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 2014  novembre 22 Sabato calendario

SE UN “LIKE” FA PERDERE IL LAVORO

Divampa il dibattito su quanto un post su Facebook possa essere considerato «giusta causa» per un licenziamento. Il primo caso è di tre giorni fa e riguardava una lavoratrice della Perugina-Nestlè che aveva rimbrottato in un post il caporeparto, che avrebbe usato un termine non appropriato rivolgendosi alle maestranze. Pur non avendo fatto nomi, le costò nell’immediato una lettera di licenziamento.
La vicenda divenne pubblica, la donna era una sindacalista, per di più apparteneva a una categoria protetta. Dopo confronti di vertice tra le parti in causa è finita con un semplice provvedimento disciplinare, a fronte di un’ammissione da parte della signora di non appropriatezza della frase postata.
Di ieri è la notizia di una storia simile, che ha colpito invece il responsabile del reparto ortofrutta di un centro servizi e distribuzione di Cagliari. L’uomo aveva semplicemente commentato con un «Like» il post di un suo ex collega, oggi pensionato, che riguardava l’azienda stessa.
Per lui era scattata una prima contestazione disciplinare per «manifesta violazione degli obblighi contrattuali di diligenza, correttezza, buona fede e lealtà», nella quale, come da prassi, s’invitava a far pervenire giustificazioni scritte. Evidentemente non ritenute soddisfacenti, perché il 30 ottobre il signore è stato comunque licenziato.
Rispetto al modello classico di contenzioso per comportamenti anti aziendali l’elemento di novità potrebbe, all’apparenza, essere che le contestazioni ai dipendenti sono entrambe state fatte per scorrettezze «social mediatiche».
È bene innanzitutto che si comincino concretamente a sentire, come principio culturale oramai sedimentato, il peso e la responsabilità dei comportamenti nei luoghi d’espressione pubblicamente condivisi on line.
Non penso, ad esempio, che ci siano differenze con un dipendente qualsiasi che il suo apprezzamento sul caporeparto l’avesse graffito con la bomboletta spray sul muro principale della sua azienda. Nessuno avrebbe considerato che il luogo su cui la frase fosse stata scritta cambiasse il merito del suo contenuto.
Si pensa invece che la scritta su Facebook, perché immateriale, sia meno lesiva di un patto aziendale. Eppure, anche nel più scalcinato dei profili, il potere di diffusione del messaggio è incommensurabilmente più potente e veloce di quello che può essere scritto su un muro.
Maggiormente ambigua è la responsabilità attribuibile a un Like, un solo click invece che un commento articolato. Però non esiste ancora giurisprudenza in proposito, vale quindi l’interpretazione, che nel caso della Sardegna è stata di volontaria adesione a un presa di posizione ostile verso la propria azienda, quindi un atto di slealtà.
Gianluca Nicoletti, La Stampa 22/11/2014