Federica Bianchi, L’Espresso 21/11/2014, 21 novembre 2014
ORBÁN PADRE PADRONE
BUDAPEST Le tegole dell’enorme tetto scuro le si intravedono da lontano, tra pecore, alberelli e tetti spioventi delle casette a un piano di Felcsùt (pronuncia: Felciut), 1.700 anime distribuite lungo i lati della strada provinciale che incrocia l’uscita, poco distante, dell’autostrada verso Budapest. Avvicinandosi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno di quei vecchi quadri di un paio di secoli fa in cui la basilica o il castello sorgono in mezzo al nulla, circondati da pecore e pastori, frutto dell’ambizione di qualche papa o sovrano del passato. L’equivalente odierno è uno stadio da quattro mila posti, realizzato quest’anno dal miglior architetto ungherese, József Örfi, proprio lì, a cinque metri dal cancello di legno della villetta di famiglia del premier Viktor Orbán, simbolo quasi comico della sua crescente megalomania.
Intorno alla costruzione sorvegliata da guardie fedelissime che non rispondono alla polizia locale, ci sono soltanto praterie sterminate. Ai suoi piedi si allungano sette campi di calcio scoperti. Dall’altra parte della strada, si fa spazio la palazzina gialla dell’Accademia Puskás, una specie di convitto dove, nelle intenzioni del premier, si formeranno i Ferenc Puskás (il miglior giocatore ungherese di tutti i tempi) del futuro. «Sono venuto dalla capitale a vedere come il governo spende i nostri soldi», racconta, mentre in una fredda mattina di novembre passeggia tra gli spalti, Istvan Kazimir, 57 anni, un infermiere dell’ospedale Károly Sándor di Budapest. «Non sono contro il calcio ma a noi dicono che non ci sono soldi per gli stipendi e nemmeno per le siringhe», sorride a denti stretti, le mani incrociate dietro la schiena.
Gli amici di Orbán, grande appassionato di calcio, amareggiato dalla scarsa abilità della sua nazionale, una volta tra le grandi di Europa, ribadiscono che i 15 milioni di euro impiegati nella costruzione dello stadio provengono per lo più da fondi privati. Ma il metodo con cui sono stati raccolti esemplifica come Orbán, diventato parlamentare appena laureato all’indomani del crollo del comunismo nel 1989, negli ultimi 15 anni abbia contemporaneamente centralizzato il potere politico e quello economico nelle sue mani, diventando non solo primo ministro di un governo con un’ampissima maggioranza ma anche uno dei cinque uomini più ricchi d’Ungheria.
«Ha modificato una legge per cui le imprese potevano detrarre dalle tasse le donazioni fatte a istituzioni culturali aggiungendovi anche le istituzioni sportive, cosa che di per sé non è nemmeno sbagliata», spiega Robert Laszlo di Political Capital, un think tank indipendente dal governo: «Ma poi ha inviato i suoi emissari dai più grandi imprenditori del Paese con il “consiglio” di versare la loro quota a favore della sua Accademia. Così ha ottenuto un duplice risultato: ha deviato verso il suo progetto personale quei fondi privati che altrimenti sarebbero diventate risorse pubbliche e ha azzerato le donazioni per i progetti culturali». Si è trattato forse della prima di una serie di mosse (come la centralizzazione di tutte le decisioni che riguardano la scuola) che limitano la cultura e la libertà di espressione nel Paese. Non a caso un gruppo di intellettuali europei proprio in questi giorni ha chiesto la rimozione dell’ex ministro di Orban Tibor Navracsics da Commissario europeo alla cultura.
All’estremità opposta di Felcsùt, proprio al confine con il paese di Olcsùt, in cima ad una collina isolata raggiungibile unicamente attraverso un’unica strada privata, sorge una grande villa moderna dai muri gialli e dal colonnato neoclassico, simbolo della ricchezza e della potenza recentemente ottenuta dal sindaco del villaggio, Lorinc Mészáros. La sua storia, come quella dello stadio, apre uno squarcio sul funzionamento dell’Ungheria ai tempi di Orbán, il Paese del populismo al potere.
Inizia negli anni Novanta, subito dopo il crollo del socialismo, quando il primo governo democratico, tra le misure per modernizzare l’Ungheria, decide di installare le tubature del gas in tutte le abitazioni. A quel tempo Mészáros lavorava come tecnico del gas con una sua piccola società. L’iniziativa del governo e la sua abilità lo resero al volo sia benestante sia molto noto nel paesino. Matto per il calcio come Orbán, con le nuove risorse prese a sostenere la squadra di Felcsùt in cui aveva giocato da ragazzo e di cui seguiva le partite con passione. Pare che lui e il primo ministro si siano conosciuti e piaciuti proprio lungo le linee laterali del campo, tra una partita e l’altra, sgranocchiando semi di girasole, abitudine contadina molto diffusa nei Paesi comunisti. All’inizio degli anni Duemila, quando la competizione introdotta nel settore del gas mandò in bancarotta la sua società, la sua amicizia con Orbán si rivelò provvidenziale. Questi, dopo avere perso le elezioni del 2002, decise di dedicarsi a Felcsùt e di trasformare il paese in cui aveva preso la maturità nel 1984 in un centro del calcio nazionale. L’uomo chiave già lo aveva. Nel 2006 Mészáros diventa presidente della Fondazione di calcio di Felcsùt, oggi proprietaria dell’accademia e dello stadio, e inizia ad accumulare ricchezze: apre e chiude società, ottiene sempre più appalti pubblici, e a partire dal 2010, anno della vittoria travolgente di Orbán che conquista il controllo dei due terzi del parlamento, diventa addirittura proprietario terriero. In meno di 10 anni accumula una fortuna personale di oltre 20 milioni di euro. Naturalmente nel 2010 vince anche le elezioni a sindaco di Felcsùt come candidato del Fidesz, il partito conservatore del premier. E da allora regna sul suo piccolo territorio come un sovrano assoluto dall’alto della sua collina, rifiutando senza mezzi termini ogni contatto con la stampa.
Secondo due giornalisti investigativi ungheresi che non vogliono essere citati per paura di ulteriori ritorsioni da parte del governo (uno ha già perso il lavoro in seguito ad un articolo), la maggior parte delle attività di Mészáros non sono davvero sue ma sono gestite in nome e per conto dello stesso Orbán e della sua famiglia. Un metodo, quello dei prestanomi, con cui il primo ministro, rieletto lo scorso aprile per la terza volta, ha negli anni consolidato la sua ricchezza personale, nascondendola agli occhi dell’opinione pubblica davanti alla quale si è sempre presentato come onesto difensore della gente ungherese comune e fiero guerriero dell’oligarchia socialista che ha governato dal 1989 il Paese aprendolo alle multinazionali straniere che, nella sua retorica, l’hanno deprivato delle risorse finanziarie, colonizzandolo economicamente.
Orbán non si è arricchito da solo. Per consolidare il suo potere, complice un’opposizione in rovina, ha creato una nuova classe di imprenditori, reclutando esclusivamente amici fidati, in diretta e aperta contrapposizione alla vecchia nomenklatura socialista. I due oligarchi più conosciuti sono Lajos Simicska, suo vecchio compagno di scuola, eminenza grigia del Fidesz e proprietario della maggioranza dei media del Paese, e Nyerges Zsolt, un avvocato proveniente dall’est dell’Ungheria (dunque non dalla colta Budapest, tradizionalmente roccaforte di socialisti e liberali) che tra le varie attività controlla una società di pubblicità che sta conquistando il mercato della cartellonistica della capitale a spese delle altre aziende europee. Quando l’Ungheria è entrata nell’Unione europea nel 2004 si trovava al 42esimo posto della classifica redatta da “Transparency International”, l’agenzia che misura la corruzione nel mondo: oggi è scesa al 54esimo posto, seguendo il percorso inverso della maggioranza delle ex repubbliche sovietiche. Julia Vasarhelyi, una giornalista ungherese in pensione figlia dell’addetto stampa del primo ministro riformista Imre Nagy, impiccato dopo il fallimento della rivoluzione antisovietica del 1956, definisce il sistema di potere istituito da Orbán “La piovra ungherese”, che poi è il nome di due libri che, insieme ad altri intellettuali ungheresi, ha appena finito di scrivere e stampare. «La mafia tradizionale parte dal basso e si muove verso l’alto», racconta seduta in un caffè italiano davanti all’imponente Istituto di cultura italiana a Budapest, sede del parlamento ungherese fino al 1902: «Nel nostro caso invece è lo Stato che compra la società dall’alto. Il suo padrino è Viktor Orbán e ha la sua Famiglia. Non si tratta solo di corruzione ma di una vera e propria impresa mafiosa statale che ha occupato ogni posto chiave: la corte costituzionale, i vertici dell’amministrazione pubblica, i media e perfino gli organi di controllo». Ad esempio, come tutti i soldi pubblici, anche i fondi strutturali erogati dall’Unione europea passano dalle mani di uomini d’affari leali a Orbán a capo del ministero dello Sviluppo nazionale e dell’Agenzia per lo sviluppo delle infrastrutture pubbliche. Un potere pressoché assoluto che non lascia spazio ad alcuna opposizione e che ha consentito al primo ministro di modificare negli ultimi quattro anni gran parte dell’assetto politico, sociale ed economico del Paese.
Ad essere cambiato è stato innanzitutto il nome del Paese, non più Repubblica d’Ungheria ma Ungheria; poi la stessa Costituzione, modificata per impedire ai tribunali di dichiarare “incostituzionali” leggi care al Fidesz. Tanto per fare un esempio, è stata inserita nella Costituzione una norma per cui la Corte Suprema non ha più giurisdizione sulle materie economiche dello Stato fin quando il rapporto debito/Pil non sia sceso al 50 per cento. Essendo oggi oltre l’80 per cento, tra i più alti delle ex Repubbliche sovietiche, la modifica pone di fatto il futuro dell’economia ungherese nelle mani esclusive di Orbán. Cosa non da poco visto che il premier ha dichiarato esplicitamente di volerne cambiare i connotati, tagliando fuori dal mercato le società straniere operanti nei settori della finanza, della comunicazione, dell’energia e dell’agro-business. Su tutte ha imposto tasse altissime o leggi su misura (con cui ad esempio ha requisito terre ad agricoltori austriaci e italiani per redistribuirle ai suoi oligarchi). Solo qualche giorno fa ha aumentato dal 40 al 50 per cento la tassa sul fatturato pubblicitario della televisione commerciale RTL Klub, con la sede legale in Lussemburgo ma di fatto controllata da ungheresi, oppositrice del regime, semplicemente scegliendo ad hoc la soglia di fatturato al di sopra della quale si applica tale tassa. E solo grazie ad un’imponente manifestazione della società civile (per il momento l’unica vera opposizione interna) organizzata su Facebook dal giovane studente Balázs Gulyás ha rinunciato a introdurre tasse anche sull’utilizzo della connessione ad Internet, unico mezzo di comunicazione ancora libero da interferenze governative.
È mattina presto in piazza della Libertà. Pochi passanti si infilano alla svelta nei grandi edifici circostanti, dalla Banca centrale alla sede di Unicredit. Qualche turista si sofferma ad osservare il recente monumento in memoria dei caduti durante l’occupazione nazista che il governo ha installato una notte in fretta. Pare fatto apposta per alimentare il vittimismo storico, malattia nazionale abilmente manovrata da Orbán per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle sue manovre economiche: un’aquila di metallo sovrasta minacciosa un angelo scheletrico con il viso contrito. Rappresenta l’Ungheria vittima della Germania. Ieri come oggi. «Un obbrobrio storico», esclama Áron Sipos, il produttore cinematografico che ha finanziato il film su Giorgio Perlasca: «I tedeschi furono sorpresi dalla celerità e dall’efficienza con cui il governo ungherese delle Croci frecciate inviò i suoi ebrei nei campi di concentramento tra il 1944 e il 1945». Ai piedi del monumento sono appoggiate in ordine foto di ebrei ungheresi mai tornati, loro oggetti personali, candele e fiori. Alcuni turisti si fermano a scattare delle foto. Un uomo anziano, ricurvo in avanti, con in mano una valigetta di pelle scura, vi passa velocemente davanti. Improvvisamente si ferma. Si gira. Poi sputa sulle foto. Riprende il passo veloce mormorando tra sé: «Maledetti ebrei».
L’antisemitismo non è mai scomparso in Ungheria: se il secondo partito del Paese e l’unico di opposizione, lo Jobbik, lo celebra apertamente, Orbán lo utilizza (come il vittimismo e il neoliberismo) per controllare le masse, facendovi riferimento in modo indiretto. Quando parla di democrazia illiberale non si riferisce ad una democrazia senza libertà ma, come ha spiegato in un’intervista con “l’Espresso” il giovane Gergely Gulyas, vice-presidente del parlamento, responsabile per la legislazione e vice capogruppo parlamentare del Fidesz, ad una democrazia priva di quei neoliberali cosmopoliti che dopo il 1989 hanno aperto la strada alle multinazionali e di quei socialisti che hanno controllato il Paese al tempo dell’Unione Sovietica. Ad uno dei due partiti appartengono storicamente tutti gli ebrei di Ungheria. Dunque anche loro sono persone non gradite nella nuova Ungheria di Orbán. Tanto, come ha espresso con una battuta infelice, Agoston Mraz del think tank governativo Nezopont: «Liberali e socialisti non sono ungheresi!».