 1943, cremonese, non si arruola però.
Continua a vergare i suoi interventi corrosivi su Il Fatto e si dedica alla scrittura, cioè alla sua personale visione del mondo, permeata di un antimodernismo colto. Il suo editore, Marsilio, lo riporterà in libreria a febbraio con Una vita: un libro per tutti e per nessuno. «Sarà un’autobiografia particolare», spiega al telefono dalla sua casa milanese, «un attraversamento della vita italiana in questi 70 anni e più».
Domanda. Senta Fini, lei se l’è sempre presa con l’industrialismo, del quale capitalismo e marxismo erano facce diverse. Ora in Italia, viviamo da tempo una crisi economica dura e la partenza della Fiat, ora Fca, verso l’America ne simboleggia il culmine...
Risposta. La crisi è un fenomeno mondiale, che ha enfatizzato tutte le negatività di quello che chiamo industrial-capitalismo, appunto.
D. Però nell’epopea di casa Agnelli, c’è un simbolismo forte, ammetterà...
R. Beh, certo c’è quello di un declino netto di una famiglia. Gianni Agnelli è stato il simbolo dell’industria italiana dal Dopoguerra in poi. E questi nuovi, gli Elkann intendo, non hanno certo il carisma che poteva avere lui. Tuttavia credo che neppure quello sarebbe bastato: siamo in presenza di un fenomeno planetario. E infatti Sergio Marchionne è il manager che meglio impersonifica la globalizzazione.
D. Lei ha conosciuto bene anche Susanna Agnelli, se non ricordo male. Donna che ha fatto molte cose: il ministro e s’è inventata Telethon. Avrebbe fatto magari meglio «Suni» dei Jaki Elkann?
R. Meglio cioè la zia dei nipotini? Era una donna di grande intelligenza, di temperamento, di grande charme, ma temo che sarebbe stata travolta da questo fenomeno.
D. L’altro ieri però intervistavo un’industriale, Marina Salamon, che mi diceva: siamo troppo pessimisti, inculchiamo una paura nei nostri figli che non avevano i nostri nonni sotto le bombe. Che ne pensa?
R. Questo è vero. Non siamo più abituati alla difficoltà: la generazione che usciva dalla guerra, della quale faccio parte marginalmente, anche io che ho vissuto il dopo, avendo affrontato situazioni tragiche, aveva un temperamento diverso. Non ci si faceva spaventare, come oggi, da una caldaia che si rompe o da un frigo che non funziona. Chi era sfuggito alle bombe alleate e ai rastrellamenti tedeschi, non si faceva venire nevrosi.
D. C’era più fame...
R. Soprattutto più voglia di vivere. Oggi l’Italia ha una cupezza davvero notevole. Si enfatizza la crisi quando, in realtà, le cose potrebbero anche peggiorare.
D. In che senso?
R. Il nostro è un sistema mondiale, di sviluppo a crescita esponenziale, ma non si può crescere all’infinito e ci sarà un tracollo. Qui si droga il cavallo dopato, col danaro inesistente, senza stampare moneta cioè, ma con il credito e la bolla iperspeculativa. E saranno dolori. Questo è un mondo che fa star male anche chi potrebbe star bene.
D. E cioè?
R. Anni fa, ero uscito con due libri. Uno su Nietzsche e l’altro, Il vizio oscuro dell’Occidente, che parlava proprio di queste cose. Dopo un po’ di tempo mi chiama Luca Cordero di Montezemolo.
D. Dicendole?
R. Che il mio libro gli era piaciuto.
D. Quale?
R. Eh, è quello che gli chiesi. E, pensi un po’, era proprio Il vizio oscuro, cioè un libro che sparava a palle quadre sul mondo a cui Montezemolo apparteneva.
D. Qualcuno dice che l’Europa, cioè il mettersi assieme, anche con la medicina amara della moneta unica e dell’austerità, sia l’unica ricetta.
R. Lo penso anche io ma se l’Europa si unisce anche politicamente. Perché allora è possibile quell’autarchica che un singolo Paese non può adottare.
D. Fare coi nostri mezzi, lei dice...
R. Sì, e un protezionismo forte, almeno saremo al riparo dagli effetti globalizzazione. Ma occorrerebbe che le leadership politiche lo volessero. Da questo punto di vista la Lega Nord di Gianfranco Miglio e Umberto Bossi aveva avuto un’intuizione.
D. Ossia?
R. Che con la scomparsa degli Stati nazionali, ci sarebbe stato spazio per delle macroregioni, coese per tipo di socialità, clima, cultura.
D. Non scomparendo gli Stati nazionali, gli epigoni di Bossi, cioè Salvini e soci, attaccano «Bruxelles ladrona».
R. Secondo me è meglio cercare l’unità politica anziché sfasciare come vuol fare Salvini. Nessun paese, preso singolarmente, può resistere: anzi io sarei per un’Europa unita, neutrale, nucleare, armata e autarchica, come ho scritto qualche anno fa. L’unica possibilità per resistere agli Stati Uniti, ormai non più alleati ma al massimo competitors sleali, alla Russia, alla Cina e gli altri.
D. Dunque il neopopulismo di Salvini non la convince. Cosa salva?
R. Beppe Grillo, anche se un po’ confusionario, ma d’altra parte ha fatto il comico per tanti anni.
D. Perché le piace?
R. È l’unico che ha capito, seppure in modo frammentario, che non si può continuare con le due categorie di destra e sinistra, vecchie di due secoli e mezzo. Un tempo questo, che, tra l’altro, ha corso a una velocità stratosferica.
D. Cos’altro hanno capito i grillini?
R. Che il vero valore non è la ricchezza o le cose che questa genera, ma il tempo.
D. Quando dicono di affrancarsi dal lavoro, perché c’è la tecnologia?
R. Il lavoro, come l’hanno inteso marxisti e liberisti, c’ha condotto comunque a una schiavitù di salariati. Dico sì alla tecnologia non per sbattere fuori la gente quanto per darle appunto dei tempi di vita. Le faccio un esempio...
D. Prego...
R. Se nel Settecento le dieci persone che lavoravano un campo si fossero accorte di poterlo fare anche solo in otto, non avrebbero cacciato le due in esubero.
D. E cioè?
R. Si sarebbero suddivisi il tempo in più, per andare all’osteria a bere e a giocare, corteggiare la morosa o far le corna alla moglie.
D. E non è stato così? Oggi lavoriamo molto meno.
R. Sì, ma oggi abbiamo trasformato quella risorsa in tempo libero, cioè da consumare anziché da vivere.
D. Insomma, meglio il M5s che la Lega 2.0?
R. I grillini sono giovani, fanno errori, ma han capito un cambiamento culturale che è in tutto il mondo. Salvini no. In questa prima fase il M5s avrebbe dovuto essere più leninista come partito: nel senso che, nella fase iniziale, uno che pigli le decisioni per tutti ci deve essere.
D. E non le continue consultazioni della Web...
R. Un errore, una roba farraginosa, che fa perder tempo. «Uno vale uno», come dice Grillo, va bene. Ma all’inizio bisogna marciare spediti
D. La diversità sui cui hanno potuto contare sembra non esserci più: vedi la contestazione a Grillo a Genova o la Paola Taverna respinta a Tor Sapienza. Non è che evitare di andare in tv, a spiegarsi, sia stata una scelta alla lunga, non vincente?
R. No, secondo me è stato opportuno distinguersi dalla politica politicante. E comunque, sei sondaggi li danno ancora al 20%, uno zoccolo duro c’è.
D. Lei che ha osservato con attenzione il Carroccio di Bossi, che differenze vede con quello «piacione» di Salvini.
R. Ha accentuato il carattere xenofobo che nella Lega del Senatur c’era ma relativamente. Per Bossi, della Padania faceva parte chi ci viveva e ci lavorava. Concettualmente non era razzista. Dopodiché lui, localista e antiamericano, s’è andato ad alleare con Silvio Berlusconi, globalizzatore e amerikano. E ha smarrito quell’identità.
D. Matteo Renzi, ovviamente, non le piacerà...
R. Sì, perché ci vedo una prosecuzione del berlusconismo. Né mi piacciono i suoi modi, come quello di annunciare, magari via Twitter, dei provvedimenti importanti, che poi vengono rivisti. Però...
D. C’è un però?
R. Però ha il vantaggio di non parlare politichese e di farsi capire. E poi dico che non va attaccato su tutto come invece fa il giornale per cui scrivo.
D. Per esempio?
R. Per esempio questo Jobs Act mi pare una cosa ragionevole, allo stato.
D. Renzi e Jobs Act che vengono attaccati duramente dai sindacati. Oggi (ieri, ndr) Maurizio Landini ha detto che «Renzi non ha il consenso della gente onesta».
R. Il sindacato sconta errori di decenni, in cui ha tutelato solo gli occupati. Sempre. Difendendo non solo chi lavorava ma anche i lavativi. Bisognerebbe ricordare quando, nella tipografia de l’Avanti, per cui io scrivevo, pisciavano sulle rotative. Ma erano difesi dai sindacati.
D. Tipografi in lotta...
R. Se è per questo anche i giornalisti non erano da meno. L’Europeo chiuse perché su 55 giornalisti, lavoravano in una ventina. Le racconto un episodio.
D. Avanti...
R. Una volta andai a lamentarmi con Lanfranco Vaccari, il direttore, di uno dei nostri strapagati colleghi: non faceva un cazzo. Tre pezzi al mese, quando andava bene, e prendeva più di tutti. Il direttore lo propose per una lettera di richiamo.
D. E l’editore?
R. La respinse, chiedendogli se era impazzito.
D. Era l’Italia della carta stampata. Ora siamo a quella dei talk show. Sebbene tutti dicano che contino solo i socialnetwork e internet, la tv continua a generare consenso...
R. Guardi i talk oggi sono una trentina ma, mi ha detto Aldo Grasso, nell’insieme hanno un’audience dimezzata rispetto a pochi anni fa.
D. Che segno è?
R. Un fenomeno parallelo all’astensionismo. La gente non vuol vedere gli show coi politici di turno. C’è una rivolta che è più pericolosa di quella che alcuni paventano in Grillo.
D. Gli scontri dei giorni scorsi sono un po’ figli di questo sentimento?
R. È una galassia variegata che ha una esasperazione contro la politica nata dalla depressioni in cui la gente vive. E che non riguarda solo i poveri e i poveracci. Lo si vede da un altro fenomeno.
D. Quale?
R. Che diminuiscono gli omicidi «tradizionali», definiamoli così, e aumentano quelli da gesti inconsulti, che Guido Ceronetti chiamerebbe «delle villette a schiera».
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 22/11/2014