Vittorio Zincone, Sette 21/11/2014, 21 novembre 2014
«CON O SENZA ART. 18, GLI IMPRENDITORI HANNO GIÀ LE MANI MOLTO LIBERE»
[Intervista a Elsa Fornero] –
È come un mantra: «Nel 2011 rischiavamo il default. Si doveva tappare la falla miliardaria del debito. L’unica soluzione era il blitz sulle pensioni». Se fosse una star hollywoodiana Elsa Fornero potrebbe tatuarsi questa frase su una spalla. Ma è un’economista. E quindi la usa in tv o sui quotidiani, ogni volta che qualcuno le rinfaccia l’operato da ministro del Welfare nel governo Monti. Quando le chiedo che cosa pensi del referendum sponsorizzato dalla Lega per abolire la sua riforma delle pensioni, quindi, non si scompone: «È la democrazia. Ma poi chi fa queste proposte dovrebbe anche dire ai cittadini in che modo riuscirà a reperire gli ottanta miliardi che quella riforma permette di risparmiare entro il 2020 e che sono stati destinati a ridurre il debito pubblico. Non sarebbe un’operazione a costo zero. E bisognerebbe imporre sacrifici di altro tipo».
L’intervista si svolge in una stanza austera del Collegio Carlo Alberto, a Moncalieri. Qui Fornero dirige il CeRP, un centro studi sul Welfare. Scandisce le parole con eloquio professorale. Anche quando deve sparare bordate: «L’ex leader cislino Raffaele Bonanni avrà il coraggio di guardarsi allo specchio dopo aver ritirato la pensione stratosferica maturata grazie agli aumenti degli ultimi anni dello stipendio da sindacalista e col sistema retributivo?».
Ogni tanto prende carta e penna: disegna una curva, scarabocchia due sigle… Nell’ultimo anno ha viaggiato molto: «Ho partecipato a molte conferenze. C’è interesse per l’esperienza di un’economista al governo e per le nostre riforme in materia di pensioni e di lavoro».
Il guaio è che fuori dal mondo accademico molti italiani continuano a individuarla solo come la titolare di leggi troppo crudelmente austere. Matteo Salvini e il Carroccio piemontese sono arrivati a manifestare sotto casa dei suoi genitori, a San Carlo Canavese. Fornero è indignata: «Si tratta di squadrismo portato avanti da politici spregiudicati che soffiano sulla rabbia di chi sta peggio». In alcuni casi la rabbia si è trasformata in lettere minacciose, che sono state recapitate, in modo grottesco, anche a molti cittadini che hanno l’unica colpa di chiamarsi Fornero. Dice: «Noi ministri tecnici siamo stati esposti a ogni crudeltà. Non avevamo gruppi di potere a difenderci. Vittime ideali del cinismo politico».
Chi vi ha esposti a ogni crudeltà?
«I partiti che appoggiavano Monti. Quindi Bersani, Alfano, Casini… Quando Bersani nel 2011 parlò del suo “sacrificio di non andare alle elezioni”, si scordò di dire che se avesse vinto le elezioni avrebbe dovuto fare quel che fece il governo Monti, senza temporeggiamenti e senza troppa delicatezza».
Quei partiti però vi appoggiarono votando tutte le vostre riforme.
«I politici che hanno un rapporto stretto con i cittadini avrebbero dovuto fare di più».
E cioè?
«Aiutarci a spiegare il senso dei sacrifici. Ci votavano, è vero, ma poi pubblicamente ci aggredivano. Hanno preso quel che gli serviva e non hanno fatto la loro parte: sorreggere la nostra azione e approvare almeno una nuova legge elettorale».
Lei aveva la possibilità di denunciare questa ipocrisia. Non ha mai avuto modo di farla notare?
«Ho partecipato a molte riunioni con Alfano, Bersani e Casini. Tra di loro c’era un cameratismo un po’ fuori luogo. L’interesse per il merito delle discussioni era pari a zero».
Davvero?
«Ricordo una riunione convocata d’urgenza a Palazzo Giustiniani, nell’ufficio di Mario Monti. C’erano Bersani, Casini e Alfano. Ciascuno soppesava la propria posizione rispetto alla proposta di riforma del mercato del lavoro in termini squisitamente politici. A un certo punto il leader dell’Udc disse: “Se dobbiamo fare un favore a Bersani facciamolo”».
Qual era il favore?
«Inserire una clausola per cui in caso di licenziamento con “manifesta insussistenza del motivo economico”, il lavoratore avrebbe potuto essere reintegrato. Il giorno successivo, dopo aver letto i giornali che parlavano di una vittoria di Bersani, Alfano e Casini mi chiesero di bilanciare la riforma: più flessibilità per dare anche a loro il senso della vittoria».
Consenso, consenso, consenso.
«Loro erano preoccupati del parere degli industriali. Il segretario del Pd voleva principalmente che la riforma avesse il placet della Cgil».
Oggi il segretario del Pd è decisamente meno attento al sindacato.
«Renzi li ha piallati. Quest’ultima modifica dell’articolo 18 ha soprattutto un valore politico, molto thatcheriano. Sembra quasi che si voglia esibire lo scalpo della Cgil».
Presto verrà esibito anche lo scalpo di chi non è più garantito dall’articolo 18?
«In realtà non credo che si possa fare più di quel che ha fatto il governo Monti. Non si può escludere l’intervento dei giudici. Davvero si ha la pretesa di negare a un lavoratore che ritiene di aver subito un licenziamento per un motivo economico palesemente insussistente la possibilità di appellarsi a un giudice? Un po’ forte, no?».
Se è forte persino per lei!
«Perché “persino”? Io sono stata dipinta come insensibile, ma ho solo fatto il mio dovere in condizioni di vera emergenza. Mi fece molto piacere quando Eugenio Scalfari mi definì “una donna della sinistra sociale”. In ogni caso, non si venga a dire che un’ulteriore riforma dell’articolo 18 è voluta dall’Europa».
Non è così?
«Non credo proprio. All’Europa interessa che le riforme vengano applicate. E nella nostra c’era molto di buono da mettere in pratica. E non credo che una nuova modifica dell’articolo 18 servirebbe molto agli imprenditori: tra la mia riforma e il decreto Poletti hanno già le mani molto libere. Ripeto: è un’operazione tutta politica».
Renzi…
«Considerata la cinica resistenza della politica a cambiare, probabilmente il suo metodo è giusto. I tecnici, quando hanno cercato il dialogo sono stati sbeffeggiati, lui con i suoi modi spicci può guidare il Pd e dire con disinvoltura che il posto fisso non esiste più. I leader della sinistra Pd ora sono frastornati».
Sono quelli che più le remarono contro. Fassina chiese addirittura che lei non partecipasse alle feste dell’Unità.
«Se potessero oggi non cambierebbero neanche una virgola della mia riforma».
Lei salvò i dipendenti pubblici. A loro non venne tolto l’articolo 18.
«L’articolo 18 riguarda i contratti privati. Ma io proposi di aumentare la flessibilità in uscita anche nel Pubblico. Non fui ascoltata. Susanna Camusso mi definì “la ministra che ama i licenziamenti”. Si rende conto dell’ostilità? Come se fosse così assurdo allontanare i dipendenti fannulloni o truffaldini che danneggiano la Pubblica Amministrazione. Se Renzi fosse coerente dovrebbe porre fine a questa ambiguità».
L’Apartheid tra pubblico e privato?
«Già. Nessuno riesce a far chiarezza: la nuova abolizione dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act varrebbe anche per la Pubblica Amministrazione?».
Me lo dica lei.
«Sul piano sostanziale sì, sul piano giuridico non si sa. Ma dubito che lo sarà».
È favorevole al Tfr in busta paga?
«Si raschia il fondo del barile. Con il decreto Poletti si lanciava il segnale per cui “meglio uno straccio di lavoro che niente”. Ora si propone ai lavoratori di ritirare prima la loro liquidazione aumentando le tasse sul Tfr prelevato. E rendendola quindi un’operazione non conveniente e molto cinica».
Cinica?
«Sì. Perché lo ritireranno solo i lavoratori maggiormente in difficoltà. È come se il governo proponesse loro un prestito a un tasso quasi usuraio».
Cittadini in difficoltà. Pensa mai che se invece di fare la riforma delle pensioni in pochi giorni si fosse presa un po’ di tempo per studiare, forse non ci sarebbe stata la tragedia degli esodati?
«Non avevamo quei giorni in più. Mi venne chiesto di preparare la riforma in due settimane. Mi sono presa la responsabilità politica, ma i dati non li ho inventati io. Mi sono fidata della Ragioneria dello Stato e dell’Inps. E anche loro non potevano sapere di accordi di prepensionamento non ufficializzati tra datori di lavoro e dipendenti. Fu un errore, grande, all’interno di una riforma sacrosanta. Dopodiché io l’ho sempre detto che il provvedimento era ed è migliorabile».
Come?
«Per esempio non allungando l’età pensionabile a chi ha delle persone disabili a carico».
Con quali soldi si dovrebbe finanziare questa miglioria?
«Tassando di più le pensioni più alte».
La Consulta ha già bocciato questa soluzione.
«Secondo me ha sbagliato. E viste le pensioni che hanno i giudici costituzionali sarebbe bene che non decidessero loro su questo argomento. La bocciatura comunque è avvenuta perché la Consulta considera la pensione sullo stesso livello dello stipendio. In realtà lo stipendio è determinato dal mercato, le pensioni retributive, non calcolate sui contributi versati, ma su una media degli ultimi stipendi, non lo sono affatto».
E quindi?
«Credo che si debba proporre un contributo di solidarietà molto sostanzioso per le pensioni più alte. È comprensibile a tutti che certe pensioni sono autentici “regali”. C’è un problema di equità. Non solo…».
Cos’altro?
«Se avessimo una buona Pubblica Amministrazione, come quella francese, potremmo calcolare a quanto avrebbe diritto ogni baby pensionato o pensionato “retributivo” se la sua pensione fosse di tipo “contributivo” per poi procedere con un adeguamento».
La Cgil scenderebbe in piazza coi forconi. Parliamo anche di pensioni basse, intorno ai mille euro.
«Nel caso di quelle più basse, basterebbe verificare se ci sono altri redditi o rendite, incrociando i dati con l’Isee. Andrebbero anche rinnovati gli ammortizzatori sociali. Noi avevamo cominciato a farlo con l’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego».
Lei è favorevole al reddito di cittadinanza?
«Sì, ma solo se fatto in maniera seria. Concedendolo a chi non smette di cercare lavoro. Altrimenti diventa una macchina mangia soldi di Stato».
Lei è stato anche ministro delle Pari Opportunità.
«Un giorno mi azzardai a dire che ci sono famiglie di fatto che richiedono una qualche forma di riconoscimento. Fui accusata di voler far cadere il governo. E l’Avvenire mi attaccò con un articolo durissimo».
Le è mai capitato di dire un NO a Monti?
«Mi è capitato per ben tre volte di dire “obbedisco” anche se non ero d’accordo».
Quando?
«La prima volta quando mi assegnarono un viceministro che proprio non conoscevo, voluto, mi si disse, da Forza Italia… La seconda quando mi chiese di annullare la conferenza stampa con cui avremmo annunciato l’invio delle lettere per comunicare agli italiani l’importo delle loro future pensioni».
E la terza?
«Quando ero a caccia di fondi per la ricerca sulla Sla e gli dissi: “Mario, se non troviamo questi finanziamenti perdiamo il contatto col Paese”».
Che cosa le rispose Monti?
«Che capiva la mia posizione. Ma che non era possibile rinunciare all’obiettivo di non sforare il tetto sui conti imposto dall’Ue».