Raffaele Orlani, il Venerdì 21/11/2014, 21 novembre 2014
LE BELLE LETTERE
Negli ultimi cinque anni le Poste italiane hanno visto crollare il volume della corrispondenza del 39 per cento. Tra estratti conto, direct marketing e notifiche di Equitalia è evidente che nemmeno nel 61 per cento che resta c’è molto spazio per lo scambio tra privati. In sostanza non si scrivono più lettere. Si fanno tante altre cose, certo. Ogni giorno nel mondo ci si scambiano 144 miliardi di email, 50 miliardi di messaggi con WhatsApp e 730 milioni di commenti su Facebook. La lettera è morta, ma la comunicazione non è mai stata così in forma. In fondo anche il vinile, e poi i cd, hanno battuto in ritirata mentre la musica conquistava ogni minuto e ogni metro quadro delle nostre vite. Rimpiangere un supporto è feticismo, parlare di lettere al tempo dei social network è come disquisire di carrozze mentre le automobili si guidano da sole. Eppure Simon Garfield, giornalista, polemista, autore di To the Letter A Journey Through a Vanishing World, si è divertito a fare un piccolo esperimento: ha citato una lettera che il poeta laureato Ted Hughes scrive nel 1975 alla figlia undicenne. Dopo averle chiesto degli esami a scuola, cotanto papà si lascia andare a una descrizione della campagna inglese che sembra tratta da uno dei suoi popolari volumi di liriche. Garfield si chiede: avrebbe potuto essere un’email? «Non credo: troppo strutturata, troppo densa, troppo scritta». È questo il punto: cosa abbiamo perso, perdendo le lettere? Quelle dei comuni mortali e quelle dei larger than life, le lettere d’amore come quelle di raccomandazione? Per rispondere a questa domanda, sempre in Inghilterra è stato creato Letters of Note, un blog che dal 2011 pubblica lettere tutt’altro che inedite ma quasi dimenticate. Non è stupefacente che possa contare su un milione e mezzo di utenti unici a settimana?
Dopo aver salutato per settanta volte il suo milionesimo lettore, Shaun Usher, il giovane copywriter autore del blog, ha deciso di restituire alle lettere ciò che alle lettere spetta da sempre, ovvero la carta. Ne è nato un libro, che in Gran Bretagna ha spopolato producendo recensioni, discussioni e un applauditissimo spettacolo teatrale, e che ora viene tradotto in Germania, Francia e Italia, dove Feltrinelli lo presenta in versione strenna col titolo L’arte delle lettere (pp. 368, euro 35).
Ma di cosa parliamo quando parliamo di lettere? Nel 1615 il samurai Kimura Shikegari parte per una missione che lo condurrà a morte certa. La giovane moglie gli scrive incoraggiandolo nella sua impresa, ma annunciandogli il proposito di togliersi la vita prima di lui, perché «negli ultimi anni io e te abbiamo condiviso lo stesso guanciale come marito e moglie, con l’intenzione di vivere e invecchiare insieme, e io mi sono affezionata a te come se fossi la tua stessa ombra». Non è letteratura, non è un diario, è una lettera: c’è chi l’ha scritta, chi l’ha letta, e ci siamo noi che non c’entriamo nulla ma sussultiamo come se ci riguardasse. Il volume di Shaun Usher offre 125 corrispondenze indimenticabili, che sono altrettante risposte alla domanda su cosa perdiamo perdendo le lettere: uno spazio intimo in cui, a beneficio di sé, del destinatario e di eventuali intrusi, si coltivano linguaggio, sentimenti e relazioni. Uno spazio rassegnato da tempo a sparire di scena, tanto che già nel 1919 la Yak Review elenca le cause della sua estinzione citando telefono, telegrafo, macchina per scrivere, ma soffermandosi soprattutto sulla «pigrizia moderna». Noi abbiamo il vantaggio di arrivare a cose fatte: la lettera non c’è più, e sarebbe ozioso aggiungere alla lista di Yale il miliardo di smartphone venduti nel 2013. Quello che chiedono i milioni di devoti frequentatori di Lettera of Note è che ci si ricordi di uno strumento il cui fascino è sopravvissuto a una dozzina di rivoluzioni tecnologiche. E che se ne prenda degnamente congedo.
Per Shaun Usher una lettera vale per la busta, la firma, l’intestazione, la carta su cui è scritta, la mano che la scrive: «Si impone con la sua presenza non appena varca la soglia di casa». C’è del feticismo, certo, esaltato nelle lettere d’amore che «offrono una straordinaria sensazione di vicinanza che la corrispondenza digitale non sarà mai in grado di assicurare». Ma a parlare solo di involucri si farebbe torto al libro, al blog e ai milioni di seguaci della repubblica delle lettere. Perché ci sono parole che senza corrispondenza cartacea non sarebbero mai state scritte, o non si potrebbero più leggere.
L’arte delle lettere è fitta di epistole argute, comiche, toccanti. Ma per capire cosa non leggeremo più ora che non scriviamo più lettere, forse basta la breve missiva che il direttore marketing della Campbell Soup Company spedisce al Signor Andy Warhol il 19 maggio 1964: «Seguo la sua carriera da qualche tempo. Per ovvi motivi, la sua opera ha suscitato molto interesse qui da noi alla Campbell’s. Volevo dirle che ammiriamo molto il suo lavoro e che ho saputo che le piace la zuppa di pomodoro. Mi sono quindi preso la libertà di spedire a questo indirizzo un paio di casse della nostra zuppa». È nulla ma è storia, e anche piuttosto inedita: senza lettere avremmo mai saputo cosa pensava la zuppa Campbell’s del genio che la trasformò in un’icona? Be’, in tempi di comunicazione digitale le possibilità di sopravvivenza di una missiva del genere sarebbero praticamente nulle, come sarebbe a rischio la lettera che il 23 gennaio 1970 un trepidante Mario Puzo scrive a Marlon Brando implorandolo di «usare qualunque mezzo in suo potere per avere la parte del Padrino».
Per far sparire una lettera bisogna buttarla o bruciarla, ci vuole insomma un filo di accanimento che alza la soglia di ciò che consideriamo superfluo. Per liberarsi di una mail basta un clic, con buona pace delle minuzie di oggi che saranno storia domani. Si sarebbe salvato l’appunto con cui il 19 aprile 1912 l’editore Arthur C. Fifield si fa beffe del genio allitterante di Gertrude Stein? «Essendo solo uno, avendo due soli occhi, avendo un solo tempo, una sola vita, non posso leggere il suo manoscritto tre o quattro volte. Nemmeno una volta. Una sola occhiata, un solo sguardo è sufficiente. Non venderebbe nemmeno una copia. Nemmeno una. Nemmeno una».
Stephen Fry, gloria della tv e della scena inglese, ha partecipato allo spettacolo tratto da Letters of Note leggendo la velenosa risposta di Mark Twain a un ciarlatano che per posta (oggi si chiamerebbe spam) gli proponeva l’acquisto di un elisir di lunga vita: «Lei è senz’altro un idiota, un idiota al 33° grado, discendente da una serie ancestrale di idioti che risalgono fino all’Anello Mancante». Interpellato su cosa perdiamo perdendo le lettere, Fry risponde che gli scambi epistolari sono dei vettori di verità molto più sensibili delle conversazioni dal vivo. Be’, L’arte delle lettere si apre sulla ricetta per le frittelle che la Regina Elisabetta spedisce al presidente americano Dwight Eisenhower raccomandandosi di «non lasciare riposare troppo il composto prima di cuocerlo». Anche questa è verità, certo, come gli scanzonati consigli di Groucho Marx a Woody Allen, la lettera che nel 1940 il quattordicenne Fidel Castro spedisce a Franklin D. Roosevelt per complimentarsi della rielezione, o la supplica che nel 1958 tre fan di Elvis Presley recapitano al presidente degli Stati Uniti scongiurandolo di non arruolare il loro idolo o quantomeno di non «tagliargli le basette». Ma la forza principale del libro è di mostrarci «personaggi che sembravano irraggiungibili nella loro veste più onesta e vulnerabile», come dice Usher. C’è una lettera di Katharine Hepburn scritta diciott’anni dopo la morte del marito Spencer Tracy: gli chiede ancora «Cos’era che ti teneva sveglio la notte? Perché eri così inconsolabile?» e c’è una lettera di Ronald Reagan al figlio che sta per sposarsi: «Mike, tu sai meglio di molti altri cos’è una famiglia infelice e quanto male può fare. Adesso hai l’occasione di fare le cose per bene». L’intimità ha una verità che la sfera pubblica non riesce ad avere, e L’arte delle lettere ci fa capire che ci sono poche eccezioni a questa regola. Come scrisse Kurt Vonnegut al preside che aveva organizzato un falò pubblico del suo Mattatoio N.5: «Le mando questa lettera per farle capire che io sono una persona molto reale».
Eppure stiamo parlando di storia: un sondaggio in Inghilterra ha rilevato che il 41 per cento degli adulti non ha scritto nulla (né un appunto, né una lista della spesa) di non digitale nell’ultimo mese e mezzo. La comunicazione ha fatto il suo giro, e non c’è da stupirsi che la fucina di Letters of Note abbia in serbo altri cinque libri per rendere omaggio alle parole che furono. Ma ora che la rivoluzione digitale comincia a divorare i suoi figli e l’email è insidiata da strumenti più spicci e funzionali è inevitabile paragonare i quattro millenni di storia della lettera ai quarant’anni di vita della chiocciola. L’impressione è che, quando sarà il suo turno, la posta elettronica avrà qualche difficoltà a generare una raccolta così elegante, gustosa, emozionante. Forse perché il 70 per cento delle email è spam. O perché, come ha scritto un recensore sul Guardian, «scrivere lettere è faticoso, ma leggerle è sempre un grandissimo piacere». Anche quando non ne siamo i destinatari.
Raffaele Orlani