Giuseppe Oddo, Il Sole 24 Ore 22/11/2014, 22 novembre 2014
«O TI AUTODENUNCI OPPURE LÌ C’È LA PORTA»
Arrivano, svuotano il conto e convertono il denaro in diamanti. «I gioiellieri di via Nassa ne stanno vendendo in quantità: una bustina un milione di franchi», racconta un professionista luganese. La leggenda narra che qualche facoltoso italiano, pur di non farsi identificare dal fisco, abbia addirittura preferito donare i propri soldi, avendo messo al sicuro, altrove, il "malloppo" e ritenendo più conveniente regalare gli "spiccioli" rimasti a Lugano piuttosto che rischiare di essere inseguito a vita dalla Finanza. Gli irriducibili le escogitano tutte pur di sottrarsi al nuovo corso della weissgeldestrategie, la strategia del "denaro bianco", avviata dal governo federale all’insegna della trasparenza: una politica che ha determinato il cambio di proprietà di istituti come Bsi e Banca Arner, storici rifugi di capitali italici, e che ha fatto diminuire il numero delle banche e dei loro addetti. Senza parlare delle fiduciarie: nel cantone se ne contano un migliaio e qualcuna naviga in cattive acque. Dal 2007 al 2013 i dipendenti bancari in Ticino sono diminuiti di circa 1.300 unità (lo scorso anno erano in tutto 6.465), su un calo complessivo di 9mila unità per la Svizzera. Nello stesso periodo, le banche che hanno sede in Ticino sono passate da 27 a 18 e il loro gettito fiscale è crollato dai 107 milioni di franchi del 2005, ai 19 del 2013, ai 12 stimati per il 2014. «Lo scudo fiscale di Tremonti è costato alle banche locali un calo dei volumi gestiti del 20-30%», ammette un esperto di fiscalità internazionale. Non a caso, accanto alle gestioni patrimoniali, gli istituti ticinesi stanno rafforzando le attività di banca tradizionale, come dimostra nel 2013 la crescita del 17% dei depositi e del 6% dei crediti ipotecari.
In realtà la trovata dei diamanti è solo un espediente maldestro e rischioso: una scappatoia per pesci piccoli. Se il patrimonio costituito in "nero" è di grandi dimensioni le cose si complicano. La Confederazione elvetica ha infatti sottoscritto l’accordo per lo scambio automatico dei dati fiscali, firmato da 44 Stati dell’Ocse, che obbligherà dal 1° gennaio 2018 banche e fiduciarie locali a rivelare la posizione patrimoniale dei propri correntisti - in pratica, a non più garantirne l’anonimato - ponendo i contribuenti italiani che non hanno aderito allo "scudo" dinanzi al cruciale dilemma: autodenunciarsi all’Agenzia delle entrate, accettando un ravvedimento operoso, con sanzioni limitate e benefici penali, o lasciare in "nero" i soldi esportati illegalmente, ordinandone il trasferimento in uno Stato offshore, ma con il rischio di lasciare tracce indelebili che conducano all’identificazione della "refurtiva" e a sanzioni molto più gravi e onerose.
Oltre tutto la fuga rischia di rivelarsi inutile, perché le varie Bahamas, Panama, Singapore, considerate blindate dal punto di vista fiscale e penale, sono tra i firmatari dell’accordo Ocse; al quale finiranno per adeguarsi.
Sostiene Giovanni Pagani, gestore di una delle più antiche fiduciarie di Lugano: «La maggioranza dei nostri clienti è già regolarizzata e paga correttamente le imposte, ma a chi ci chiede cosa fare dei capitali non dichiarati consigliamo di aderire ai programmi di voluntary disclosure dei paesi di residenza, perché la possibilità di trasferire e nascondere i propri soldi è ormai limitata. Tentare l’ultima fuga ha sempre meno senso, perché lo scambio di informazioni riguarderà paesi che proteggono strenuamente il segreto bancario e paradisi fiscali apparentemente inaccessibili». Già oggi, per esempio, Singapore non accetta più denaro non dichiarato. E neanche Cipro è più un porto sicuro dopo il colossale prelievo forzoso sui conti delle banche di Nicosia per impedire il tracollo finanziario dell’isola. Restano i "paradisi" arabi, quelli dell’Est, tipo il Montenegro, i paesi asiatici come il Kazakhstan, o la Russia e in prospettiva la Cina: ma lì il gioco si fa più pesante e pericoloso. Allora tanto vale starsene a Londra con lo status di resident not domiciled, residente non domiciliato, che consente a chi risiede nella capitale inglese di operare attraverso una società domiciliata per esempio a Panama, pagando zero imposte sui redditi.
Ma perché le banche svizzere non sono più quelle di una volta? «Per il semplice fatto che nemmeno le autorità degli altri paesi sono più quelle di una volta», risponde a tono Paolo Bernasconi, tra i più noti legali della Svizzera, ex procuratore pubblico di Lugano e Chiasso, nonché autore di un libro che sta andando per la maggiore: Avvocato, dove vado? (Edizioni Casagrande). La Confederazione elvetica subisce la pressione degli Stati europei come l’Italia, la Francia, la Spagna, la Germania, più o meno afflitti da crescita del debito pubblico, che per far quadrare i bilanci dichiarano guerra all’evasione, almeno sulla carta. Spiega Luca M. Venturi, consulente in comunicazione di banche e fiduciarie: «Qui il segreto bancario sta venendo meno nei fatti, è uno spauracchio, come dimostra il traffico di liste di clienti trafugate da funzionari infedeli e vendute all’estero». Ce ne dà conferma Bernasconi: «Il segreto bancario svizzero è stato molto rosicchiato. Le eccezioni a favore delle autorità fiscali straniere sono molto aumentate e aumenteranno ancora fino al momento dello scambio automatico di dati». La spinta tende ad aumentare con l’approssimarsi del big bang, quando i vari Stati disporranno di una piattaforma tecnologica comune che renderà compatibile lo scambio dei dati. A quel punto ogni paese dovrà "apparentarsi" con un altro, scelto tra i propri partner commerciali, e rendere accessibile le informazioni sui propri clienti bancari. «Tra quanti bussano alle porte della Confederazione c’è l’Unione europea, che chiede - prosegue Bernasconi - che i 28 Stati membri negozino accordi bilaterali non solo con noi, ma anche con Vaduz, Montecarlo, San Marino e Andorra».
Nella lotta internazionale all’evasione la Svizzera è in una morsa: stretta tra Ue e Usa, i quali sono considerati la locomotiva del G20 e dell’Ocse. I principali istituti scudocrociati, tra cui Ubs e Crédit Suisse, i due giganti, sono stati colti in flagrante nell’aiutare contribuenti americani ad evadere le imposte. Gli Stati Uniti considerano l’evasione un reato grave, che colpiscono con accanimento, anche se poi tollerano che il Delaware e il Wyoming consentano l’apertura di un conto senza alcun riferimento al beneficiario. Così hanno messo nel mirino quindici banche elvetiche con un contenzioso legale che ha visto fioccare multe miliardarie e che ha fatto emergere lo splendido isolamento politico della Confederazione, accentuatosi dopo la grande crisi del 2008. Per uscire dalla controversia, il Crédit Suisse ha dovuto pagare alla giustizia statunitense 2,3 miliardi di dollari, Ubs se l’è cavata con meno, 780 milioni, mentre Wegelin & Co. ci ha rimesso 80 milioni, ma ha accettato un accordo extragiudiziale che ne ha sancito la chiusura ed il conferimento di dipendenti, attività e passività (tranne le Us person) alla banca Notenstein. Dice ancora Bernasconi: «Negli Usa il 29 agosto 2013 si sono autodenunciate 106 banche svizzere che ora sono in spasmodica attesa di sapere che sorte le aspetta».
È in questo contesto internazionale che Berna ha deciso di sterzare politicamente. Spiega una fonte giudiziaria: «I primi passi risalgono al 2008, alla convenzione sull’obbligo di diligenza delle banche, un accordo privatistico che ha finito con l’avere valore di norma e che all’articolo 8 parla espressamente di divieto di prestare assistenza attiva all’evasione fiscale e a pratiche analoghe». Poi l’anno successivo il Consiglio federale ha annunciato che il diritto elvetico si sarebbe uniformato agli standard fiscali minimi dell’Ocse. A quel punto è stata imboccata una strada senza ritorno.
Dice il gestore di patrimoni di una grande banca ticinese: «Anche se qui l’evasione è sanzionata solo con un’ammenda, non accettiamo più contante, perché le giurisdizioni dei paesi nostri confinanti considerano questa un’attività illecita. Oggi dobbiamo avere la perfetta tracciabilità del denaro, dal mittente al destinatario. L’epoca del non dichiarato è tramontata». Nessuna legge impone a una banca svizzera di non accettare contante. Nei fatti, però, l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, la Finma, invita le banche a «gestire il rischio legale»: come dire, autodisciplinatevi o sarete sanzionate, anche se poi capita il cliente russo che per certificare la provenienza dei propri capitali esibisce la legal opinion di uno studio moscovita sulla cui affidabilità nessuno può mettere la mano sul fuoco; così come capita non di rado che operatori bancari elvetici siano coinvolti in operazioni di riciclaggio.
Replica Pagani: «Ormai l’atteggiamento delle banche è netto: se i capitali non sono dichiarati , o aderisci alla voluntary disclosure, come hanno fatto tedeschi, inglesi, austriaci, spagnoli, americani, portoghesi, che hanno tuttora soldi in Ticino, oppure te ne vai. Si sta chiudendo un’epoca». La maggior parte dei capitali emersi potrebbe comunque restare qui, se non altro per motivi di diversificazione del rischio e per la quantità e qualità dei servizi che gli istituti elvetici offrono alla clientela internazionale.
Di questo cambiamento epocale, in fondo alla Svizzera premono fondamentalmente due cose: uscire dalla black list (la lista nera sulla fiscalità) nei rapporti con l’Italia, che per un paese da 8 milioni di abitanti che vive di commercio internazionale è un danno economico-finanziario rilevante, ed ottenere che le sue banche possano operare in modo diretto all’estero. Oggi le banche svizzere sono presenti in Europa e negli Usa con società di diritto locale sottoposte alla Vigilanza degli Stati in cui operano. Se i loro promotori e i loro consulenti andassero a sollecitare in questi paesi il pubblico risparmio commetterebbero reato. «Domani - conclude Pagani - con una nuova reputazione, l’adesione all’accordo per lo scambio automatico dei dati e il riconoscimento delle società sorvegliate dal nostro regolatore da parte degli altri regolatori europei, il nostro Paese potrà attrarre nuovi capitali grazie alle sue competenze. Con un accordo tra Stati, le banche e le fiduciarie ticinesi potrebbero proporre liberamente i propri servizi sul territorio italiano e offrire consulenza ai clienti in Italia, mentre i capitali rimarrebbero depositati in Svizzera».
Giuseppe Oddo, Il Sole 24 Ore 22/11/2014