varie 21/11/2014, 21 novembre 2014
ARTICOLI SIL CASO ETERNIT DAI GIORNALI DEL 21 NOVEMBRE 2014
CARLO FEDERICO GROSSO, LA STAMPA –
L’epilogo della vicenda giudiziaria Eternit è sicuramente una vergogna. Condotte delittuose gravissime, accertate giudizialmente in modo certo, che avevano dato luogo a condanne di primo e di secondo grado pesanti, sono improvvisamente svanite dissolvendosi nel nulla. Liberi tutti, dunque, o quantomeno libero l’unico soggetto condannato dal giudice di appello.
Com’era inevitabile, ieri sono esplose le polemiche, che hanno investito - nelle parole dello stesso Presidente del Consiglio - soprattutto l’istituto della prescrizione, che ancora una volta avrebbe fatto irruzione nel processo penale producendo guasti dirompenti. Di qui l’urgente necessità, si è ribadito, di cambiare le regole penali del decorso del tempo. Nella vicenda Eternit, tuttavia, la disciplina della prescrizione non è, forse, la responsabile principale dello sconcertante esito giudiziale. La cassazione ben avrebbe potuto infatti eludere, con un’interpretazione diversa della legge penale, gli effetti perversi dello scorrere degli anni.
Nel processo Eternit la procura di Torino aveva contestato il delitto di disastro, reato che si realizza quando viene cagionato un evento dirompente di vaste proporzioni che crea una situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. E’ pacifico che a realizzare tale delitto non è necessario che si verifichi la morte o la lesione personale di qualcuno, ma è sufficiente che taluno, cagionando l’evento distruttivo - il crollo di un edificio, il naufragio di una nave, l’inquinamento di un ambiente - faccia sorgere il rischio che un numero indeterminato di persone rimanga ucciso o sia menomato nell’integrità fisica. Se per effetto del disastro si verifica la morte o la malattia di qualcuno, con il delitto di disastro concorreranno quelli di omicidio e di lesioni personali, tanti quante sono le persone uccise o comunque offese.
Il problema è sorto quando ci si è domandati in quale momento il reato di disastro si consumi. Secondo l’interpretazione maggioritaria della cassazione, ciò si verificherebbe quando le condotte che cagionano la situazione di pericolo (ad esempio l’inquinamento di un ambiente) vengono a cessare (ad esempio, perché l’ambiente viene bonificato o l’attività produttiva nociva viene interrotta). Secondo un’interpretazione minoritaria, la persistenza dell’insorgere di malattie o del verificarsi di decessi impedirebbe invece di considerare concluso il fatto disastroso, che rimarrebbe vivo fino a che tutte le patologie o gli eventi collegati al disastro si siano esauriti. In questa prospettiva il delitto di disastro verrebbe meno soltanto quando si sia verificato l’ultimo decesso o l’ultima malattia collegata alla situazione di pericolo.
La spiegazione tecnica di quanto è avvenuto nella vicenda Eternit risiede tutta in questa divergenza d’interpretazione. Tribunale e Corte di Appello di Torino, per non considerare prescritto il reato contestato dalla Procura, avevano fatto affidamento sulla nozione di disastro «allargata» agli eventi di morte e di lesione personale. La cassazione, ribadendo quanto aveva già più volte stabilito, ha invece individuato il momento consumativo del reato in quello in cui la «fabbrica delle polveri» aveva cessato di produrre. Così individuato il «tempo del commesso reato», dichiarare la prescrizione era giocoforza sulla base di un semplice calcolo di anni, mesi e giorni trascorsi.
Avrebbe potuto tuttavia, la cassazione, decidere diversamente? Certo che sì: considerata l’eccezionalità della situazione, la particolare gravità della vicenda delittuosa e le ragioni di giustizia sostanziale inevitabilmente sottese al caso sottoposto al suo giudizio, avrebbe potuto optare per l’interpretazione contrapposta del momento consumativo del reato di disastro. Non lo ha fatto perché, tecnicamente, sarebbe stato sbagliato farlo? E’ difficile rispondere, perché in diritto non è frequente poter discernere con sicurezza ciò che è tecnicamente corretto e ciò che è tecnicamente scorretto. Quando la lettera della legge non è vincolante e si apre alla possibilità d’interpretazioni differenti, il giudice, purché motivi adeguatamente la sua decisione, è tutto sommato libero di orientare le proprie scelte tecniche sulla base degli scopi di giustizia che intende perseguire.
Stabilito che il giudice di legittimità, nella vicenda giudiziaria Eternit, non era costretto dall’assoluta ineluttabilità della legge penale ad optare per l’interpretazione prescelta del momento consumativo del reato, la «responsabilità» della disciplina attuale della prescrizione per l’esito abnorme di tale vicenda inevitabilmente si stempera. Anche in pendenza della disciplina vigente, l’effetto estintivo del decorso del tempo avrebbe potuto essere evitato; dato il lungo periodo trascorso dalla chiusura dell’Eternit, a fronte dell’interpretazione «rigorosa» seguita dalla cassazione anche una più ragionevole disciplina della prescrizione non avrebbe d’altronde potuto, verosimilmente, evitare l’estinzione del reato di disastro.
Ben venga comunque, ora, l’indignazione (tardiva) dei politici per gli effetti dirompenti della prescrizione (come è stata delineata qualche anno fa dalla c.d. riforma ex Cirielli) sul sistema di giustizia italiano. Se tale indignazione dovesse condurre a riformare finalmente l’istituto in modo da renderlo adeguato ai tempi necessari a portare a termine i processi penali, l’esito della vicenda giudiziaria Eternit, al di là dello sconcerto che inevitabilmente suscita, avrebbe quantomeno prodotto un risultato positivo. Purché ovviamente, sull’onda dell’indignazione, non si finisca per cadere nell’eccesso opposto: eliminare cioè pressoché del tutto, o ridurre in modo spropositato, gli effetti estintivi del decorso del tempo. La ratio della prescrizione - e cioè non punire il delinquente che, a distanza di anni dalla commissione del reato, magari si è redento o si è rifatto una vita - mantiene infatti, intatta, la sua efficacia persuasiva.
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DONATELLA STASIO, IL SOLE 24 ORE -
La sentenza Eternit rivela due paradossi: quello di una politica colpevolmente latitante sul fronte della prescrizione, che però non rinuncia a cavalcare un dolore collettivo per continuare a promettere quanto finora non ha saputo/voluto mantenere; quello di una magistratura che reclama nuove norme sulla prescrizione ma, in assenza di una sponda normativa, rinuncia alla legittima duttilità interpretativa della propria funzione anche se ciò confligge con il senso di giustizia imposto dall’esercizio della funzione stessa.
Suonano come una beffa le parole di Matteo Renzi a poche ore dalla sentenza Eternit: «Non ci può essere l’incubo della prescrizione. Bisogna cambiare le regole del gioco». Parole sante, se non fossero pronunciate dal capo di un governo che da aprile annuncia la riforma della prescrizione, che l’ha approvata solo il 29 agosto, ma che ancora non ha fatto pervenire al Parlamento la sua proposta (pur continuando a parlarne come cosa già fatta), con il solo risultato di aver rallentato i lavori parlamentari in corso da maggio. Oggi Renzi sembra svegliarsi da un lungo torpore e accorgersi di quanto sia micidiale la normativa vigente e urgente modificarla. Parlare di prescrizione, oggi, è "popolare" e il premier cavalca il sentimento popolare nel solco della peggiore tradizione politica, quella che si accorge (o finge di accorgersi) dei problemi della giustizia solo di fronte alle (presunte) emergenze o a casi eclatanti che scuotono l’opinione pubblica, salvo dimenticarsene nel giro di poco tempo.
Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall’uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Il dibattito politico non è mai decollato; al più ricomincia da zero, come se il terreno non sia mai stato arato in ogni sede, giudiziaria, scientifica, istituzionale. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l’ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione, considerata invece da sempre la «priorità» per rendere efficace quella lotta. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il «disastro ambientale» contestato nel processo Eternit: proprio sul momento della sua consumazione si sono divisi i giudici di appello e della Cassazione. Così quel processo va ad aggiungersi ai 113mila fulminati dalla prescrizione. Di questo il governo dovrebbe farsi carico, riformando la prescrizione all’insegna della flessibilità, come in Europa. E senza tirare in ballo la lunghezza dei processi. Il caso Eternit dimostra che non c’entra niente, perché i processi sono stati celebrati con rapidità esemplare considerata la mole e il numero delle parti civili (6000). Snellire il processo è cosa buona e giusta ma richiede tempi lunghi mentre la riforma della prescrizione può viaggiare autonomamente e rapidamente. Invece di continuare con gli annunci, quindi, il governo presenti subito il suo ddl o lasci che il Parlamento vada avanti, intervenendo con le sue proposte strada facendo, in modo costruttivo.
Ma se le norme vigenti non sembrano coerenti al senso di giustizia, altrettanto deve dirsi della sentenza della Cassazione. Che ha ribaltato l’interpretazione dei giudici di merito sul momento consumativo del reato di «disastro ambientale», anticipandolo alla data di fallimento dell’azienda (mentre gli altri giudici lo hanno stabilito con riferimento alle morti da amianto). Era la prima volta che si affrontava questo tema rispetto a un reato che è silente e progressivo. E la Cassazione forse aveva i margini interpretativi per non dichiarare la prescrizione. Ieri, sulle colonne della Stampa, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l’interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell’autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un «ostacolo insormontabile» rende impossibile che il giudice proceda. Peraltro, nel 2004 sempre la Cassazione francese aveva stabilito che per alcuni delitti (abus des biens sociaux, abus de confiance eccetera) il termine decorre da quando la condotta è stata accertata, quindi anche a molta distanza dalla commissione del reato. Non è giurisprudenza creativa e tanto meno eversiva. Ma un esempio di come, nel rispetto del diritto, il giudice possa rispondere all’esigenza di giustizia che la sua funzione gli impone. Nonostante la latitanza della politica su temi delicati e l’aria che tira contro i magistrati.
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CESARE MIRABELLI, IL MESSAGGERO -
La prescrizione dei reati, che il codice di diritto penale prevede, è un’offesa al senso di giustizia o una garanzia per il cittadino di fronte alla pretesa punitiva dello Stato? Questa domanda è affiorata, evidente e drammatica, in occasione della sentenza della Corte di Cassazione che ha annullato la condanna a 18 anni di reclusione comminata dalla Corte d’appello di Torino al magnate svizzero Stephan Ernest Schmidheiny per il disastro doloso ambientale causato dall’amianto nella produzione dell’Eternit.
Si può comprendere che sconcerti una così differente valutazione nei diversi gradi di giudizio. Come pure si può comprendere la delusione dei familiari di chi ha perso la vita per le infermità provocate dall’amianto ed il loro legittimo desiderio che se ne accertino le responsabilità. Non si possono invece condividere le manifestazioni dirette ad esercitare una qualche pressione sui giudici, reclamando la soddisfazione di una pretesa “giustizia sostanziale” che forzi le regole del sistema penale e le garanzie del processo.
Resta la domanda: è giusto che il reato si estingua e non possa essere accertato e punito a causa del tempo trascorso da quando è stato commesso? Un tempo stabilito dal codice penale in relazione alla gravità del reato: dai venti anni previsti per delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, ai due anni per le contravvenzioni punite solamente con l’ammenda.
Può apparire ingiusto che un reato non sia punito, ma ancor prima che non possa essere accertato giacché la prescrizione preclude la valutazione dei fatti a causa del tempo trascorso. Ma sarebbe altrettanto ingiusto perseguire senza limiti di tempo qualsiasi comportamento ritenuto penalmente rilevante, lasciando il cittadino nella permanente situazione di “giudicabile”, assoggettato ad una pretesa punitiva indefinita, che in qualsiasi momento si può manifestare.
Verrebbero, in questo caso, scandagliati fatti tanto remoti da essere difficili da ricostruire e per imputazioni dalle quali sarebbe altrettanto difficile difendersi. Inoltre la pena che venisse comminata a tanto tempo dai fatti, perderebbe del tutto la funzione rieducativa, che la costituzione prevede, per costituire piuttosto una tardiva vendetta.
Nel caso che ha richiamato una così diffusa attenzione su di un istituto tradizionale del diritto penale, quale è la prescrizione, non si mette in dubbio la correttezza della decisione della Corte di cassazione. Come supremo giudice di legittimità ha il compito di interpretare il diritto uniformando la giurisprudenza, e deve offrire la garanzia, che ancora una volta la costituzione prevede, di poter porre rimedio a violazioni di legge, anche quelle dovute a errate interpretazioni.
È bene che eserciti questa funzione, come ogni giudice, al riparo dagli impulsi e dalle attese dell’opinione pubblica: questa è una garanzia necessaria per tutti ed essenziale per la correttezza del giudizio. Ciò che sorprende è che la prescrizione si sarebbe verificata ancor prima che iniziasse il processo di primo grado, dinanzi al tribunale. Vale a dire che si è celebrato il processo costruendo un edificio sulle sabbie mobili: una attività giuridicamente inutile sin dal suo sorgere. Come può apparire inutile costruire, per superare la sentenza della Cassazione, nuove e più gravi ipotesi di reato difficili da configurare, quale l’omicidio volontario per effetto dell’impunito disastro ambientale, in modo da aggirare la prescrizione e ricominciare daccapo con un altro processo.
Qui sta una rilevante differenza: tra l’esercizio dell’azione penale quando il reato è già prescritto e il processo non potrebbe neppure essere iniziato, e la prescrizione che si verifica nel corso del processo a causa della sua eccessiva durata. Nel primo caso si manifesta un audace e del tutto infruttuoso esercizio dell’azione penale, talvolta sollecitato dalla invitante notorietà che richiama o dalla opinione pubblica che la reclama. Nel secondo caso, il più diffuso nelle aule di giustizia, si mette a nudo la inefficienza nel sistema giudiziario. Processi laboriosi e costosi per le indagini svolte e per i dibattimenti celebrati sono vanificati dal sopravvenire della prescrizione nel corso dei diversi gradi di giudizio.
La pretesa punitiva dello Stato è stata esercitata tempestivamente, ma con una singolare contraddizione lo stesso Stato non è stato in grado di assicurare che il processo si concluda in tempi ragionevoli e tali comunque da non vanificare il lavoro svolto. Questo è il nodo sul quale è necessario intervenire: processi che rimangono senza colpevoli, perché la prescrizione preclude l’accertamento della responsabilità penale a meno che l’imputato non rinunci alla prescrizione, e colpevoli che rimangono senza più processo e sfuggono alla condanna.
Possono essere diversamente disciplinati i tempi della prescrizione, sterilizzandone l’effetto dopo il primo grado di giudizio.
Ma è illusorio pensare di risolvere o di fronteggiare con regole processuali le carenze organizzative. In definitiva non prendiamocela con l’istituto della prescrizione, che costituisce una regola di civiltà ed una garanzia per il cittadino. Ma mettiamo mano alle distorsioni che si verificano per la evidente inefficienza del sistema giudiziario.
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MARCO TRAVAGLIO, IL FATTO QUOTIDIANO –
Diciamo subito che la Cassazione non era affatto obbligata dalla legge a dichiarare prescritto il reato di disastro colposo per il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny, condannato in primo e secondo grado per la morte da amianto di 2154 persone (bilancio parziale). Anziché allinearsi alla richiesta del Pg Jacoviello, noto annullatore di processi eccellenti, e dell’avvocato Coppi, sempre molto fortunato al Palazzaccio quando fa certi incontri, la Corte poteva sposare l’interpretazione alternativa data dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Torino, che con due sentenze molto ben motivate avevano spiegato come il disastro provocato dall’amianto, rimasto a lungo latente e poi esploso con effetti che semineranno malati e morti per tanti decenni ancora, non può cristallizzarsi – come invece ritiene la Cassazione – all’istante in cui le fibre del minerale-killer smisero di depositarsi sul terreno con la chiusura della fabbrica di Casale nel lontano 1986 (ragion per cui il reato, pur accertato, si sarebbe estinto addirittura prima del processo, che dunque non avrebbe dovuto neppure cominciare). Insomma, come scrive Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa, c’era un’altra “scelta, ragionata e seriamente argomentabile, tra un’interpretazione che metteva d’accordo diritto e giustizia e un’altra che proclamava summus jus summa injuria”. I giudici hanno imboccato la via più facile, e anche più comoda dinanzi al potente di turno. E, trattandosi della Cassazione, non c’è rimedio al loro eventuale errore: per convenzione, l’ultimo giudice che si alza è quello che ha ragione. Ma c’è qualcosa di ancor più odioso della sentenza Eternit: il commento furbastro di Matteo Renzi: “Cambieremo le regole della prescrizione e faremo in modo che i processi siano più veloci”. Intanto denota un’ignoranza sesquipedale del caso Eternit: se la Cassazione ritiene che il processo non sarebbe dovuto neppure iniziare, la sua durata non c’entra nulla. E poi il tempo dei “faremo” è scaduto da nove mesi: da quando Renzi smise di essere outsider e diventò premier. Che la prescrizione non rientri fra le sue priorità fu chiaro fin da subito, anzi da prima che entrasse a Palazzo Chigi: precisamente dal 18 gennaio 2014, quando siglò il Patto del Nazareno con il recordman mondiale delle prescrizioni. Poi quando accettò che Napolitano gli depennasse il nome di Gratteri dal ministero della Giustizia. Quando rinviò a settembre la riforma della giustizia promessa per giugno. E infine quando firmò due decreti per altrettante scemenze, cioè le ferie delle toghe e alcune regolette inutili del processo civile, avviando invece le cose serie (prescrizione, anticorruzione, autoriciclaggio ecc.) sul binario morto dei disegni di legge. Che, come tutti sanno, non passeranno mai perché B. non vuole. Come spiega Davigo sull’ultimo Micromega ( pag. 3 ), la prescrizione non è l’effetto dei processi lunghi: ne è la causa principale, perché incoraggia i ricorsi dilatori e le perdite di tempo degli imputati ricchi e dei loro avvocati specialisti in criminalità & impunità. Un pilastro della Costituzione materiale di quest’Italia marcia, che consente a centinaia di politici, amministratori, imprenditori e finanzieri di riunirsi in Parlamento e nei Cda anziché nell’ora d’aria. Il timidissimo ddl Orlando, ove mai fosse approvato, non cambierebbe una virgola dello sconcio, che dipende da due fattori nemmeno sfiorati dal ministro della Giustizia: in Italia la prescrizione parte quando il delitto viene commesso, non quando viene scoperto; e – caso unico al mondo – non si ferma mai, nemmeno dopo due condanne di merito alla vigilia del giudizio di legittimità in Cassazione, e neppure quando uno patteggia la pena (e poi fa ricorso contro la sanzione da lui stesso concordata). Quindi le chiacchiere stanno a zero: se Renzi vuole avere titoli per parlare, faccia subito un decreto per bloccare la mannaia della prescrizione al momento del rinvio a giudizio, come in tutti i paesi civili. Se il Pd è una cosa seria, troverà in Parlamento i voti dei 5Stelle e di Sel per convertirlo in legge. I requisiti di necessità e urgenza, se non li capisce da sé, se li faccia spiegare dai parenti dei morti ammazzati dall’Eternit.
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MAURIZIO BELPIETRO, LIBERO –
In molti si sono indignati per la sentenza che ha mandato assolto il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e c’è da capirli. Di Eternit sono morti a migliaia e l’elenco delle vittime non è ancora definitivo perché le polveri entrate nei polmoni provocheranno in futuro altri decessi. Dunque, sentire pronunciare in nome del popolo italiano una sentenza che manda libero l’accusato di disastro ambientale, annulla il risarcimento danni e condanna i famigliari dei morti a pagare le spese processuali non può che suscitare rabbia.
Naturalmente tutti, o quasi, se la sono presa con i giudici della Cassazione, i quali sono stati accusati di non aver avuto il coraggio di condannare un uomo ricco e potente. Ma qui non si tratta di aver coraggio. Anzi, semmai i magistrati della suprema corte di coraggio ne hanno dimostrato anche troppo, perché con l’assoluzione per prescrizione hanno sfidato il senso comune, cioè l’opinione pubblica che voleva a tutti i costi una condanna, anche a prezzo di violare il codice.
Perché il problema sta tutto lì, nella legge penale, che fissa i termini di prescrizione per il reato di disastro ambientale. Superati 12 anni dai fatti, il reato non è più perseguibile. E siccome l’azienda è chiusa dal 1986, cioè ha smesso di diffondere nell’aria le polveri che provocano il mesotelioma ai polmoni (anche se i manufatti in Eternit continuano a rilasciarne), per la giustizia il reato si è prescritto nel 1998, cioè molto prima che cominciasse il processo di primo grado e che la Procura di Torino decidesse di aprire il fascicolo contro Schmidheiny per disastro ambientale. Che potevano fare i giudici se non applicare la legge e dunque chiudere il caso per avvenuta prescrizione? Né serve – come ha fatto qualcuno – prendersela con i tempi della giustizia, perché nel caso Eternit la giustizia è stata spedita. Il giudizio di primo grado è del 13 febbraio 2012, quello d’appello del 3 giugno 2013 e la Cassazione è arrivata ieri, poco più di un anno dopo la pronuncia dei giudici di secondo grado.
Insomma, in meno di cinque anni si è passati dall’apertura dell’inchiesta – cioè dalla fase di indagini – alla sentenza definitiva. Cinque anni sono tanti, ma molti meno di quelli richiesti per processi meno complessi, e se anche in Cassazione si fosse giunti nel 2009, anno di inizio del procedimento, il reato sarebbe stato dichiarato prescritto ugualmente. Ora Matteo Renzi, cavalcando l’indignazione popolare dice che bisogna intervenire sui tempi di prescrizione, allungandoli, ma non pare una grande idea. Un po’ perché la proposta viene da uno che sta cancellando la detenzione per tutti i reati che allarmano l’opinione pubblica proprio quando questi reati sono in aumento. E un po’ perché il problema vero non è la prescrizione – che pure suscita rabbia – ma la qualità dell’inchiesta.
Ce lo vogliamo dire in questo coro di riprovazione generale? Per l’assoluzione di Schmidheiny non ce la si deve prendere con i giudici della Cassazione, ma con la Procura. Sono i pm che hanno deciso di contestare al magnate svizzero il reato di disastro ambientale invece di accusarlo di omicidio volontario: il primo si estingue in 12 anni, l’omicidio invece no e può essere perseguito fino ad oggi. Sono i pubblici ministeri dunque semmai ad aver sbagliato, non certo chi si è attenuto alla legge, ed è con loro perciò che l’opinione pubblica se la dovrebbe prendere, chiedendo: ma come, non lo sapevate che il disastro ambientale era prescritto già quando avete avviato le indagini? Davvero credevate che nonostante la chiusura della fabbrica si potesse estendere la responsabilità del disastro anche negli anni successivi? Il capo delle indagini, il procuratore Raffaele Guariniello, colui che ha sostenuto l’accusa, di fronte alla sentenza che ha fatto a pezzi le sue tesi, dice che non tutto è perduto e che anzi la Cassazione conferma la colpevolezza di Schmidheiny e quindi ha annunciato l’intenzione di indagare lo svizzero per omicidio volontario di 263 persone. Ma la cosa non è affatto scontata: per la legge non si può processare due volte la stessa persona per gli stessi fatti. E in ogni caso c’è da chiedersi perché non lo abbia fatto prima. Perché ha aspettato cinque anni per decidersi a contestare un reato che non avrebbe lasciato scampo al padrone della Eternit?
Se nel 2009 avesse chiesto il processo per le migliaia di vittime sulla base di una responsabilità in omicidio non avremmo perso cinque anni e oggi su Schmidheiny penderebbe una condanna definitiva e un obbligo a risarcire i famigliari dei morti. L’errore sta lì ed è di tutta evidenza. Non serve allungare i tempi di prescrizione (dodici anni per fare un processo non bastano?) né prendersela con chi il codice lo applica anziché interpretarlo. Se si deve prendersela con qualcuno, citofonate in Procura e chiedete perché non hanno fatto la cosa che ora – cinque anni e tre gradi di giudizio dopo – dicono di voler fare.
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LUIGI FERRARELLA, CORRIERE DELLA SERA -
D i fronte a 3.000 morti, ogni parola rischia di suonare oscena. Ma osceno è anche illudere la gente che la prescrizione sia dipesa dalla lentezza della giustizia (3 gradi di giudizio in appena 4 anni?) o dai guasti della per molto altro nefanda legge ex Cirielli, anziché dal messianico continuo chiedere solo al processo penale ciò che fatica a dare: l’applicazione delle classiche categorie di responsabilità nate negli Anni 30, e dell’asticella probatoria più alta che nel civile («l’oltre ogni ragionevole dubbio»), a eventi epidemiologici lesivi di un indeterminato numero di persone e svelati dalla scienza decenni dopo. Per superare l’ardua prova di esclusivo nesso di causa tra amianto e singole morti, la Procura aveva scelto non di contestare 3.000 omicidi, ma di ricondurre i danni alle persone al «disastro ambientale innominato», fonte di «pericolo per la pubblica incolumità» più agevole da provare. Per la Cassazione il reato c’è, ma c’è pure la conseguenza sulla prescrizione. Se infatti si fosse proceduto per i 3.000 omicidi (come ora i pm faranno per 256 morti), la si sarebbe calcolata a partire da ciascun evento-decesso, da 10 anni fa per chi morì 10 anni fa, dal 2020 per chi morirà nel previsto picco del 2020; invece il disastro ambientale è reato di pericolo, si consuma al momento in cui la condotta crea pericolo all’incolumità pubblica. Per allungare la prescrizione il pm indicava nel II comma (12 anni di pena «se avviene crollo o disastro») una non mera aggravante ma autonoma fattispecie, prospettando un reato permanente finché permanenti erano e sono e saranno i suoi effetti epidemiologici. Ma per la Cassazione, affinché un reato sia permanente, non basta che permanenti siano gli effetti (l’ammalarsi e morire delle persone), ma occorre che l’evento perduri a causa di una persistente condotta dell’imputato. E siccome qui la condotta era cessata alla chiusura delle fabbriche nel 1986, i 15 anni di prescrizione son scaduti nel 2001, rima dell’avvio indagini del 2004. Rimedi? O il legislatore inserisce questi reati tra quelli che non si prescrivono mai, però esponendo a incerte conseguenze penali e risarcitorie chi fa impresa, gli eredi e pure gli estranei subentrati; o ripensa le attuali categorie del processo penale. La Corte costituzionale, in un inciso del 2008 proprio sul reato di disastro ambientale, lo suggerì. Inascoltata. Da chi ora gronda «indignazione».
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LIANA MILELLA, LA REPUBBLICA -
Pare di cattivo gusto dirlo, ma ci voleva un caso eclatante come quello dell’Eternit per stanare il governo sulla prescrizione. Che “dormiva” da 90 giorni nei cassetti di palazzo Chigi. Il disegno di legge annunciato il 30 giugno, approvato il 29 agosto, è missing da allora non si sa dove, né perché. Tant’è che neppure Renzi, di buon mattino, pare ricordarselo. Una storia tutta da raccontare, il cui happy end – nonostante le rassicurazioni del Guardasigilli Andrea Orlando – è ancora da scrivere.
Dopo una giornata di fibrillazioni tra le stanze del premier e via Arenula, Renzi da una parte, Orlando dall’altra, di mezzo Maria Elena Boschi, quando è ormai sera salta fuori l’unica soluzione politicamente percorribile. Orlando decide di stralciare, dal corposo ddl che riscrive pezzi importanti della procedura penale, l’articolo 3 sulla prescrizione. Va in tv e annuncia che «la prossima settimana la prescrizione andrà in Parlamento». Promette addirittura «una rapida approvazione». Quando? Al ministero si azzarda una previsione, 4 mesi, ma pare il libro dei sogni. Di tempo ce ne vorrà molto di più, come dimostra l’avventura dell’autoriciclaggio.
Dunque la parola magica è «stralcio». Di questo Orlando parla con Renzi e Boschi, il ministro per i Rapporti con il Parlamento che dovrà gestire l’operazione. Che prevede l’articolo 3 e dove andrà a finire? I magistrati dell’Anm hanno già bocciato la proposta, perché è «una mezza riforma senza coraggio». Perché non cancella la famigerata ex Cirielli del 2005 che ha drasticamente ridotto i tempi di prescrizione per salvare dai processi Berlusconi e Previti. Questo avrebbero voluto le toghe. Questo dice tuttora il presidente del Senato Piero Grasso, da ex pm: «C’è una legge che è sbagliata e che va cambiata al più presto». Ma la strada è tutt’altra. Eccola: l’orologio della prescrizione si ferma, è scritto nel ddl del governo, «dalla sentenza di condanna di primo grado sino al deposito della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a due anni».
La prescrizione comincia a correre di nuovo, poi si sospende ancora «dal deposito della sentenza di secondo grado, sino alla pronuncia della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno». È un mix tra processo breve e prescrizione bloccata. L’unico compromesso possibile con gli alfaniani. Tant’è che il vice ministro della Giustizia Enrico Costa la sponsorizza: «Vedrete. facciamo lo stralcio. Lo portiamo in commissione. Lo approviamo». Lui dà le cifre, 113.057 prescrizioni nel 2012, di cui 70mila durante le indagini preliminari. Tutto semplice? Niente affatto. Tant’è che sulla prescrizione si sta litigando dal 29 agosto, da quando il consiglio dei ministri ha licenziato il testo «salvo intese», la principale delle quali riguarda la norma transitoria, a chi e quando si applica la legge, se a tutti i processi, quelli in corso compresi, o solo ai nuovi. Lo scontro è durissimo, Fi e Ncd stanno sulla stessa sponda, fuori i vecchi processi, nuova prescrizione solo per i nuovi.
Il governo litiga, ma in Parlamento altri progetti camminano. Al Senato quello di Grasso, presentato l’unico giorno in cui è stato semplice parlamentare del Pd. Alla Camera quelli di Donatella Ferranti (Pdf), M5S e Scelta civica. Ipotesi diverse, prescrizione ferma con la richiesta di rinvio a giudizio per Pd e M5S, il ritorno alle vecchie fasce di reato per Sc. Ferranti, dalla presidenza della commissione Giustizia, sferra ancora una volta la battaglia contro il forzista Nitto Palma, l’omologo del Senato, che le vorrebbe scippare la prescrizione. Perde. Ma è proprio lì, in questo guazzabuglio di proposte, che finisce lo stralcio di Orlando. Con Forza Italia sul piede di guerra. Col partito degli avvocati scatenato. Con una certezza però. Anche se questa legge fosse già stata approvata, per Eternit non sarebbe cambiato niente.
Liana Milella
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ROBERTO SAVIANO, LA REPUBBLICA -
In Italia non esiste la normalità perché tutto è emergenza, e non esiste l’ordinaria gestione politica delle cose perché si è sempre in campagna elettorale. Cosa comporta questo? Da un lato che si affrontano dibattiti importanti solo sull’onda dell’indignazione, e dall’altro che la politica, sull’onda di quella stessa indignazione, è portata a intervenire, a fare dichiarazioni e, nella peggiore delle ipotesi, a mettere mano al complesso delle nostre leggi per modificarle sull’onda di necessità. Necessità che certo esistono, ma che andrebbero affrontate con serietà, competenza e non per racimolare consenso.
Dopo aver saputo che il processo all’Eternit si è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, nonostante le due condanne per disastro ambientale a 16 e 18 anni in primo e secondo grado per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny (colpevole di sapere dei danni dell’amianto e di tacere), ho pensato che l’Italia è una Repubblica fondata sull’istituto della prescrizione. Eppure, se si vuole parlare di prescrizione, bisogna farlo nel tentativo costruttivo di individuare una soluzione accettabile, che concili diritto ed esigenza di giustizia.
Non possiamo parlare di prescrizione, dei danni che produce e di quanto sia iniqua, se non teniamo conto che la maggior parte delle prescrizioni arriva già durante le indagini. Solo una percentuale minore avviene durante la celebrazione del processo. Ciò significa che la prescrizione che ha riguardato il caso Eternit è parte di quella percentuale minore. Questa premessa è utile perché se vogliamo avviare un dibattito serio sulla prescrizione dobbiamo comprendere come sia possibile che da istituto di garanzia per l’imputato si sia trasformata in un modo per bloccare i processi, per rendere inoffensiva la giustizia. Scopriremmo che la prescrizione non è una causa, ma un sintomo. Scopriremmo che le cause dobbiamo cercarle altrove.
Noi immaginiamo o ci troviamo a valutare sempre e soltanto casi in cui la prescrizione giunge sostanzialmente a bloccare il giudizio nei riguardi di soggetti che riteniamo colpevoli: è inevitabile che in alcuni casi di maggiore rilievo l’opinione pubblica si schieri, poiché anche questa è una manifestazione del controllo sociale. Ma la prescrizione tutela il presunto innocente da una durata infinita del processo e quindi dalla possibilità di poter rimanere per un lasso di tempo insostenibile, ostaggio, preda o vittima di un sistema che ha il dovere di dire in tempi brevi se un reato lo hai commesso oppure no. Di valutare la tua condotta, assolverti o condannarti. La prescrizione tutela inoltre un altro principio fondamentale, il principio di economia processuale: un accertamento non può durare in eterno perché i costi per la società sarebbero insostenibili. Contrariamente a quanto si è portati a credere, il processo penale assolve una funzione di garanzia per l’imputato. Le indagini hanno una funzione di tutela della collettività, ma quando le indagini finiscono e viene formalizzata l’accusa, inizia una fase nuova, che è posta a garanzia dell’imputato.
Quindi un discorso sulla prescrizione che abbia senso non può concentrarsi solo sul giudizio ma deve tenere presente anche la durata delle indagini. In questi anni sulle prescrizioni si è data tutta la responsabilità agli Uffici di Procura, ma sarebbe troppo facile e assolutorio per i responsabili del disastro. Responsabile è un sistema, e mi riferisco al sistema giudiziario, che non funziona, ma non da oggi, non funziona da anni. Un sistema che è al collasso ma al quale nessuno ha mai messo mano in maniera coerente. Inutile elencare tutte le leggi idiote, assurde, inique, che nel corso degli anni hanno ingolfato gli ingranaggi (due esempi su tutti: la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi), leggi che rispondevano solo a esigenze elettorali e non certo a rendere più efficiente e giusta la macchina giudiziaria. Leggi che dimostrano come in Italia esista un eccesso di pervasività del diritto penale nella realtà. Come se tutto davvero si potesse risolvere attraverso i processi.
Voglio fare un esempio per spiegare che cosa intendo. Se uno facesse una statistica di tutti i processi per corruzione celebrati e in corso in Italia, del loro clamore mediatico e poi valutasse quanta parte del profitto di quei reati venga realmente recuperata, si renderebbe conto del fatto che alla fine questi processi costituiscono solo un costo insostenibile per la collettività: quanti patteggiamenti vengono sentenziati senza nessuna restituzione di denaro? L’evasore, il corruttore, il corrotto mettono in conto come rischio d’impresa il carcere, soprattutto se riescono a mettere in salvo il maltolto o parte di esso. Ma quanto sono costate le indagini? E in caso di condanna, chi ha sottratto milioni di euro, chi viene indagato, processato e condannato, se non restituisce nulla, cos’è se non unicamente un costo per lo Stato? Si potrebbe obiettare: ma allora dobbiamo accettare l’impunità? No, semplicemente bisogna fare in modo che una condanna abbia una reale efficacia deterrente, perché altrimenti potremo avere cicliche Tangentopoli senza che il livello di corruzione torni in un ambito fisiologico.
È evidente che in Italia la logica è quella di risolvere tutto con il diritto penale, ma non è pensabile che un pubblico ministero abbia sulla sua scrivania fascicoli relativi a gravi delitti e poi altre centinaia relativi al reato di guida senza patente. Questo è lo scotto che paga la giustizia di un Paese che vive in eterna emergenza e in eterna campagna elettorale.
Il premier Matteo Renzi, parlando del processo Eternit, critica l’istituto della prescrizione ma afferma: «Non entro nel merito della sentenza», perché, dice, le sentenze non si criticano, terrorizzato di somigliare troppo al polo berlusconiano. La sua prudenza è fuori luogo perché in questo caso non c’è nessuna sentenza da criticare: la Cassazione non ha assolto, ha solo applicato la legge. Ciò detto, non sono d’accordo con Renzi e non sono d’accordo con chiunque dica che le sentenze vadano accettate e non criticate. Non si deve morire di giustizia o di ingiustizia, come è successo a Enzo Tortora, per poter dire «d’accordo, le sentenze si possono commentare e anche nel caso criticare». Perché non criticare una sentenza vuol dire non individuare mai le responsabilità, abdicare al ruolo stesso di controllo che ogni cittadino deve esercitare sull’amministrazione della giustizia, dato che le sentenze sono emesse in nome del popolo italiano, quindi anche nel mio nome e nel vostro.
Perché non criticare la sentenza Cucchi? Capisco le questioni di diritto, ma parlarne potrebbe — e dovrebbe — aprire un fronte importante, quello della necessità dell’introduzione del reato di tortura. Ma finora quanti hanno sollevato la questione? Il dibattito sterile sulla opportunità di criticare o meno le sentenze è il lascito peggiore di Berlusconi, di colui che per venti anni ha minacciato la magistratura e la sua indipendenza. Ma quando il dibattito, in assenza di emergenze, sia chiaro, ci concentra sulle ferie dei magistrati, su chi vuole toccarle e chi non vuole che si tocchino, è evidente che ci si azzufferà per un po’, per poi non risolvere nulla: la solita “ammuina”. Intanto sfido chiunque ad ascoltare la sigla di Portobello senza sentire un nodo alla gola. Senza provare vergogna per essere parte di uno Stato in cui di giustizia si muore. Allora basta con le logiche emergenziali, l’Italia ha bisogno di governanti seri, che facciano leggi giuste con i tempi necessari, che le facciano nell’interesse della collettività e non facciano dichiarazione in vista delle regionali in Emilia-Romagna o dichiarazioni di intenti per le elezioni politiche di quando sarà. E che soprattutto la smettano di avere una linea politica che sembra un’infinita sequela di lanci d’agenzia. Ora il governo promette una riforma della giustizia, ora che l’indignazione popolare è massima. Ma quanti giorni passeranno prima che arrivi la prossima emergenza e questa nuova promessa sia dimenticata per lasciare spazio a una nuova?
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ZAGREBELSKY, LA STAMPA 20/11/2014 -
Come tuttora prescrive l’articolo 65 dell’Ordinamento giudiziario e come sottolineò il ministro Grandi nel presentarlo al Re nel 1941, la Cassazione è istituita per assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge». Spesso i legislatori, a partire da Giustiniano per finire con l’utopia illuminista, hanno cercato di imporre ai giudici il divieto di interpretare le leggi. E lo stesso divieto di interpretazione è divenuto oggetto di interpretazione. Ovviamente. Allora si è ripiegato sull’idea che i giudici interpretano bensì la legge, ma per affermare l’interpretazione esatta. E se tribunali e corti d’appello sbagliano, la Cassazione rimette le cose a posto, enunciando l’interpretazione esatta. Se l’interpretazione esatta va contro le attese di giustizia, peggio per la giustizia. Beccaria, 250 anni orsono, sosteneva che era meglio che il giudice pronunciasse una sentenza ingiusta applicando alla lettera la legge, piuttosto che la interpretasse liberamente. Spettava al legislatore modificare la legge.
Da allora la riflessione sulla natura e sugli esiti dell’attività interpretativa è andata avanti ed ora nessuno più crede veramente (anche se qualcuno continua a dirlo) che esista sempre una interpretazione «esatta», rispetto alla quale le altre ipotizzabili sono «sbagliate». Tanto più da quando sopra le leggi c’è la Costituzione ed anche – per venire al caso ieri deciso dalla Cassazione – una Convenzione europea dei diritti umani che impone agli Stati di proteggere efficacemente la vita delle persone, anche con la repressione penale.
La motivazione della sentenza della Cassazione sarà certo dotta e ricca di richiami di dottrina e di precedenti giurisprudenziali. Non sarà certo possibile accusarla di sciatteria. Ed è persino possibile che contenga espressioni di rammarico per essere stata costretta – da una esatta interpretazione della legge – a giungere alla conclusione che gravissimi reati erano stati commessi, ma che non si può (addirittura non si sarebbe dovuto) procedere, perché essi sono da tempo prescritti.
Ma come è possibile che due collegi giudicanti diversi abbiano ritenuto e diffusamente motivato che invece quel disastro a lungo latente e poi progressivamente rivelatosi con la malattia e la morte di tante persone, si era prolungato nella sua opera letale, ben oltre l’istante in cui le fibre di amianto avevano silenziosamente cominciato la loro opera? Se non è possibile dire che le interpretazioni adottate dai primi giudici fossero «esatte» e sia «sbagliata» quella della Cassazione, è però lecito chiedersi se non c’era davanti ai giudici una scelta, ragionata e seriamente argomentabile, tra una interpretazione che metteva d’accordo diritto e giustizia e un’altra che proclamava summum jus, summa injuria.
Solo pochi giorni orsono la Cassazione francese – certo non incline all’eversione del diritto ed anzi figlia dell’idea che il giudice sia solo bocca della legge – ha impedito la prescrizione di orrendi delitti rimasti a lungo nascosti, affermando che la prescrizione decorre da quando l’autorità pubblica ne ha notizia e può quindi procedere. Interpretazione diversa da quella prima prevalente. Più «esatta» oppure più «giusta»? Alla nostra Cassazione è mancata la capacità di affermare un diritto che non oltraggia la giustizia. Sarà il diritto a soffrirne e la fiducia dei cittadini nella legge.
Vladimiro Zagrebelsky