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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

L’ITALIA È CARICA DI OPPORTUNITA’. INTERVISTA A MARINA SALOMON


Marina Salomon risponde al telefono dalla stazione di Treviso. «Vado a Milano», spiega, «abbiamo tutto il tempo che vuole». La voce è quella di sempre, anche se leggermente rauca, ma che distilla energia anche alle sette di sera. E parlare di economia, di crisi e di ripresa con questa imprenditrice, classe 1958, lombarda di nascita ma veneziana d’origine, è corroborante: non solo per un certo suo ottimismo, che contagia, ma anche perché non molla neppure quando c’è da salire sul treno e senti che le cadono le cose da metter sulla cappelliera.

Domanda.

Salomon, lei opera nel Nord Est ex-locomotiva d’Italia e oggi in difficoltà.

Risposta. Sa che vivo per fortuna esperienze diverse, con i miei tanti cappelli?

D. Bene, allora raccontiamole. Cominciamo da Altana, l’azienda di abbigliamento per bambino fondata un po’ di anni fa ormai...

R. No, partirei dall’ultima società che abbiamo acquisito, la Save the duck, il piumino che non ammazza le oche, come spiega il marchio stesso.

D. Appena in tempo per capitalizzare i problemi di Moncler che, secondo Milena Gabanelli, le oche le spiuma malamente. Chissà che can can avrete fatto.

R. Ma no. Con Nicolas Bargi, giovane imprenditore di talento che l’ha fondata, avevamo concluso a luglio: ed è rimasto socio al 49%. Solo che, fino a oggi, siamo stati più impegnati a produrre che a comunicare. E poi trovo squallido sputare nel piatto dove si è mangiato.

D. In che senso?

R. Nel senso che con Altana abbiamo prodotto Moncler per 12 anni per bambini. Poi si sono ripresi il marchio. Noi dobbiamo solo ringraziare e tacere.

D. Quella di avere i manager come soci è una sua caratteristica...

R. È vero in Altana, c’è Barbara Donadon, socia al 20%, e amministratore con pieni poteri. In Doxa, c’è Vilma Scarpino, ad anche lei, che era entrata facendo la tesi sulla demoscopia.

D. Perché?

R. Perché in azienda un uomo o una donna soli al comando non van bene. Bisogna anche potersi far convincere dagli altri che si sta sbagliando. Intendiamoci, ho fatto così per 20 anni. Poi, dal 2001, con la delega a Barbara, ho cominciato a reimparare un nuovo stile di conduzione.

D. Quanti gli imprenditori tendono a essere soli sulla tolda?

R. Molti. Siamo spesso lupi che controllano il territorio e l’azienda diventa una tana.

D. L’essere rintanato forse induce al pessimismo. Lei, invece, mi pare guardi a questo momento terribile con un certo ottimismo.

R. È vero, sono fra gli ottimisti, perché continuo a vedere un’Italia carica di opportunità. È vero che a noi va puttosto bene: non viviamo di rendita, reinvestiamo, ci crediamo, non siamo sommersi debiti e abbiamo un rapporto sereno con la banca. Questo magari fa la differenza però, secondo me, per qualche mio collega la crisi sta diventando un alibi.

D. In che senso?

R. Nel senso che si può scegliere di rimettersi in gioco oppure no. Io lo considero un tema etico, un dovere morale.

D. E invece qualche imprenditore non lo fa?

R. C’è chi, dinnanzi alle difficoltà, sceglie magari la rendita e liquida tutto. Oppure anche la via del concordato preventivo coi debitori. Per me, che sono credente, è la parabola dei talenti: se ti sono dati non li puoi sotterrare. Ma credo sia anche un ragionamento laico. Il punto è dove ci conduce questo pessimismo dilagante, nell’economia e nella società.

D. E dove, esattamente?

R. Le faccio un esempio traslato. Uno dei miei figli studia a Los Angeles, in un liceo pubblico con 1.700 ragazzi, uno di quelli dove c’è ogni giorno la polizia, per intendersi. Però, quando parlo coi quei professori, respiro un attaggiamento interessante.

D. Vale a dire?

R. Sono giovani dentro, rispetto a noi. Magari più ingenui di noi, ma senza il peso con questi secoli di storia. Loro si portano sulle spalle civiltà dei carri, quella del West, con l’uomo a cavallo a fianco, la mamma che sta a cassetta, figli dietro, il bestiame al seguito. Trovavano un posto sul fiume e si accampavano. Noi questo spirito non l’abbiamo più.

D. Noi Italiani?

R. Noi europei. Perché sarà pure vero che l’Europa non è tutta uguale ma i Francesi, da questo punto di vista, ci assomigliano molto. Sa quando la storia e la cultura, diventano una pretesa?

D. Capisco. E noi Italiani invece?

R. Noi stiamo trasmettendo ai nostri figli di 20 anni una paura del futuro che non avevano i nostri nonni sotto le bombe. Credo nel valore della storia e capiscono quali saranno le conseguenze nel medio periodo di questo clima culturale. E guardi, non è questione di destra o di sinistra.

D. Sì però in Italia ci sono indubbiamente elementi duri e pesanti che, chi intraprende deve affrontare, anche se è vero che il pessimismo spesso va a oltre. Perché, secondo lei?

R. C’è il terrore di ripiombare nella povertà, di cui abbiamo ancora memoria, non son passati secoli. Per cui il crash risulta più duro. Ora da queste parti, parlo del Nord Est, è stato più difficile che altrove, perché era stato tutto più diffuso e veloce. Forse troppo. Lo vedeva dal numero enorme di auto da ricchi che si vedevano in giro. Ma oggi il tema non è solo economico.

D. E che cosa altro c’è?

R. C’è una rete sociale che è venuta meno, un sistema di valori saltato. Dietro a tante storie dolorose di suicidi, se le andiamo a ricostruire, non c’era solo la perdita del lavoro, i debiti, l’impossibilità di pagare gli stipendi, ma spesso anche affetti troncati. D’altronde il tasso di separazioni è spaventoso. Sa che cosa faccio nel week-end?

D. Che cosa?

R. Mi sono iscritta a teologia e in quelle aule, si respira un clima diverso, più positivo. Non dico che dobbiamo esser tutti credenti ma la crisi, in qualcuno, ha fatto emergere il meglio, in altri il peggio.

D. Complessivamente l’Italia, la gente da che parte sta?

R. Come Doxa, abbiammo fatto di recente un’indagine europea per quel che riguarda l’Italia su come si sentano le persone. Direi molto meglio di come viene rappresentata.

D. Colpa, come al solito, dei giornalisti?

R. No, non lancio accuse. Volevo anche farlo, il vostro mestiere, ma al Gazzettino mi dissero che dovevo occuparmi di altro. Il punto è che la realtà è spesso migliore di come la si racconti. Prenda il Parlamento: pensa che ci sia lo stesso livello di competenze ed energie di quelle che ci sono nel Paese?

D. Direi di no. Ce l’ha anche lei col governo?

R. Assolutamente no. Sta facendo alcune cose e altre le farà, anche se potrebbero non bastare.

D. Cosa le piace di questo esecutivo?

R. Che finalmente venga archiviata la concertazione e sia messo in discussione il ruolo attribuito ai sindacato. Attenzione, non è solo un problema di sindacati in quanto tali, ma di classe dirigente in generale che, sulla concertazione, ha prosperato. Sa come si dice quassù? «Voemose ben».

D. Beh il «volemose bbene» romanesco

R. Sì e diciamo pure: «Mi non vago a cambattere».

D. Questo lo capisco. Lei, invece, è una combattente.

R. Io sono molto «cinghialata», lo ammetto. Ma questa cosa del concertare ha fatto molto male all’Italia.

D. Senta ma questo suo ottimismo e questa dura analisi della concertazione tradiscono una sensibilità molto renziana...

R. Ah, guardi io l’ho votato alle europee, non ho problemi a dirlo. Anzi era tornato mio figlio dall’America e l’ho spinto ad andare ai seggi, anche se recalcitrava. E gli ho anche suggerito anche di dare due preferenze: a due renziani bravi.

D. Si dice che Renzi e questo governo abbiano nella congiuntura il vero avversario che li metterà alle corde.

R. I segnali negativi li conosco anche io. L’indice di disoccupazione non si stabilizzerà a breve, temo, e forse crescerà. Soprattutto nei giovani e nei mestieri più semplici. Perché il capitalismo del futuro è un po’ questo: concentrazione di ricchezza e meno posti di lavoro. Ma questo non può toglierci il disiderio di fare meglio e lavorare di più. L’Italia, oggi, è come avere un figlio malato, magari disabile: lo ameremmo di più, non le pare?