Luca Sappino, L’Espresso 21/11/2014, 21 novembre 2014
GUERRE DI PERIFERIA ABBANDONATI DA TUTTI
[Colloquio con Marzio Barbagli] –
Incapacità di gestire i flussi migratori. Mancanza di politiche per l’integrazione. Aumento dei reati predatori commessi da immigrati irregolari. «Sono queste le ragioni profonde del malessere sociale di cui i fatti di Tor Sapienza sono la rappresentazione plastica», spiega a “l’Espresso” Marzio Barbagli, sociologo dell’università di Bologna che per il ministero dell’Interno ha curato diversi rapporti sul tema della sicurezza e l’immigrazione. «Siamo di fronte a un fenomeno complesso, che affonda le sue radici nei problemi che i governi non hanno saputo risolvere», osserva l’esperto. Che rivela:«Gli italiani non sono razzisti. Dai dati che abbiamo raccolto sappiamo che la maggioranza è favorevole a regole più semplici per fare ottenere la cittadinanza agli immigrati».
Professore, in questo contesto di crescente malcontento, l’ondata di sbarchi sta cambiando il fragile equilibrio dell’accoglienza?
«In realtà gli immigrati che arrivano via mare sono una minima parte, più visibile per l’attenzione dei media. Tutti gli altri arrivano con permessi turistici e poi rimangono sul territorio oltre il tempo consentito diventando perciò irregolari. È sotto gli occhi di tutti l’incapacità dei governi che si sono succeduti di far fronte ai flussi migratori e di rimpatriare le persone che hanno ricevuto il decreto di espulsione e che spesso hanno commesso reati».
Ma secondo lei il sistema dell’accoglienza funziona?
«Esistono i centri di accoglienza e i centri per l’espulsione. In entrambi i casi la realizzazione di queste strutture ha creato resistente dei residenti delle zone in cui dovevano sorgere. Così come si oppongono alla presenza di campi nomadi sul proprio territorio. Queste frizioni ovviamente hanno creato molti problemi per il sistema dell’accoglienza che in quindici anni, per numero di centri, è rimasto tale e quale».
Cittadini che sono sempre più preoccupati dai crimini commessi dagli stranieri. È solo una percezione, figlia di un sentimento xenofobo strisciante, o è un timore supportato da dati concreti?
«La quota di stranieri sul totale dei denunciati è molto alta per i reati contro il patrimonio. In particolare nel centro nord per alcuni di questi si arriva al 50 per cento sul totale dei segnalati. Negli ultimi tre anni c’è stata una crescita del numero di immigrati, in larga parte irregolari, che hanno commesso reati predatori (rapine, furti e borseggi), anche se non così accentuata come in passato. Altri delitti invece, penso ai delitti dei colletti bianchi, continuano a essere monopolio di italiani. Quindi non è che provenire da un particolare Paese, come spesso i giornali di destra dicono, è di per sé una predisposizione a commettere determinati crimini».
E il fatto che spesso borseggi, rapine, furti, restano impuniti, acuisce la rabbia sociale?
«L’impunità riguarda sia i reati commessi dagli italiani sia quelli i cui autori sono stranieri. Io credo che il motivo del malcontento derivi dalla sensazione di abbandono che i cittadini avvertono. Chi ha subìto un furto non sente lo Stato vicino. I cittadini sono preoccupati dalla criminalità in aumento ma anche dal welfare che inizia a scricchiolare perché deve assistere sempre più persone e fare i conti con continui tagli alle risorse».
Forze politiche che soffiano sul fuoco della rivolta anti immigrati, fomentando il razzismo, E altre invece che quando hanno avuto l’occasione non hanno affrontato i problemi. È questo il quadro?
«La Lega dopo un periodo di assenza dalle campagne anti immigrazione, ha ricominciato a cavalcare l’onda anti immigrati. Ha ricominciato perché ha capito che può guadagnare consensi. Dall’altra parte c’è il centrosinistra, in particolare il Pd, che dopo un periodo di difficoltà, aveva iniziato a occuparsi di immigrazione in maniera seria, poi però negli ultimi anni questi temi sono di nuovo scomparsi per lasciare spazio alle grandi questioni del lavoro e dell’economia. Da parte del presidente del Consiglio, in particolare sui flussi, non ho ancora sentito nulla su questo argomento, anzi è un tema scomparso dall’agenda. Non è solo il centrosinistra però a essere stato inconcludente. Passi avanti non ce ne sono stati neppure con i governi di centrodestra».
Insomma non se ne parla, o se ne parla male. Forse però una legge sulla cittadinanza potrebbe favorire il processo di integrazione?
«È l’altra grande questione. Gli esponenti del centrosinistra sembravano decisi nel portare avanti la proposta, poi rimasta in sospeso. È uno strumento fondamentale per l’integrazione e per avvicinarci agli altri Paesi europei. Anche perché gli italiani, secondo i nostri dati, sono favorevoli a concedere la cittadinanza in maniera più semplice ai figli degli immigrati nati in Italia».
Il problema dunque sta a monte, e non nel degrado di alcune periferie?
«Da noi non si sono creati ghetti veri e propri, e il grado di segregazione non è alto. Ci sono enclave, è vero, ma non sono persone che stanno insieme perché “costrette”».
Tuttavia la crisi economica ha peggiorato le cose. Tanto che a Tor Sapienza l’obiettivo preso di mira è un centro per rifugiati che non hanno commesso alcun crimine.
«La recessione favorisce l’esplosione della rabbia che può trasformarsi in azioni violente. Non abbiamo a che fare con strati razzisti della popolazione, ma con italiani che stanno vicini a sacche di emarginazione e a questioni mai risolte».
Crisi economica, esclusione sociale, guerre tra poveri. Temi che la Lega Nord cavalca. È possibile che aumenterà il consenso?
«Come le dicevo, la Lega per molto tempo è stata assente su questi temi perché aveva problemi interni da risolvere. Ora ci è tornata, ma non credo riesca a crescere di più di quanto indicano gli ultimi sondaggi».
Vede delle analogie con i drammatici fatti di Parigi del 2005? Quella rivolta delle periferie è possibile anche da noi?
«Il paragone con Parigi e i fatti delle banlieue di nove anni fa non regge. Da noi le “seconde generazioni” rappresentano una parte esigua. E quella è stata una vera e propria guerra urbana scaturita da altre questioni: un giovane era stato ucciso e il clima d’odio aveva raggiunto livelli altissimi». n
Un mercoledì di mezzo autunno, via Chiesa della Salute, popolosa semiperiferia di Torino. Quattro vigili urbani passano a multare le auto in seconda fila. Dai negozi iniziano a uscire i commercianti e i clienti, proprietari delle vetture in contravvenzione. Il diverbio diventa rapidamente un’aggressione verso gli agenti: «Quando vi chiamiamo per le rapine non venite, siete capaci di fare solo le multe». I vigili finiscono in ospedale. Poco dopo, immancabile, il comunicato di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni: «Zingari e abusivi impuniti mentre commercianti e cittadini normali vengono torchiati come in Corea del Nord».
Già, non si sono accesi solo al quartiere Tor Sapienza di Roma i focolai della nuova guerra civile italiana. Quella che rischia di scoppiare in mezzo alla più lunga crisi economica della storia repubblicana, nelle strade di città sempre più rabbiose, nelle mani e nelle menti di un ceto medio impoverito, impaurito, quindi aggressivo.
O spesso anche fra classi ancora più basse, la cui preoccupazione principale è semplicemente avere una casa in cui vivere. Come a Milano, lunedì 17 novembre: all’alba comincia lo sgombero degli appartamenti occupati in via Vespri Siciliani, zona sud della città. La polizia si presenta in forza: caschi, scudi e manganelli. «Vengono in antisommossa per buttare fuori una famiglia», si lamenta una ragazza. Rapidamente si arriva alle cariche, ai lacrimogeni, al lancio di pietre. Esce un uomo con la testa sanguinante. Va in scena il conflitto tra gli assegnatari di case popolari e gli occupanti, quasi sempre italiani anche loro, che negli stessi palazzi hanno forzato le case vuote o, a volte, quelle lasciate per qualche ora incustodite: «Abbiamo paura di allontanarci, non possiamo nemmeno andare a fare la spesa perché potremmo tornare e trovare qualcuno dentro», ripete chi paga l’affitto all’ente regionale. Chi entra avendo il bisogno ma non il diritto, lo fa in due modi: affidandosi all’«immobiliare politica», quella dei centri sociali che favoriscono le occupazioni (soprattutto a San Siro, al Ticinese, ora anche al Corvetto); o ricorrendo all’«immobiliare criminale» cioè alle gang di nomadi, maghrebini o italiani che sfondano le porte e “vendono”. Si pagano fino a 2-3 mila euro. In contanti, prima della consegna.
C’è sofferenza e insofferenza nelle periferie delle grandi città. E a Milano anche l’idea del cardinale Scola di aprire per l’Expo un refettorio per poveri nel quartiere Greco, nei locali della Caritas, si è scontrata con una raccolta firme dei residenti; e poi con un gesto vandalico: vernice verde su citofoni e portoni. Nemmeno la Chiesa riesce più a legittimare la solidarietà. Non parliamo poi degli appelli contro i campi nomadi, che non si contano più, in tutta Italia. A Napoli il presidente dell’Ottava Municipalità «per rassicurare i cittadini inferociti» propone lo sciopero fiscale: niente pagamento della Tarsu finché non sarà “bonificato” (testuale) l’insediamento di Scampia. Ancora a Torino, sono i lavoratori a finire gli uni contro gli altri: facchini e manovali, di cui molti migranti, da un anno protestano contro le condizioni di lavoro nel grande mercato. Stipendi bassi, orari lunghi, contratti veri pochi. Le prime proteste risalgono ai tempi dei Forconi, ma nelle ultime settimane si sono intensificate, con il supporto degli “antagonisti”, fino agli scontri con la polizia. Poi ecco l’incidente: un ambulante che cerca di entrare nel mercato e affronta i manifestanti. Vuole lavorare. Scoppia una rissa. E lui muore, colpito da un infarto.
Quando c’è scarsità di servizi, la gente esasperata protesta e se la prende con le istituzioni sì, ma più spesso con chi “ruba” il lavoro, le case, gli asili. Non c’è giardino pubblico in cui non si ascolti la lamentela di una mamma contro i migranti perché, con le loro famiglie numerose, «ci passano davanti nelle graduatorie». C’è spesso l’idea che lo facciano per via di un privilegio riconosciuto dai “politici”: e non, come in realtà accade, in virtù di un punteggio assegnato in base al reddito e alla composizione del nucleo famigliare. La scarsità di posti genera l’invidia sociale che non è però indirizzata verso chi ha molto, ma contro chi ottiene un posto all’asilo pubblico o una casa popolare.
Guerra tra poveri: nulla di nuovo, forse, se non per le dimensioni della crisi economica e quindi per i tagli agli enti locali e al welfare, per gli autobus sempre troppo pochi e sempre troppo pieni, a un euro e mezzo a biglietto. In più, per la prima volta in Italia, questo conflitto ai piani bassi della piramide sociale s’intreccia con la società multietnica. Secondo l’antropologa Annamaria Rivera, che insegna all’Università di Bari, tuttavia i protagonisti di queste vicende non sono quasi mai poveri alla stessa maniera. Non lo erano, ad esempio, nell’altro recente caso di cronaca capitolina, nell’assassinio del ventottenne Muhammad Shahzad Khan, pachistano, massacrato a calci e pugni da un diciassettenne romano: lì, per Rivera, «il livello di potere, la posizione sociale, non era certo la stessa tra il bullo di quartiere che uccide, spalleggiato dal genitore, e la sua vittima inerme, già annientata dalla perdita del lavoro e dell’alloggio, dal terrore di perdere pure il permesso di soggiorno». Rivera vede piuttosto un susseguirsi di «veri e propri pogrom» e accusa per questi «il melange di ignoranza, intolleranza, intossicazione da falsi messaggi mediatici lasciati ripetere a cittadini esasperati senza smentire mai, in diretta, i luoghi comuni. A ciò si aggiunge il ruolo dell’estrema destra che indirizza il malcontento verso falsi bersagli».
Ecco, l’estrema destra. Dalla Nuova “Lega nazionale” di Matteo Salvini (balzata oltre il 10 per cento proprio per questo clima, secondo l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti), fino a Fratelli d’Italia, Casa Pound, Forza Nuova etc. Quando Papa Bergoglio commenta i fatti di Tor Sapienza invitando a «non cedere allo scontro», ecco che il leghista Roberto Calderoli subito gli risponde: «Perché in Vaticano non ci sono immigrati irregolari?». E se la manifestazione romana del “Coordinamento ribellione contro il degrado” si proclama «apartitica», ecco che i suoi striscioni usano la stessa font degli ultras neofascisti da stadio; e i manifesti a pennarello sono scritti sul retro di quelli avanzati dalle ultime elezioni ai partitini di estrema destra.
Il giornalista britannico Mehdi Hasan, editorialista politico dell’Huffington Post Uk, alla questione ha dedicato un’approfondita analisi che parla del Regno Unito ma arriva anche all’Italia. E spiega: «Far finta che il razzismo non giochi un ruolo nel generare ostilità e ansia sarebbe ingenuo, se non in malafede. Ad esempio, un recente studio ha certificato che le zone con una più bassa concentrazione di immigrati sono spesso quelle che esprimono la massima preoccupazione per l’immigrazione». Come dire: la questione dello scontro fra etnie viene montata oltre misura per spostare a destra, e verso la parte più estrema della destra, un malcontento che in realtà deriva da altri problemi sociali ed economici, non di convivenza razziale.
I dati dello studio inglese ricordano anche la percezione degli italiani: è emerso che qui da noi “pensiamo” di avere il 20 per cento di musulmani quando questi sono solo il 4 per cento della popolazione. Ancora più ampia è la forbice sull’immigrazione: gli italiani sono convinti di convivere con un 30 per cento di immigrati, quando invece sono solo il 7 per cento. Insomma, c’è un’immigrazione “percepita” molto maggiore di quella vera. Forse perché attribuiamo agli stranieri la diminuzione di servizi, di stato sociale, di opportunità: un calo dovuto invece a tutt’altre cause.
Diversa, invece, la questione della microcriminalità. Che è oggettivamente in aumento: a rivelarlo sono i dati rilasciati dallo stesso Ministero degli Interni sui furti nelle abitazioni, le rapine, gli scippi, i borseggi (vedi riquadro a pagina 53). Ma anche in questo caso, è difficile non vedervi un nesso con la recessione: che costringe lo Stato a tagliare sulla sicurezza nei quartieri. E non si parla solo di uomini, ma anche di mezzi: a Cremona, ad esempio, metà delle auto a disposizione della polizia sono ferme per guasti e mancano i soldi per ripararle. Il sindacato Sap ha lanciato un appello a «benefattori» locali perché si possano rimettere in strada. La polizia che chiede la beneficenza ai cittadini per garantire i cittadini: una metafora quasi grottesca. A volte l’insicurezza diffusa tracima in Internet, e non solo a livello di commenti rabbiosi sui social network: è dei giorni scorsi la lettera aperta di uno dei più noti professionisti italiani del Web, Paolo Valenti, 48 anni, milanese, che dopo aver subìto una serie di furti ha scritto nel suo blog al prefetto della sua città: «Se lo Stato se ne frega, ci permetta di utilizzare altri strumenti. Se non è in grado di assicurarci la sicurezza, può delegarla a noi cittadini». Insomma, Far West.
A favorire gli scontri nei quartieri, poi, c’è la struttura stessa delle città. È questa la riflessione dell’urbanista Paolo Berdini: «Nelle periferie italiane si vive sempre più chiusi. C’è l’assenza fisica dei collegamenti con il centro della città che ci ricorda come quelle siano isole, peraltro quasi mai felici, anzi perfette per innescare conflitti interni». Le periferie sembrano costruite per non disturbare chi ha la fortuna di non viverci: «Spesso non si tratta neanche di cattivi progetti: non lo è ad esempio quello di Tor Sapienza, ma sono opere incompiute: nel grande cortile tra i palazzoni doveva arrivare la metropolitana e dovevano esserci i servizi. Oggi non arriva la metro e vengono tagliati i pochi bus. Ci si sente lontani da tutto. Bisogna completare le opere e poi chiudere definitivamente la fase dell’espansione urbana: non è un capriccio ambientalista ma è l’unica via per città vivibili».
Poi, certo, c’è il fatto che è sulle periferie, sui quartieri più colpiti dalla crisi, che le amministrazioni di tutta Italia fanno sempre ricadere l’onere dell’accoglienza. Roma è ancora un caso emblematico, ma non è l’unico: «Nei quartieri centrali non ci sono né campi rom, né centri di accoglienza. I più vicini sono a Ponte Marconi, prima periferia sud, o dopo la tangenziale est, sulla Salaria», dice Berdini. «Eppure ci sarebbe il modo per distribuire il carico: a Prati o al Flaminio, quartieri centrali e benestanti, ci sono molte caserme abbandonate. Nei progetti di recupero però non si prende neanche in considerazione di destinare all’accoglienza almeno una porzione di questi stabili immensi. Sarebbe un bel messaggio, un forte argomento da contrapporre alla rabbia». Invece i rifugiati di Tor Sapienza sono stati spostati in un’altra periferia, forse ancora più critica, l’Infernetto. Che infatti ha già cominciato la sua guerra tra poveri.