Marco Restelli, Sette 21/11/2014, 21 novembre 2014
STENDHAL, BYRON E GOETHE, LE MIGLIORI GUIDE PER IL GRAND TOUR D’ITALIA
Chi non fa almeno un viaggio in Italia, prima o poi soffrirà di un complesso di inferiorità». Era questa l’autorevole opinione di Samuel Johnson, saggista britannico del Settecento, secolo d’oro del Grand Tour. Per trecento anni, dalla fine del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, i figli dell’aristocrazia e della borghesia europea, guidati da esperti precettori, viaggiarono sulle loro eleganti carrozze a cavalli visitando tutta l’Europa per raffinare la propria educazione imparando lingue e costumi altrui. Il Grand Tour poteva durare mesi o anni ma la meta finale, quella imperdibile, era sempre l’Italia: il Paese delle arti, della bellezza, del paesaggio, del gusto. Non a caso l’espressione francese “Grand Tour” fece la propria comparsa in Voyage or a Complete Journey through Italy, rinomata guida scritta nel 1670.
Il Grand Tour produsse non solo diari, romanzi, saggi e dipinti, ma anche un fenomeno tipico della modernità: l’abitudine a spostarsi per il puro piacere di farlo. Tant’è che il termine stesso “turismo” deriva proprio dal Grand Tour. All’epoca, «il viaggio rappresenta una forma di splendido spreco e, in alcuni casi, di cura dell’anima». Ce lo ricorda lo storico Attilio Brilli - fra i massimi esperti di letteratura di viaggio - in un libro vivace e affascinante appena edito da Il Mulino: Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi.
Brilli ci restituisce un’Italia vista dagli occhi dei protagonisti del Grand Tour. Ripercorriamo con lui gli itinerari e le emozioni dei più bei nomi della cultura europea: Stendhal, Dickens, Lord Byron, Madame de Staël, Wagner, Maupassant, Foscolo, Mary Shelley, Turner… l’elenco sarebbe lunghissimo. Un esempio fra tutti: Goethe, che nel 1816 pubblica il suo Viaggio in Italia. Ogni angolo del nostro Paese è una sorpresa: diretto a Verona Goethe fa una sosta non prevista sul lago di Garda perché gli appare un prodigio della natura; a Napoli si innamora dell’atmosfera della città abbandonandosi all’ebbrezza e «acquisendo una capacità percettiva più sottile e una scrittura più fluida»; dopo un giro in Sicilia annota: «Senza la Sicilia non ci si può fare un’idea dell’Italia, qui è la chiave di tutto». Ed ecco cosa scrive di Roma in una lettera a un amico: «Posso dire che solamente a Roma ho sentito che cosa voglia dire essere un uomo. Non sono mai più ritornato a uno stato d’animo così elevato, né a una tale felicità di sentire».
L’Italia, dunque, “eleva gli animi” di quei viaggiatori che le si avvicinano senza pregiudizi, come raccomandava Montesquieu: «Si viaggia per osservare i costumi e le maniere più diverse, non per sottoporle a critica». Ma non tutti sono così saggi: c’è chi considera l’atmosfera del nostro Paese una fonte di tentazioni e di peccati. Roger Ascham, per esempio, vede i giovani tornati dall’Italia – e in particolare da Venezia – come «individui propensi a disprezzare l’istituto del matrimonio e a convincere gli altri di questa loro inclinazione». Due secoli dopo, il futuro presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson indica Roma come la sede più idonea per un’educazione artistica, ma mette in guardia i viaggiatori americani dal «rimanere succubi delle arti voluttuose delle donne europee», che mettono a repentaglio «l’innocenza», elemento costitutivo dell’America nata dai Padri pellegrini. Fortunatamente molti intellettuali americani esprimono sull’Italia pareri ben diversi: da Fenimore Cooper a Melville, da Edith Wharton a Mark Twain, a Henry James (che di Venezia scrive: «Qui il puro e semplice uso della vista consente già di raggiungere una sufficiente felicità»).
Oltre l’orizzonte. In ogni caso il nostro Paese trova ottimi difensori: le viaggiatrici. «Sono le donne le prime ad accantonare stereotipi e luoghi comuni nel descrivere gli italiani», scrive Brilli. A partire dal Settecento «il viaggio e in particolare la narrazione del viaggio consentono alle donne di spingersi oltre il limitato orizzonte delle incombenze domestiche e di affermare il diritto a esprimersi e a manifestare libertà di opinioni e di giudizio». Ecco per esempio cosa annota nel Settecento una delle protagoniste del Grand Tour, Lady Mary Wortley Montagu: «Palazzi, piazze, fontane, statue, ponti non solo hanno eleganza e grandiosità in se stessi, bensì lasciano trasparire un gusto diverso da quello che ricorre negli edifici pubblici di altri paesi. Più percorro l’Italia e più mi convinco che gli italiani sono dotati in tutto e per tutto di uno stile che li distingue in maniera determinante dagli altri popoli europei. Non saprei dire da dove abbiano saputo trarlo, se dal genio naturale o dall’imitazione degli antichi, o se lo posseggano per semplice ereditarietà. Ma che esso esista è fuori di dubbio».
Nel 1820, il Journal des Dames elenca il necessario per le viaggiatrici: una carrozza con lettino d’ottone smontabile per la notte, una bibliotechina portatile ben fornita, bauli, cassettine e cofanetti multiuso e – da non dimenticare – le cappelliere. Tuttavia, non sono poche le signore che scelgono di compiere il Grand Tour in ben altro stile: vestite da uomo, per evitare seccature e circolare liberamente. All’epoca del Grand Tour viaggiare è faticoso, come sa chi entra in Italia valicando le Alpi: prima di intraprendere la salita bisogna smontare la carrozza, trasportarla a pezzi a dorso di mulo e poi rimontarla a valle, mentre il passeggero, a volte, scende scivolando in slitta. Le Alpi appaiono aspre, minacciose ma anche splendide, ispiratrici di pagine memorabili come quelle di Mary Shelley, l’autrice di Frankenstein. Ma l’Ottocento è anche il secolo della diffusione delle ferrovie e della creazione del turismo organizzato, inventato da Thomas Cook: con queste novità inizia l’inesorabile declino del Grand Tour e si entra nella modernità.
«Oggi che margini restano all’immaginario del viaggiatore?», si chiede Brilli. Partendo dalla constatazione che «nessuna conoscenza reale di un territorio è possibile senza una sua contestualizzazione storica», l’autore ci invita a «lasciarci sedurre dai taccuini» di quegli intrepidi viaggiatori del passato. Seguire le loro orme, ripercorrere i loro itinerari e osservare questo Paese, per un momento, con i loro occhi. Così il nostro viaggio non sarà più solo uno spostamento nello spazio, ma anche un’escursione nel tempo e nella storia del pensiero.