Simonetta Fiori, la Repubblica 22/11/2014, 22 novembre 2014
CERATI SEGRETO “CARO EINAUDI ORA LE SPIEGO COS’È L’EINAUDI”
«Egregio dottore Einaudi», sempre «con ossequio», ora le spiego cos’è l’Einaudi. A un anno esatto dalla scomparsa di Roberto Cerati, lo storico direttore commerciale dello Struzzo divenuto poi suo presidente, si potrebbe riassumere così il significato delle sue quarantuno lettere inedite, selezionate con intelligenza da Mauro Bersani per una strenna einaudiana fuori commercio. Documenti che sottraggono il mite “venditore” di via Biancamano dall’ombra che egli stesso volle tessere intorno a sé. Non più devoto servitore del principe, piccolo monaco del libro sempre nerovestito, che si nasconde nelle ultime file quando s’alza il sipario sulle celebrità.
Altro che timido suggeritore di prezzi, collane e tirature. Quello che affiora dalle Lettere a Giulio Einaudi e alla casa editrice 1946 1-979 è un sapiente regista che va molto oltre la mansione di direttore commerciale, una sorta di “coscienza critica” mai sazia di ricordare qual è chimica perfetta che fa dello Struzzo qualcosa di più «d’un bravo editore di tanti e buoni libri». Un consigliere personale che a dispetto del “lei” e della compassata cerimonia tocca le corde più intime del suo interlocutore, «perché tra persone che hanno l’orgoglio del silenzio solo la distanza consente di dirsi alcune cose». Un critico esigente che sa distinguere tra Il giorno della civetta di Sciascia e un romanzo minore della Ginzburg, agguerritissimo quando si tratta di battere “in volata” la concorrenza. Talvolta anche impietoso, soprattutto con se stesso. Perché «ognuno di noi è la strada», avrebbe detto in tempi più recenti, e «sulla strada bisogna tornare», sapendo che «nella vita non si sceglie ma si è scelti ».
Cerati fu scelto dall’Einaudi, che per lui significava scuola di coscienza civile e di pensiero. Qualsiasi cosa oscurasse la sua missione — i refusi nel saggio di Sadoul, il risvolto «moscio e fumoso» di Gadda, un ritardo nella distribuzione, il prevalere della convenienza sull’interesse comune — lo feriva sul piano personale. «Delusione», «non ricatto», specificava. Lo deluse moltissimo Carlo Levi, quando permise a Mursia l’edizione scolastica di Cristo s’è fermato a Eboli ( «Toglieremo dal campionario tutti i libri di Levi», comunica secco all’editore). E lo afflisse ancor più la scelta di Calvino di dare a Zanichelli l’antologia scolastica che Cerati aveva tanto caldeggiato. «Caro Italo », gli scrive nel settembre del 1968, «io che non vendo libri perché ci traggo vantaggi e guadagni, in un caso come questo non mi sento più molto a posto tra l’impegno e come vanno le cose del mondo».
Come vanno le cose del mondo. Si trattava di un peccato non redimibile per uno che sei anni prima aveva accolto la sua promozione a direttore commerciale quasi con rassegnazione: «Se questo doveva essere, e sia. Quello che per me conta è lavorare con lei e per lei». E che alla causa di via Biancamano avrebbe dedicato «sette giorni alla settimana, trentuno giorni al mese», «patologicamente convinto che ogni riposo è una colpa, ogni malattia una vergogna», annota nel 1972 in una lettera di dimissioni, naturalmente respinte. Sempre pronto a dare battaglia, perché l’Einaudi è una vocazione proprio per il suo progetto politico e culturale. «Vendere Calvino è come agitare una bandiera da combattimento, vendere lo Sciascia è come dare spettacolo », scrive all’editore a proposito di La giornata d’uno scrutatore . Il libro non era stato compreso da «critici idioti anche se amici» come Oreste del Buono o Paolo Milano. E allora bisogna buttarsi nella mischia, «la Giornata non diletterà fanciulle come le favole ma merita un ben maggiore successo». Ed è qui che «si inserisce il bisogno di un’azione concertata sul piano culturale».
Azione culturale. Catalogo. Lavoro. Cerati non sembra smarrire mai la strada. Anche davanti a un’impennata degli incassi, non viene meno alla sua filosofia editoriale. «Quando dieci libri vanno», scrive all’editore nel giugno del 1962, «tu devi allineare altri dieci che vuoi vendere». Quello di Einaudi «deve restare un venditore di catalogo, che rifornisce Saggi e Storica, Pbe e Nue, per poi passare al terreno scontato dei Coralli e Supercoralli». Perché è «il buon saggio, il buon libro di cultura» che fa la Einaudi, e «mettergli intorno i Cassola e i Bassani diventa un gioco». («Bene!» approva in margine l’editore). E quando il mercato comincia a cambiare, riesce a intuire il futuro con rara preveggenza, paventando un venditore- Arlecchino pronto a indossare i panni della novità del momento, felicemente ignaro di ciò che è stato già prodotto, «perché il vecchio toglie allegria alla vita».
No, Cerati mai si fece Arlecchino, e soffrì nel vedere gli altri diventarlo. Bisognava ritrovare la strada. «In te ipsum redi», mi scrisse tre anni fa in una lettera che rispondeva alla richiesta di un’intervista-bilancio sull’Italia. «La strada che ho percorso aveva indicatori umani e semplici. In quella sulla quale ora camminiamo non mi sento né proprio né garantito ». Tutto nel frattempo era cambiato, nell’editoria e nella società. «Si producono più libri, ma si pensano ancora i libri?». Nei suoi tempi lontani, «ognuno aveva dentro di sé equilibri di ambizione e di bottega temperati da sognoesperienza-umiltà». Tutto ciò «è stato pian piano corrotto da pseudoingegnerie di mestiere che sono il contrario della natura umana. Si è allargato il mercato, ma è scaduta la conoscenza». Bisognava tornare sulla strada. «In te ipsum redi», ripeteva nelle ultime righe di una lettera che fu scritta, ma mai spedita. Forse perché «se devo ricordare ho il pudore dell’ostentazione. E se devo indicare, ho il pudore della presunzione ». Essere sempre, apparire mai: il suo motto fino alla fine.
Simonetta Fiori, la Repubblica 22/11/2014