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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

TORRES: «MILAN, PAZIENZA E TORNI GRANDE COME L’ATLETICO»

Le porte scorrevoli da cui a volte dipende il destino di una persona si chiudono e si aprono a qualsiasi età. Anche quando non siamo noi a poter decidere se varcarle o no. «Quando avevo cinque anni amavo fare il portiere perché volevo giocare nello stesso ruolo di mio fratello, che era il mio punto di riferimento. Ma un giorno tornai a casa con un dente rotto e mia madre mi disse: “Se vuoi continuare a giocare a pallone, scordati di stare in porta”». Quella sliding door si era chiusa, ma Fernando Torres non sapeva che in quel momento si stava spalancando un portone. Dal quale, nei 25 anni successivi, sarebbero passati oltre 250 gol, 8 titoli e più di 700 partite.
SPALLE LARGHE La porta scorrevole che portava al Milan si era già aperta nel 2007, per chiudersi subito. Fernando l’ha attraversata sette anni dopo, con un bagaglio ingombrante: è stato l’acquisto vip del mercato rossonero e allo stesso tempo l’emblema del nuovo corso Inzaghi basato sul «prima gli uomini e poi i calciatori». Slogan impegnativo. A 30 anni il Niño ha le spalle abbastanza larghe per reggere la pressione, ma a 30 anni non è comunque troppo tardi per entusiasmarsi di fronte a una sfida tutta nuova: «Questo derby mi emoziona molto. Il derby è passione, per chi gioca e chi assiste. Vincerlo è stata la prima cosa che mi hanno chiesto i tifosi in aeroporto ad agosto».
Lei peraltro è un esperto in materia. Ne ha giocati a Madrid, a Liverpool e a Londra, segnando in tutti i contesti.
«Sono partite che durano sei mesi. Dappertutto. Si preparano da sole. Spero di segnare anche in questo».
Anche perché per ora il gol latita: siamo ancora fermi a Empoli. Come si affronta il problema?
«Se una partita finisce senza gol ma hai creato cinque occasioni, è un buon segno. Solo che in alcune partite abbiamo creato meno di quanto potremmo fare. Questo sì che è un problema. Comunque ora tocca a noi attaccanti, non può sempre segnare Honda...».
Quando arrivò lei disse che il suo obiettivo è la classifica marcatori. Occorre un’altra marcia.
«Lo è ancora. Il Milan mi ha preso per fare gol, e farne più di tutti è il mio lavoro. Altrimenti al mio posto viene un altro. Comunque il gol non è un’ossessione: se vedo un compagno messo meglio, gliela passerò sempre».
Ma lei lo sa che il mondo milanista la considera il potenziale salvatore della patria?
«Mi è successo anche all’Atletico. Nei miei confronti c’erano aspettative enormi, ma ero giovanissimo. Per fortuna c’era Aragones, un tecnico che adoro,che mi tutelava e mi ha accompagnato nella crescita nel migliore dei modi. In fondo, pur con i debiti paragoni, la situazione non è poi così diversa fra i due club. All’epoca l’Atletico era in B, il momento era molto difficile e occorreva ripartire da zero. Il problema fu che vollero far ripartire tutto troppo in fretta, c’era troppa pressione. Il risultato? La squadra restò in B due stagioni. Ecco, anche il Milan deve ripartire, ma l’esperienza mi insegna che non bisogna avere fretta. Tornare in Europa è la missione primaria, certo, ma senza farsi prendere dall’ansia».
Trova che ci sia troppa pressione anche nei suoi confronti?
«Ognuno è libero di dare il proprio giudizio, ma vorrei chiarire una cosa: io sono sempre stato un giocatore che dipende strettamente dalla squadra. Se la squadra funziona, funziono anch’io. Nessuno nel calcio di oggi può fare il trascinatore da solo. Semplicemente, occorre tempo per tutte le cose».
La storia e il prestigio del Milan mal si adattano al concetto di attesa...
«Il calcio viaggia a cicli, come insegna la nazionale spagnola. Ne arriverà uno peggiore per l’Atletico e migliore per il Milan. Il grande Milan tornerà perché i grandi giocatori vogliono le grandi squadre e le grandi squadre sono quelle con una grande storia».
Un sillogismo degno di Berlusconi.
«Il presidente è incredibile. Adora parlare di calcio. Ci dà molti consigli, ci dice come vede le cose in campo. A noi attaccanti, per esempio, dà indicazioni sui movimenti quando hanno palla i centrocampisti. Per me è una novità assoluta, non avevo mai avuto un presidente così interessato a quanto avviene in campo».
Diciamo un presidente tipicamente italiano, terra dove tutti si sentono un po’ allenatori.
«L’Italia per me è un paese importante. La Champions al Chelsea l’ho vinta con Di Matteo allenatore, il mio primo gol in nazionale è stato a Genova nella partita di addio di Baggio (aprile 2004, ndr ) e il mio primo contratto arrivò dopo una Nike World Club Cup giocata con l’Atletico a Reggio Emilia».
Senza dimenticare il suo grande amico Albertini.
«Giusto, c’è anche lui ad ampliare il mio panorama italiano. Un grande compagno e un grande amico. Arrivò a Madrid nella mia prima stagione da capitano. Avevo solo 19 anni e mi chiedevo: “Ma come posso fare da capitano io a uno come lui?”. Demetrio mi parlava continuamente del grande Milan».
A proposito di corsi e ricorsi: nel derby ritrova Mancini, che lei nel 2008 affossò a San Siro con la maglia del Liverpool. L’Inter uscì dalla Champions e il Mancio a fine gara disse: «A fine stagione lascio».
«Lo so, gli ho già dato un dispiacere, ma vorrei chiarire che non ho nulla contro di lui (sorride, ndr ). Spero che a fine partita ci stringeremo la mano, anche se magari gli avrò di nuovo fatto gol e il Milan avrà vinto... E’ un ottimo tecnico, ha svolto un lavoro eccezionale».
Dicono così anche di Inzaghi.
«Ci riempie di consigli. Per ora batte molto sul concetto di gruppo. Con me insiste sulla posizione e mi raccomanda di non preoccuparmi: “Hai sempre fatto gol, li farai anche qui”».
Come si vede con Menez?
«Bene. Tutti possono giocare con tutti. Non ho mai visto due giocatori che non possano stare insieme in campo».
Ha guadagnato di più il campionato italiano con l’arrivo di Torres o quello inglese con l’arrivo di Balotelli?
«L’ambiente inglese per lui è difficile ma se ha deciso di tornarci vuol dire che è convinto. Solo il tempo dirà quale campionato trarrà più beneficio».
Le manca la Premier League?
«No, sette anni sono abbastanza. E’ un grande torneo, ma sembra ancora più importante perché loro lo sanno vendere e spingere meglio degli altri paesi europei».
Quanto tempo si è dato per tornare in nazionale?
«Non so quantificare. Non è detto, ma è possibile. Comunque ora come ora è una cosa secondaria: la priorità è il Milan».
Come si fa ad avere ancora «fame» a 30 anni, dopo tutto quello che ha vinto lei?
«Intanto non ho mai vinto un campionato, e non so come sia possibile in 20 anni di carriera... (ride, ndr ). La fame deve esserci sempre, è quella che ti fa andare avanti. Non si può non avere fame di fronte alla passione della gente».
A proposito, ma poi che cosa aveva risposto ai tifosi in aeroporto che le chiedevano di vincere il derby?
«Claro, vamos a ganar».
Andiamo a vincere: in spagnolo forse è ancora più affascinante.