Giovanni Vigo, Sette 21/11/2014, 21 novembre 2014
QUANDO TRA L’ITALIA DEL NORD E QUELLA DEL SUD C’ERA UN DIVARIO DEL 226 PER CENTO
Le conseguenze della disuguaglianza ricadono in primo luogo sulle persone e sulle famiglie. Per questo motivo l’attenzione si concentra di preferenza sul divario fra ricchi e poveri, su chi vive in mezzo a un lusso sfrenato e chi stenta a sopravvivere. Esistono però altri tipi di disuguaglianza che possono avere conseguenze non meno gravi. Per esempio, all’interno di uno Stato, possono coesistere differenze territoriali capaci di mettere in pericolo la stabilità politica e sociale e, discutendo di disuguaglianza, non possiamo trascurarle.
Le ineguaglianze geografiche hanno una lunga storia. Nel corso dei secoli città e campagne sono state quasi sempre mondi contrapposti, non solo per lo stile di vita ma anche dal punto di vista del reddito: più ricche e talvolta fastose le prime, ancorate a un livello di misera sussistenza le seconde. In uno studio sul catasto fiorentino del 1427 David Herlihy e Christiane Klapisch-Zuber sono giunti alla conclusione che a Firenze il reddito pro capite era pari a circa 4 volte quello delle città minori e ancora di più rispetto a chi viveva in campagna. Fernand Braudel ha stimato che ai primi del Seicento il reddito medio di un veneziano era almeno 3,7 volte quello degli abitanti della Terraferma. Disparità forse meno pronunciate ma non meno significative emergerebbero dal confronto fra regioni centrali e regioni periferiche, tra province costiere, favorite dai commerci e dalle attività connesse, e province lontane dal mare.
Quanto più andiamo indietro nel tempo, tanto più incerte sono le stime. Oggi possiamo contare su valutazioni molto accurate dei redditi regionali e calcolare meglio le disuguaglianze territoriali all’interno degli Stati. Per quanto riguarda la nostra penisola, possiamo risalire fino al 1871 quando la nazione muoveva i primi passi. Scomponendo il Paese in macroregioni siamo in grado di cogliere la “grande divergenza” fra Nord e Sud che ha accompagnato la nostra storia dall’unità agli anni del miracolo economico, e la successiva convergenza che non è valsa tuttavia a colmare il divario.
La crescita del “triangolo industriale”. Nel 1871 la disparità era modesta: il reddito pro capite degli abitanti del Nord-ovest aveva un vantaggio del 26 per cento rispetto al Sud. Da quel momento il divario incominciò ad aumentare, prima a passo lento, poi sempre più celermente fino alla metà del secolo scorso. Nel 1911 il gap era pari al 47 per cento, nel 1931 al 73 per cento, nel 1951 al 147 per cento, nel 1961, quando raggiunse la punta massima, al 154 per cento. Poi scese rapidamente. Nel 1971 si era ridotto al 76 per cento e tale è ancora.
Un destino diverso ebbe il Nord-est che nel 1871 aveva un reddito medio inferiore di appena il 13 per cento rispetto al Nord-ovest ma che nel 1951 aveva raggiunto il 44 per cento. Poi, nei decenni successivi, si registrò una rapida convergenza fino a raggiungere la parità nel 1981. Un percorso analogo ha seguito l’Italia centrale. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento il divario rispetto al Nord-ovest non superava il 3 per cento; poi incominciò ad aumentare per effetto della crescita economica del “triangolo industriale” fino a raggiungere il 49 per cento nel 1951. Negli anni successivi iniziò la discesa e oggi la disparità si limita a una modesto 6 per cento.
Ripensando al trend del reddito pro capite nelle macroregioni dobbiamo convenire che esistono ancora due Italie: quella del Centro-Nord e quella del Mezzogiorno (isole incluse) che presentano un divario del 69 per cento. Più marcato, come è facile immaginare, risulta il gap fra la regione più ricca, la Lombardia, e quella più povera, la Calabria: da un divario iniziale del 60 per cento si è passati al 226 per cento alla metà del secolo scorso per scendere al 100 per cento negli ultimi anni.
L’Italia non è il solo Paese nel quale si annidano divari importanti: negli Usa il rapporto fra il reddito medio dello Stato più ricco e dello Stato più povero è pari a 1 volta e mezzo; in Spagna il divario fra la regione di Madrid e l’Estremadura è di 1,7 a 1; nel nostro vicino d’oltralpe il divario fra l’Île-de-France e il Nord-Pas-de-Calais è di 1,6 a 1, non molto lontano da quello italiano; in Germania è di 1,4 a 1.
Queste disuguaglianze sono fonte di tensioni fra le regioni ricche e le regioni povere (fomentate più spesso dalle prime), ma sono differenze insignificanti rispetto a quelle che si riscontrano in Russia e in Cina. Non è facile disporre di informazioni pienamente attendibili per questi due Paesi. Per l’Unione Sovietica i primi dati disponibili risalgono al 1958: il rapporto fra il reddito pro capite della repubblica più ricca e di quello della repubblica più povera era di 4 a 1; nel 1991, al momento della sua dissoluzione, era di 6 a 1, quasi nove volte il divario Nord/Sud. In Jugoslavia la situazione era ancora più drammatica: appena prima di andare in frantumi il rapporto era di 8 a 1. La fine dei due Paesi non fu determinata solo dalla stridente disuguaglianza economica che ebbe però il suo peso. «Le repubbliche più ricche», commenta Branko Milanovic, «volevano andare per la propria strada. Le altre repubbliche, più povere, non potevano far altro che subire la decisione».
Lo stesso studioso si è posto, riguardo all’altro gigante comunista, una domanda di sapore orwelliano: «Sopravviverà la Cina fino al 2048?». L’immenso Paese asiatico ha una storia e una coesione sociale diversa rispetto all’Urss, ma l’aumento del divario fra province ricche e povere non può essere dimenticato. Nel 1990, all’inizio delle riforme industriali il rapporto fra i loro redditi individuali era di 7 a 1, nel 2006 di 10 a 1. «Il pericolo in agguato dietro la progressiva separazione ... tra la “banda degli undici” delle province marittime e delle città da una parte, e il resto della Cina dall’altra», conclude ancora Milanovic, «non può essere minimizzato o trascurato. Se c’è un pericolo all’unità cinese, esso viene dalla spaccatura economica interna del Paese».
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