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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

IL TESORO DI GHEDDAFI IMBARAZZA ROMA

Villette e terreni a Pantelleria, appartamenti a Roma, Milano e in Sardegna, quote azionarie in Fiat, Juventus, Finmeccanica, Eni e Unicredit. Le ricchezze accumulate dalla famiglia di Gheddafi in Italia valgono circa 2 miliardi di euro. Una parte di questo tesoro è rimasta sospesa in un limbo di diplomazia e burocrazia. La Corte penale internazionale, dopo aver richiesto ai giudici italiani il sequestro dei beni, se n’é lavata le mani nel momento in cui si doveva decidere se restituire le proprietà e, soprattutto, a quali soggetti.
Ma facciamo un passo indietro. Il 26 ottobre 2011, a sei giorni dall’uccisione di Gheddafi, il Tribunale dell’Aja, che già nei mesi precedenti si era mossa per ottenere l’incriminazione del rais libico per crimini contro l’umanità, ha chiesto all’Italia la cooperazione «al fine di prendere misure di sicurezza per la confisca dei beni a esclusivo vantaggio delle vittime» della repressione realizzata in Libia, a seguito della rivolta scoppiata a partire dal 15 febbraio 2011. Sulla scorta di due risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dalle quali era partito l’iter di congelamento dei beni di proprietà dei soggetti ritenuti responsabili della repressione, la Corte de L’Aja ha chiesto al nostro Paese di identificare, congelare o sequestrare proprietà mobili o immobili, conti correnti e azioni sul territorio italiano appartenenti o controllati, direttamente o indirettamente, dall’ex leader libico Muammar Mohammed Abu Minyar Gheddafi, dal figlio secondogenito Saif Al-Islam Gheddafi e dal cognato, nonché capo dei servizi segreti libici, Abdullah Al-Senussi.
La rogatoria internazionale è arrivata alla Corte d’appello di Roma il 15 febbraio 2012. Dopo aver svolto le indagini necessarie a fare l’inventario del patrimonio, il 22 e 28 marzo 2012 i giudici della quarta sezione penale hanno emesso decreti di sequestro di immobili situati a Roma, Milano, Pantelleria e Elmas, in provincia di Cagliari; quote di partecipazione al capitale di varie spa, fra cui Juventus fc, Fiat industrial, Fiat, Finmeccanica, Eni, Unicredit, Ubae, Abc International bank, Banca popolare Emilia Romagna; nonché auto di lusso. Successivamente, l’11 dicembre 2012 e il 6 marzo 2013, la Corte d’appello è stata costretta a ordinare il dissequestro di larga pare di questi beni. Nello specifico sono stati restituiti gli immobili, i terreni e i conti correnti sui cui gli organismi Lia (Libyan Investment Authority) e Lafico (Libian Arabian Foreign Investment Company) vantavano un titolo di proprietà. Si è infatti valutato che la loro utilizzazione fosse comunque diretta a vantaggio della popolazione libica, in un’ottica di continuità istituzionale, nonostante il mutamento dei regimi politici.
Contestualmente al decreto di dissequestro del 6 marzo 2013, i giudici hanno scritto al Tribunale dell’Aja facendo presente che, secondo il codice italiano di procedura penale, «il sequestro perde efficacia se entro due anni dal momento in cui esso è stato eseguito lo Stato estero non richiede l’esecuzione della confisca».
La Corte internazionale (organismo equivalente allo «Stato estero») «ha lasciato trascorrere il termine biennale senza nemmeno far pervenire un’istanza di proroga – spiegano i giudici dalla quarta sezione penale d’appello – con ciò mostrando nei fatti il completo disinteresse per la prosecuzione della rogatoria e in concreto per la sorte dei beni tuttora sottoposti a vincolo». Si tratta, in sostanza, di cinque conti correnti aperti presso la Banca di Credito cooperativo di Roma, su cui è depositato circa un milione di euro, e di due autovetture, una Cadillac intestata a Saadi Gheddafi, terzo figlio del rais, e una Hammer di proprietà del cognato Al-Senussi. «Si deve concludere – si legge nel provvedimento adottato il 26 giugno scorso – che questa Corte non ha altra alternativa al dissequestro e alla restituzione degli attivi di conto corrente e delle autovetture».
Dopo questo provvedimento, sono arrivati ai custodi giudiziari richieste di accredito delle somme dissequestrate alla Lafico. I giudici hanno voluto vederci più chiaro, considerando la mancanza di un governo stabile in Libia e di un’avvocatura che rappresenti lo Stato. Data «la condizione di incertezza, per usare un eufemismo, nella quale versa il territorio libico», i giudici il 24 ottobre hanno trasmesso gli atti al ministero degli Esteri, chiedendo «se Lafico continua a essere interamente controllata dalla Lia, se Lia continua a essere direttamente riconducibile al Governo libico riconosciuto dall’Italia e chi rappresenta Lia in Italia». In attesa di sapere che ne sarà di questo tesoretto, l’unica certezza è che a pagare il conto – salato – di questo sequestro voluto dall’Aja, sarà l’Italia. La parcella dei custodi giudiziari, infatti, è liquidata in percentuale sui 2 miliardi del patrimonio italiano di Gheddafi.
Valeria Di Corrado