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 2014  novembre 22 Sabato calendario

L’ORIGINE E IL FINE DELLA LETTERATURA (E MAI MAIUSCOLA FU PIU’ DOVUTA)

In origine non c’era alcuna origine, solo la favola del momento sull’origine. Fu, quella, l’età dell’oro, oro non del tutto del Giappone, ossia l’era in cui la materia era puro movimento senza inizio e senza fine, con gli esseri umani nel mezzo della storia quanto gli dei, in un mutuo soccorso di pronto intervento, perché, a spanne e nei giorni chiari, l’Olimpo non era alto più di cinquecento metri, non ne misurava ancora ben quasi tremila, e ognuno se ne serviva scendendo o ascendendo in giornata o in due al massimo, e anche questi pellegrinaggi tutti mentalmente; se a Giove occorreva un coppiere o che purché debitamente callipigio giovinetto, lo ghermiva con ogni grazia trasformandosi in aquila, reale, ca va sans dire, il deltaplano dell’epoca dei veri happy few presi da fregola da gioco olimpico inculante in cui a ognuno è riservato il podio del vincitore e i suoi debiti schizzi di champagne autoprodotto, perché esisteva solo una formula 1 uguale per tutti e se Ganimede chiedeva, tremebondo e titubante per celia, «Vengo anch’io?», l’aquila, reale in ogni senso, gli gridava al colmo del piacere, «Come no? Se non ci diamo una spintarella tra di noi...»; se a un capopopolo serviva un padrino o un patrono per vincere una guerra, spesso neppure doveva armarsi di un alpenstock, prendeva un agnello e lo sacrificava fino e non oltre la media cottura... il gigot cotto fuori e rosa dentro mica lo hanno inventato i francesi... e dove non arrivava lui di persona scarpinando tra le ginestre e i cardi dei clivi, sempre mentalmente ma dandola a bere agli astanti rapiti dall’ascolto del suo bardo di riferimento a libro paga, arrivava il fumo o il profumo dell’arrosto, e di più non c’era bisogno per ingraziarsi un Marte o un Vulcano o una Minerva, così terribili e terribilmente gentili che neppure si facevano vedere al banchetto e rinunciavano al loro cosciotto-tangente con un fair play oggi impensabile. E Venere era tutto meno che venerea.
In origine, dunque, fu il verbo: il verbo essere. E si era umani nella misura in cui il verbo plasmava il tuo essere dotandolo di un linguaggio verbale, la parola, che aveva iniziato i primi vagiti scritti con la pietra che incideva stridendo onomatopee nella roccia, e del linguaggio del corpo umano per eccellenza, il sorriso, la prova che in quel corpo c’era un’anima umana e non più soltanto animale, il tacito sorriso che rende eloquente un sentimento quanto tutto un discorso. Poi, nel giorno più brutto della storia dell’umanità, il giorno più nero e anche più rosso sangue, una creatura malvagia... un demagogo, un tiranno, uno stregone, un prete, un fanagotta magnaccia di talento... inventò le maiuscole e la tentazione fu irresistibile: se inventi le maiuscole subito dopo ti inventi l’Origine e di conseguenza imponi il Fine dell’Origine, imponi cioè il Potere per il Potere, sintesi del logos riplasmato dalla fine dell’età dell’oro a noi, quel logos coercitivo, plagiario e sanguinario che formalizzando il verbo in Verbo decretò la necessità di porre un freno alla libertà infinita della materia sia materiale che umana in particolare.
Tutte le nostre disgrazie a giro dell’oca nascono da quell’insano incipit foriero di ogni violenza fratricida, «In origine fu il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
A parte il fatto che un simile slogan di tanto elegante nonsenso troverebbe oggi un suo senso e sfruttamento commerciale se fosse scritto non da Giovanni ma da Linda o da Lucas Evangelista, se il Verbo era presso il Verbo e Dio presso Dio, dove era mai finito il verbo, il verbo essere? E l’essere umano che gli dava voce nei suoi tempi finiti e infiniti a perdere e a perdita d’occhio senza un Fine a parte tirare a campare raccontandosene di ogni per abbellire il tempo? L’essere umano che ancora non aveva forgiato il pronome “io” e che, subito dopo, dovendo scrivere “dio” lo avrebbe scritto, ormai superiore agli acari, “d’io” per poi diventare per sempre un sottoprodotto dei medesimi scrivendolo, “Dio”?
L’essere umano, esposto alla religione del Potere e al potere della Religione e, ragnetto sfiduciato nella sua stessa genetica e autonomia produttiva, senza sufficiente saliva per proteggersi dai loro raggi malefici e cancerogeni respingendoli con alte e decise e precise, geometriche ragnatele di parole contro Satana incarnatesi nei suoi vicari di ’sto Dio... Patria, Famiglia... fu assoggettato al mito fascista ante litteram dell’Origine e del Fine, Ultimo, inutile sottolinearlo, e perì: ed eccovi qui. E per soprammercato in Italia. Alfabetizzati obtorto collo in una lingua che emette suoni senza senso e significati dislocati da ogni principio di realtà che non sia mitologica, sublime, irrelata ma quanto nobilitante, aulica e stupidissimi, scellerati anglismi governativi a iosa, perché un neolatinorum sempre ci sta bene, uno specchio che si specchia nel vuoto assordante di uno specchio deformante in cui Dio e Io e la mancanza di tenere fede a ogni parola data o sottaciuta per pudore fanno tutt’uno e più nessuno, gleba a perdere del grasso Spirito altrui che predica e predica e predica, e sottrae, deruba, dimidia, uccide di morte bianca che più bianca e più immacolata non si può.
Poiché niente è più sciocco e fazioso e criminale del cercare, ricercare, trovare, sancire e affibbiare un’origine, anzi, l’Origine... di solito per stigmatizzare chi non ci restituisce la nostra mimica pari pari ai nostri tic valoriali, razziali, sessuali, familistici, ideologici, tribali... la letteratura è lo sforzo sovrumano di ridare dignità al verbo, al verbo essere, in tutta la sua pagana, poetica, universale, non mediabile minuscola. Che, poi, cosa più eroica, divina, sensata, democratica e viva l’essere umano non ha ancora inventato e mai inventerà.