Lucio Caracciolo; Federico Petroni, Limes: Quel che resta dell’Italia 11/2014, 20 novembre 2014
PERCHÉ L’EUROPA E L’ITALIA NON FUNZIONANO PIÙ
[Romano Prodi]
LIMES Oggi in Italia l’Europa e l’euro, un tempo riferimenti quasi indiscussi, sono scaduti a capro espiatorio di tutti i nostri guai. Come stanno davvero le cose?
PRODI L’euro non è, come si dice comunemente, un progetto dei banchieri. È la più innovativa idea politica dopo la fondazione dell’Unione Europea: la grande e irreversibile decisione di unire gli europei in una sola entità politica a partire dalla moneta. Fallito nel 1954 il progetto della difesa comune, non restava che passare al secondo pilastro dello Stato vestfaliano: la moneta. Da parte italiana, al di là delle questioni economiche, il dibattito sull’ingresso nella moneta europea era eminentemente politico. Nelle discussioni con i protagonisti di allora, avevamo chiara l’idea che l’Italia dovesse entrare alla pari con gli altri paesi europei. Restarne fuori avrebbe voluto dire essere emarginati, non disponendo di una strategia alternativa, di respiro più mondiale, a differenza per esempio del Regno Unito. Sin da allora era evidente la necessità di accompagnare la moneta unica con altre decisioni fiscali ed economiche che approfondissero l’unità europea. Ma si doveva andare avanti in ogni caso: il processo era concepito come irreversibile e doveva conseguire una completa integrazione economica, non solo monetaria.
LIMES Se era un progetto geopolitico, destinato a produrre uno Stato europeo, perché non si è partiti dalla politica?
PRODI Era impossibile. Il clima politico non permetteva quel salto in avanti. Le discussioni su una politica di difesa comune si erano fermate su progetti minimalisti, bilaterali, di cooperazione. Quanto alla politica estera, le divisioni sul Medio Oriente o sull’influenza americana nel nostro continente erano evidenti. Invece, l’aspetto monetario era affrontabile con argomenti tecnici, con i numeri, con le statistiche, che spesso tranquillizzano i politici e l’opinione pubblica. La valuta comune non era una scorciatoia, ma il progetto più realistico che si potesse intraprendere. Certo, nessuno avrebbe mai pensato a un cambiamento così radicale nel modo in cui i leader europei riflettono sull’Europa come quello intervenuto negli ultimi anni. Perché l’euro è stato gestito con il criterio dei ragionieri, con quello che chiamai – deriso da tutti – lo «stupido» patto di stabilità. Ma la gestione dell’economia non si può irrigidire: qualunque economista sa che il bilancio deve essere flessibile.
La crisi dell’euro dipende dal fatto che l’abbiamo concepito pensando a misure successive che poi non sono state realizzate. Era ovvio che la valuta comune fosse solo un primo passo verso l’integrazione piena, economica e politica. Ma nel giro di quattro-cinque anni il dibattito politico europeo è diventato difensivo. All’Europa della speranza e dei passi in avanti è subentrata l’Europa della paura. Paura dei partiti populisti e della riemersione degli spiriti nazionalisti. Ma anche paura dell’allargamento dell’Unione Europea, comunque indispensabile dopo la caduta della cortina di ferro.
LIMES Ma è sensato allargare lo spazio comunitario senza delimitarne i confini?
PRODI Per me l’Europa deve finire dove finisce oggi, con la sola aggiunta dei restanti paesi dell’ex Jugoslavia e dell’Albania. Il problema non sta nell’allargamento in sé, ma nel fatto che non è mai stato definito e discusso, per non agitare l’opinione pubblica. Io stesso, con la mia Commissione, non sono mai riuscito a far arrivare il dibattito nel Parlamento europeo. L’allargamento va poi unito a due proposte che fecero molto rumore dieci anni fa. La prima: l’anello degli amici, un’ipotesi di rapporto privilegiato con tutti i paesi confinanti con l’Ue, dalla Bielorussia al Marocco, una negoziazione aperta per concludere in modo bilaterale gli accordi sull’acquis communautaire, escludendo l’entrata nelle istituzioni europee. La seconda: il rapporto speciale con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo.
LIMES Mai presa in considerazione la Russia?
PRODI All’ultimo incontro euro-russo da presidente della Commissione, un giornalista mi chiese perché fossi contrario a integrare la Russia nell’Ue. Risposi per prima cosa che la Russia è ancora strabica, con un occhio guarda l’Europa con l’altro l’Asia; e in seconda battuta è semplicemente troppo grande. L’Unione Europea avrebbe da subito due capitali, Bruxelles e Mosca. Da Putin non è mai arrivata una richiesta formale di adesione all’Ue, ma ne avevamo discusso privatamente. Non dimentichiamoci che fino alla guerra in Iraq Putin è stato filoccidentale. In seguito ha visto l’Unione Europea come uno strumento americano, non più come un interlocutore autonomo. Questa diffidenza oggi si sintetizza in una sua battuta: «Con chi tratto per l’Ucraina? I baltici e i polacchi mi odiano. I britannici fanno quel che vogliono gli americani. Tedeschi e italiani un giorno sono con me l’altro contro».
LIMES E la Turchia?
PRODI Caso spinoso. Nel 1999 il presidente francese Jacques Chirac decise di rilanciare il negoziato con Ankara, per arrivare infine a integrarla nella casa europea. Totale sorpresa: feci il giro dei leader europei per chiedere se fossero stati informati dell’iniziativa francese, ma nessuno ne sapeva niente. Prendemmo comunque l’annuncio con interesse, tanto che per Ankara partirono il «ministro degli Esteri» europeo Javier Solana e il primo ministro finlandese Paavo Lipponen. L’allargamento alla Turchia poteva essere un fattore positivo per la diversità che avrebbe introdotto nella famiglia europea e per motivi economici. Solo il cancelliere austriaco Viktor Klima si oppose: ricordava l’assedio di Vienna. Nel frattempo, Chirac si accorse che l’opinione pubblica francese era del tutto contraria. E, da buon politico, invocò un referendum popolare. Questo ebbe un impatto enorme sulla psicologia dell’opinione pubblica europea: ora il referendum lo volevano tutti. Così, andai in Turchia e con onestà dissi che avremmo negoziato in buona fede, ma che ci sarebbero voluti decenni per chiudere un gap culturale radicato nei secoli – pensiamo solo al proverbio «mamma li turchi!». Oggi, sebbene i negoziati siano serviti alla Turchia per modernizzarsi, lo slancio si è perduto. Gli europei non vogliono abbracciare i turchi e viceversa. La storia è cambiata. Ankara è diventata una potenza regionale e la sua politica estera neo-ottomana la porta a prendere decisioni così rapide e cangianti da renderne oggettivamente complicata l’adesione all’Ue. D’altra parte, resiste la vecchia diffidenza europea verso un paese musulmano. E c’è la paura tedesca di perdere il primato di gruppo parlamentare più numeroso nell’assemblea di Strasburgo. Un giorno Kohi mi prese da parte e mi disse: «Tu devi aver frequentato scuole elementari di basso livello... L’Anatolia è in Asia, non in Europa!».
LIMES La crescente sfiducia nell’Europa e nell’euro è frutto della crisi economica partita sette anni fa dall’America?
PRODI La crisi ha portato l’Europa a chiedersi se non avesse scelto la via sbagliata – quella dell’euro – invece di domandarsi se l’errore non stesse nelle politiche attuate. Di fronte alla crisi, le potenze non europee hanno reagito subito. Gli Stati Uniti hanno applicato la ricetta di Keynes, senza dirlo. Hanno iniettato subito 800 miliardi di dollari nell’economia. I cinesi, a loro volta, 4 mila miliardi di renminbi. E l’Unione Europea? Nulla di tutto questo. Non avevamo e non abbiamo gli strumenti politici e tecnici per farlo. Siamo ancora qui a discutere se stanziare 300 miliardi di euro in tre anni, come promette Jean-Claude Juncker.
LIMES Qui torniamo alla stupidità delle regole, che impediscono di reagire alle crisi, anzi le alimentano. Ma le regole le abbiamo approvate anche noi. Com’è stato possibile firmare accordi palesemente fuori dalla realtà, come il «Six Pack»? Siamo tutti stupidi?
PRODI Il problema è che si sono formate nuove gerarchie. L’Europa è diversa rispetto a qualche anno fa. La Germania non è mai stata così forte come oggi. Di conseguenza, il dibattito è mutato: da “marciamo tutti nella stessa direzione con lo stesso interesse» a «io detto le regole e voi dovete rispettarle». I famosi «compiti a casa». L’ascesa tedesca è stata aiutata anche dal vuoto creato dalla Francia, del cui spirito europeista si sono perse le tracce. Durante la fase acuta della crisi, i leader europei tenevano vertici interminabili e inconcludenti, in cui Angela Merkel scriveva le regole e Nicolas Sarkozy le illustrava in conferenza stampa. Oggi, la scarsa popolarità di François Hollande ha reso evidente il declino francese. Anche l’evoluzione del Regno Unito è cruciale: pur restando fuori dall’Eurozona, Londra aveva un grande potere a Bruxelles. Quando divenni presidente della Commissione ero convinto di dover affrontare una burocrazia franco-tedesca, ma scoprii che il primo gruppo per influenza, coesione, qualità era quello britannico. In virtù di questa presenza, il Regno Unito svolgeva un ruolo equilibratore. Ora, invece, il cammino si è invertito. Quando il premier Cameron dice di voler indire un referendum sulla permanenza britannica nell’Ue, i suoi alleati naturali come la Svezia e i baltici istintivamente cercano un altro protettore. L’influenza di Londra a Bruxelles è crollata: le ultime nomine riflettono tale cambiamento. La Germania ha nei presidenti della Commissione e del Consiglio due personalità che ruotano attorno alla sua orbita. Ma soprattutto ha una presenza fortissima tra i direttori, i capi di gabinetto e i loro vice. La burocrazia si sta adattando ai nuovi rapporti di forza.
LIMES Lo strapotere tedesco non dipende anche da noi italiani?
PRODI Certo che dipende anche da noi, dalle nostre divisioni, dalla nostra superficialità nei rapporti con l’Unione, che non abbiamo mai preso sul serio. Presentarsi a Bruxelles senza proposte concrete o, peggio, divisi dai problemi di politica interna contribuisce fortemente alla nostra emarginazione. Ci rivolgiamo all’Unione non perché mossi da un obiettivo europeo, ma come seconda scelta, per risolvere grane interne.
LIMES La novità è che la crisi colpisce anche la Germania. Berlino cambierà strada?
PRODI Razionalmente direi di sì. Il segno positivo dell’economia tedesca derivava soltanto dall’incredibile performance delle esportazioni. Ora però il mercato internazionale non consente più simili prestazioni. Una coscienza della necessità di cambiare dovrebbe quindi nascere anche in Germania. Ma non la vedo.
LIMES Perché? C’è qualcosa di ideologico nell’atteggiamento tedesco?
PRODI C’è una certa teologia antinflazionistica, l’idea che iniettare denaro nell’economia sia il male, mentre in una situazione di deflazione la teoria vorrebbe che si facesse ricorso allo strumento monetario. Tuttavia, non si tratta solo di paura dell’inflazione, c’è anche una volontà di mettere prima le cose a posto per poi vederne i benefici. Eppoi, dal punto di vista della politica interna, alla Germania va bene così. Per prevenire l’ascesa in patria di partiti populisti, la cancelliera Merkel ha adottato argomenti populisti, irrigidendo così la posizione tedesca in Europa. Per esempio, ha garantito ai tedeschi che la ricchezza e la forza del loro paese non sarebbe stata inquinata dai comportamenti di noi meridionali. E ha messo un accento molto forte sull’identità nazionale tedesca.
LIMES Forse i tedeschi pensano di non essere più solo la principale economia europea, ma una potenza mondiale. Il calo del loro export verso gli altri paesi europei – sceso al 39% – a fronte dell’incremento in Asia e nel resto del mondo è un segnale di questa svolta?
PRODI Mi chiedo se i tedeschi pensino davvero di farcela da soli nel mondo della globalizzazione. Sotto certi aspetti, non c’è dubbio che il loro sistema sia diverso da quello degli altri paesi europei. Un capitalismo peculiare con forti mediazioni del settore pubblico, ma dotato di un’industria indubbiamente virtuosa. L’efficacia del sistema tedesco si vede nella capacità di valorizzare il contributo di tutti all’economia, nel ruolo delle fondazioni nelle imprese, nel garantire la continuità delle aziende familiari durante il passaggio da una generazione alla successiva. Non dimentichiamoci però che i tedeschi hanno una catena di rifornimento europea straordinariamente importante. Possono essere leader mondiali solo se sono grandi attori europei. E qui si ritorna alla famosa questione di Thomas Mann, che voleva una Germania europea e non un’Europa germanica.
LIMES Che cosa può fare l’Italia nell’«Europa tedesca»?
PRODI La risposta più scontata sarebbe: le riforme di struttura. Il problema è che nessuno sa cosa siano. Si parla per stereotipi, senza descrivere il paese com’è né come dovrebbe essere. Siamo un paese in cui si licenzia come mai prima, in cui ci si dilania su questioni simboliche come l’articolo 18 che nel sistema hanno un valore nullo, nel cui mercato del lavoro vige l’anarchia, con contratti temporanei da cinque giorni. La destabilizzazione della società è assoluta.
L’altro lato di questa medaglia è una stupidità e un’oppressione burocratica che vanno al di là di ogni immaginazione. Le varie branche amministrative, dal Comune allo Stato centrale, agiscono in ordine sparso, spesso pestandosi i piedi. Nello stesso Stato centrale esistono corpi separati, come la protezione del territorio che non si coordina con le altre realtà.
LIMES Qual è dunque il luogo del potere in Italia, dove si decide qualcosa?
PRODI Il potere di decisione attiva non ce l’ha nessuno. Quello di veto è in mano alla burocrazia. E alla magistratura.
LIMES Quindi se immaginassimo le migliori riforme non le potremmo attuare. Siamo uno Stato fallito?
PRODI No, si può porre rimedio. Per esempio non capisco perché si debbano firmare leggi senza i decreti attuativi, lasciando che vengano approvati in un secondo momento, spesso scardinando il principio della norma. Questo riflette un altro fattore importante: nel dibattito politico l’aspetto formale prevale su quello sostanziale. Le cosiddette decisioni sono annunci fatti in fretta e furia, quando a essere stato approvato è solo il primo punto di un iter lunghissimo. Vedi la cosiddetta abolizione delle province, che chissà quando avverrà.
LIMES A proposito di retorica, questo governo ha adottato uno stile molto deciso nei confronti dell’Europa e della Germania, mandandole spesso a quel paese.
PRODI Mandare a quel paese senza però costruirsi delle alleanze è sterile e mi sembra rifletta solo un’esigenza di politica interna. Si fa sempre bella figura a fare il muso duro, ma a Bruxelles non ottieni risultati se non tessi alleanze.
LIMES Chi sono i nostri potenziali alleati?
PRODI Non lo so. Un anno fa era realistico e possibile costruire con Spagna e Francia un’alleanza per una politica economica diversa. Ora non ci resta che sperare che la Germania cambi idea. E tutti cercano il rapporto con Berlino. Come la stessa Spagna, che ha compiuto un vero capolavoro: ha fatto qualche riforma, modesta a dirla tutta. Ma la Merkel si è messa a lodarla e improvvisamente è diventata un paese modello. Come diceva Vujadin Boškov, «rigore è quando arbitro fischia». La Germania ha fischiato e tutti le vanno dietro plaudendo a Madrid, che però resta molto più a rischio dell’Italia.
LIMES Se l’Italia finisse formalmente sotto la trojka sarebbe meglio o peggio?
PRODI Ormai è tardi. Forse finirci prima ci avrebbe reso più affidabili agli occhi della Germania. Ma questi problemi non sono più sul tavolo.
LIMES Anche il quadro internazionale, per l’Italia e per l’Europa, non è roseo.
PRODI Attorno a noi il mondo sta vivendo un cambiamento impressionante. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la loro potenza militare sarà anche in declino, ma la forza economica è in aumento grazie alla rivoluzione energetica dello shale gas. Il vero significato di questo mutamento sta nell’impatto sull’industria. Con un prezzo del gas tre-quattro volte inferiore rispetto ai mercati concorrenti, la capacità attrattiva americana è enorme. Non c’è da stupirsi se la petrolchimica si sposta dal Golfo Persico al Golfo del Messico, ne se le nostre ceramiche si trasferiscono oltreoceano.
LIMES Conviene o no all’Europa e all’Italia che il Ttip – il trattato per un’area di libero scambio (e non solo) tra le due sponde dell’Atlantico – vada in porto?
PRODI In teoria sì, in pratica i problemi superano oggi le opportunità. All’Europa converrebbe creare certo una grande zona di libero scambio con gli Stati Uniti, che ci conferirebbe un ruolo di arbitro su scala globale, nella triangolazione con America e Cina. In fondo la nostra struttura industriale è ancora la numero uno al mondo. Inoltre, quello dei trattati commerciali è l’unico settore in cui l’Unione Europea – la Commissione in particolare – vanta un significativo potere contrattuale. Se fosse esercitato – come non lo è stato fino a oggi – potremmo avere la forza per concludere un trattato vantaggioso. Esistono però degli ostacoli che pesano come macigni e che non credo possano essere facilmente superati: su entrambe le sponde dell’oceano l’agricoltura, su quella americana le tecnologie dell’informazione, con dei semimonopoli che pongono seri problemi. Al momento, l’accordo non si presenta conveniente per noi europei. Senza dimenticare il problema più ampio dell’autonomia politica europea rispetto all’America. Lo stesso che si pose all’inizio della Commissione che presiedevo, quando balenò il progetto di dotarsi di un sistema satellitare europeo, Galileo. Su pressione americana, prima i britannici e poi i tedeschi opposero resistenze. Così abbiamo rinunciato a una leadership europea in un settore in cui cinesi e russi ancora arrancavano. Non è utile agli americani avere un alleato pecora in Europa, ma ogni volta che tentiamo qualche passo verso l’autonomia, ecco che si sovrappongono interessi più forti.
LIMES La Cina, invece, cambia?
PRODI La Cina si fa i fatti suoi. Molti dicono che sia in crisi. Vero, le difficoltà non mancano, visti l’indebitamento delle sue banche o la lentezza nel transitare da un’eccessiva concentrazione sugli investimenti ai consumi e alla formazione di una classe media. Tuttavia, continua a crescere del 7-8%, che oggi vale infinitamente di più del 10% di qualche anno fa, all’inizio della sua scalata da paese povero a protagonista dell’economia mondiale. In politica estera, la Cina sta cercando di assicurarsi il proprio futuro, senza però dar noia più di tanto. In altre parole, va a caccia di cibo, energia, materie prime cercando di non sconvolgere gli equilibri esistenti, come in Africa o in America Latina. Per ora può permettersi il lusso di continuare così, ma in futuro potremmo avere una Cina diversa. Quando diventerà una compiuta potenza globale le sarà difficile restare sull’argine del fiume, come ha fatto in Iraq, in Afghanistan o in Libia. Al momento, però, sugli argomenti internazionali l’opinione pubblica cinese vive ancora strane contraddizioni. Una su tutte, il rapporto di odio e amore con gli Stati Uniti, modello ma anche nemico: fino a pochi mesi fa, prima che gli avvenimenti ucraini e mediorientali prendessero il sopravvento, i cinesi erano convinti che gli americani avrebbero fatto la guerra a Pechino per procura, attraverso i giapponesi o i vietnamiti. Anche oggi, tuttavia, non mi sembra abbiano cambiato questa loro opinione.
LIMES Per completare il quadro, la Russia. Noi italiani, distinguendoci da altri europei, abbiamo sempre avuto un rapporto privilegiato con Mosca, che però ora sembra in forte crisi.
PRODI Nel caso ucraino non so chi abbia fatto più errori. Tanto per cominciare, l’idea che l’Ucraina possa essere europea o russa è sbagliata. Come sbagliato si è rivelato vedere in Kiev un campo di battaglia, non un ponte. Oppure pensare che la questione si sarebbe potuta risolvere con una pacifica sollevazione popolare, sfociata invece in un’aspra guerra civile. Poi è chiaro che la Russia ha giocato le sue carte con molta spregiudicatezza. Specie con l’annessione della Crimea, una mossa rivoluzionaria nella geopolitica contemporanea. In ogni caso, il vero problema ora è che sarà difficile rimuovere le sanzioni. Colpiscono noi europei, ma gli americani non ne soffrono. Ecco il problema di essere eterodiretti.
LIMES Ci rimettono però anche i tedeschi, oltre agli italiani. Arriveremo al punto in cui la Germania alzerà la voce?
PRODI Finora Angela Merkel non ha mosso un dito per invocare un’autonomia europea. Questo le serve a mostrare che la leadership tedesca non è invasiva, ma flessibile, fa alleanze con gli Stati Uniti, rassicura i polacchi e via dicendo. Vedo il processo di conversione tedesca e di rimozione delle sanzioni molto lento. Il che è un problema serio, molto più di quel che la gente non pensi. Ed è un problema serio anche per Mosca. La Russia non può diventare uno dei grandi protagonisti del mondo di domani con una dipendenza così pronunciata dall’energia. Per diversificare la propria economia e per aprirsi, i russi hanno un bisogno drammatico dell’Unione Europea. L’alternativa è Pechino, ma il rapporto con i cinesi è molto problematico e in futuro la Cina porrà più problemi alla Russia di quanti non ne ponga l’Europa.