Marco Onado, Il Sole 24 Ore 22/11/2014, 22 novembre 2014
IL «BAZOOKA» DELLA BCE VALE SE SERVE A RIPARTIRE
La Bce è ormai pronta a intervenire in modo massiccio sui mercati per allontanare lo spettro della deflazione, che è divenuto il problema fondamentale non solo del Vecchio continente, ma dell’intera economia mondiale. Come ha ricordato qualche giorno prima del vertice del G-20 il ministro del Tesoro americano, il mondo non può permettersi il lusso di un "decennio europeo perso". E siccome gli anni persi sono ormai sette, sarà il caso di darsi una mossa.
Eppure, Mario Draghi ha dovuto mettere in campo tutte le sue abilità diplomatiche per cucire un consenso che sembra ancora fragile, se non sull’obiettivo, almeno sugli strumenti da utilizzare. È infatti ovvio che una banca centrale che rimane passiva di fronte a un obiettivo sistematicamente inferiore a quello di lungo periodo e alle sue stesse previsioni ha il dovere di intervenire. La prima decisione politica importante della neonata Bce fu di definire il proprio obiettivo di inflazione: annunciando che avrebbe perseguito un aumento dei prezzi inferiore, ma vicino, al 2% segnalò che il rischio di deflazione può essere anche peggiore di quello di inflazione, perché trascina l’economia in una spirale senza fondo, fatta di caduta della domanda e crescente insostenibilità dei debiti pubblici e privati. Esattamente come era successo alla Germania dopo la grande fiammata dell’iperinflazione.
Diversamente da quanto è avvenuto nei primi anni della crisi, il problema della Bce non è stato quello del mancato riferimento nel suo mandato alla crescita economica. Da quando lo spettro della deflazione ha cominciato a manifestarsi, gli ostacoli sono stati due, entrambi di natura politica. Il primo era il sospetto dei governi dei Paesi centrali (ma condiviso anche a Francoforte) che la Bce fosse chiamata allo sgradito compito di cavare le castagne dal fuoco a governi riluttanti a fare la propria parte nel risanamento dei bilanci pubblici e delle relative economie. Il secondo era il veto, sempre da parte dei Paesi centrali, Germania in testa, all’acquisto diretto di titoli pubblici da parte della Bce, in quanto non compatibile con la lettera del Trattato.
Ieri Draghi ha orgogliosamente ricordato che la Bce è stata tutt’altro che inattiva e ha messo in campo una strategia a tre stadi basata su strumenti non convenzionali ed eccezionali. In primo luogo ha portato praticamente a zero il livello dei tassi a breve (addirittura negativi per la liquidità infruttifera delle banche); poi ha ridotto l’intera curva dei tassi di interesse. Ora si appresta a mettere in campo la terza arma fatta di acquisti di titoli privati (obbligazioni collegate a securitisation di prestiti alle imprese e covered bonds). E poiché nel frattempo è aumentata la robustezza patrimoniale delle banche, è lecito prevedere che le somme che verranno messe in campo potranno finalmente arrivare all’economia produttiva.
Tutto ciò ha richiesto un faticoso processo di costruzione del consenso che ha occupato l’intero secondo semestre del 2014. Come ha detto in una recente intervista uno dei "falchi" del comitato direttivo, Peter Praet, c’era unanimità fra i banchieri centrali dell’eurozona sull’obiettivo ma non sugli strumenti. Come dire che i generali erano tutti d’accordo nel vincere la guerra, ma fieramente divisi sulle strategie.
Ora che anche la strategia è definita, rimane da capire se e quanto sarà efficace per combattere lo spettro della deflazione. Come ha messo chiaramente in evidenza Carlo Bastasin su queste colonne, non solo la via maestra di ogni operazione di quantitative easing è l’acquisto diretto di titoli pubblici, ma esistono altre vie tecniche (la creazione di titoli che rispecchino la composizione dell’intero debito pubblico dell’eurozona) che possono essere compatibili con la lettera e lo spirito del Trattato. Non a caso, Draghi ha sottolineato che il consiglio direttivo ha dato mandato di studiare piani di fattibilità tecnica e legale per l’acquisto di altre categorie di attività (si parla di quote di Etf, fondi immobiliari, azioni, addirittura di oro). Tutte vie che presentano almeno uno di questi inconvenienti: non sono mai state sperimentate su larga scala; potrebbero dar luogo a un sussidio politicamente molto delicato di specifici settori dell’economia privata e dunque di specifici Paesi; potrebbero indirizzare la liquidità in segmenti non produttivi (l’oro o lo stesso immobiliare).
Le manovre di quantitative easing non sono la panacea per tutti i mali e nelle condizioni attuali comportano il rischio di alimentare una fase di espansione dei mercati che è già andata al di là dei fondamentali economici. Una delle poche certezze è che esse agiscono attraverso i bilanci degli operatori, inducendoli a sostituire attività a basso rischio con altre più rischiose: tipicamente titoli in portafoglio delle banche con prestiti all’economia. L’arma che la Bce si appresta a mettere in campo sarà efficace a condizione che si riesca a creare in tempi ragionevoli un volume adeguato di titoli (cosa non facile perché il bilancio della Bce è inferiore di quasi mille miliardi di euro al livello di due anni fa), assicurando al tempo stesso una distribuzione ragionevolmente vicina alle dimensioni economiche dei vari Paesi dell’area.
In caso contrario, bisognerà passare ai piani alternativi attualmente allo studio, ma soprattutto bisognerà prepararsi ad affrontare finalmente il problema con l’ottica dello sviluppo europeo e non degli egoismi nazionali.
Marco Onado, Il Sole 24 Ore 22/11/2014