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 2014  novembre 22 Sabato calendario

LA PROCESSIONE QUOTIDIANA AL CIMITERO CITTADINO “È UNA PICCOLA CERNOBIL”

«Continuano a portarceli ogni giorno», dice passando sul prato verde che separa ordinatamente tutte le lapidi, fra le calle e le azalee appoggiate sulla pietra con una dolcezza strana, come se volessero ancora consegnare alla pace la sconfitta della vita. L’ultimo è lui, Maurilio Frulan, e il custode, Pierpaolo Cornaglia, lo sussurra piano quasi avesse paura di svegliarlo, «l’abbiamo appena seppellito», con un soffio che si perde nel silenzio, nel respiro di questo giorno grigio, lungo i sepolcri disposti in file parallele. Sono le vittime dell’amianto, «una strage che ci ha reso tutti fratelli», come dice lui, «perché ogni famiglia della nostra città ha pagato il suo debito a quest’ingiustizia». Ci è morto pure Marco Giorcelli, direttore per 19 anni del Monferrato, passati a raccontare ininterrottamente questa tragedia senza senso, anche dopo il giorno della sentenza dei suoi medici. «Mesiotelioma maligno epiteliomorfo. Il verdetto sta lì, in tre parole», diceva. E’ la stessa malattia che si è portata via «prima centinaia di lavoratori dell’Eternit, poi centinaia di cittadini, di età diverse. Esposizione di tipo ambientale, conclude il referto. Certo. Mica ho lavorato mai l’amianto. Ma a Casale Monferrato, questa città sfortunata che però non posso smettere di amare, fra queste famiglie devastate, io ci ho vissuto sempre. Noi di Casale Monferrato. Una piccola Hiroshima. Una piccola Cernobil».
Anche Pierpaolo ha perso suo padre, Enzo Cornaglia. «Lui aveva lavorato 35 anni all’Eternit», dice. Ma tanti altri no. Ha ucciso le mogli, i figli, i bambini, ha ucciso Foltran Giancarlo, il marito di Marisa, la fioraia che ha il chiosco all’ingresso, e lui lavorava al golf Margara e andava a correre tutti i giorni, fino a quella mattina che gli hanno fatto i raggi e il medico non osava guardarlo in faccia: «Basta averla inalata una volta nella vita, quella polverina è un killer che non perdona». Sono fibre che si incastrano nei polmoni, cercò di spiegare. «Aveva 52 anni e non aveva mai fatto un giorno di ospedale. Lo chiamavano Roccia». A Casale Monferrato sono cadute le mogli che pulivano gli abiti di lavoro, i figli che hanno abbracciato i padri come fanno tutti i bambini del mondo in tutte le parti del mondo, e se non bastava, quella polvere bianca arrivava incanalata dalle case, e sembrava neve, ma non lo era. Uno ci poteva giocare. Pierpaolo ci conduce più avanti, lungo queste lapidi abbellite dalle gerbere, dalle orchidee, dai lilium, fino a quella di Giuseppe Crepaldi, 19/3/36 e 8/7/2007, con la targhetta «Vittima dell’amianto» schiacciata sull’angolo di destra, in alto, dove Walter Guaschino lì accanto, al numero 9, ha appeso un rosario. Raccontava della scoperta della malattia e della gentilezza di tutti in paese, perché aveva il mesotelioma pleurico, la malattia dell’Eternit, «un mostro che non ti fa dormire la notte, il momento più duro, quando sei solo e ci pensi». E’ come se lo vedessimo, come se li vedessimo tutti, che sedeva nel letto, la schiena diritta, il volto che nel lento avvizzimento mostrava ancora il naso diritto come in questa foto sulla lapide, questa fronte alta, gli occhi lucidi, appesi a quell’uscio che veglia sulla morte prima che ci ghermisca, in quel rettangolo dolente di luce ingombrato di ricordi, di cose passate che non possono più venire.
Bruno Pesce, dell’Associazione vittime dell’amianto, ricorda le telefonate, come quella di Paolo Bernardi, che riposa qui, manutentore alla Eternit, che un giorno lo chiamò per dirgli la solita frase: «Bruno, ci sono dentro anch’io». Gli disse che «era andato dal capo del personale e gli aveva detto: dottore, mi hanno riconosciuto una fibrosi polmonare, ho 3 bambini piccoli, vorrei vederli crescere e io respiro troppa polvere nel mio lavoro. Mi cambi posto. E lui gli aveva risposto: Bernardi, lei sa dov’è la porta». La sua porta l’aveva chiusa per sempre nel ’99: mesotelioma. Pesce ricorda anche la telefonata di un suo amico, che gli diceva quella frase, «Bruno ci sono dentro anch’io», e che lui doveva parlare a un convegno e non riuscì a farlo. Pianse al microfono e non si fermò più. «Siamo tutti una famiglia distrutta dal dolore». Solo Romana non ha più lacrime, solo lei, Romana Blasotti, non riesce neanche più a trovarle. Ha perso il marito, la sorella, la figlia, il nipote, una cugina. L’ultima volta che ha pianto è stata al funerale di Maria Rosa, sua figlia. Al cimitero, mentre calavano la bara, ha pensato: «Toccava a me». E quando ha incontrato un amico gli ha chiesto disperata: chi è stato più fortunato, mio marito che se n’è andato tanti anni fa o io? Lui l’ha guardata come stranito e le ha detto: «Non so». E’ così.
La lapide di Maria Rosa è qui, qualche fila dietro a quella di Paolo Ferraris, l’assessore stroncato pure lui dall’amianto. Lei sorride da una foto. Le piaceva sciare. Solo il marito di Marisa non c’è in questa processione di croci e di dolore. L’ha voluto lui: «Mi diceva: mi tieni vicino a te, mi fai vedere le partite. Era un tifoso della Juve». E lei allora ha messo le sue ceneri in un vaso, sul comodino. Ogni tanto ci parla.
Pierangelo Sapegno, La Stampa 22/11/2014