Caterina Giojelli, Tempi 20/11/2014, 20 novembre 2014
IL MANDARINO MILANESE
«Tutto esiste o Milano. Milano è la scansìa d’ogni possibilità, d’ogni idea che possa diventare industria, o commercio. Non vi è industria o commercio, che non sia rappresentata a Milano» (Carlo Emilio Gadda)
FRANCESCO È UN TIPO che si dà un gran da fare. A 33 anni ha una moglie, due figli, una laurea in ingegneria elettronica e un ristorante. Al borgo antico di Legnano. Francesco siede nel direttivo della Confartigianato Alto Milanese, paga le tasse e armeggia disinvolto ai fornelli con polenta e bruscitt. Molto di quello che sa, lo ha studiato e imparato a Milano: scuole ad Affori, scientifico al Gonzaga, università al Politecnico di piazza Leonardo. Molto ma non tutto: la tenda ha imparato a montarla durante il campeggio estivo in Val Clarea, al confine con la Francia. E non è la sola parentesi esotica di Francesco, i cui occhi a mandorla raccontano anche un’altra storia. Francesco di cognome fa Wu, e viene da un posto che a spiegarlo si sfiatano i polmoni: un piccolo paesino sui vasti altipiani di un grande distretto di una enorme contea dell’immensa municipalità di Wenzhou. Su quella collina Francesco, che prima di ricevere il battesimo si chiamava Boqing, ha lasciato una nonna che ancora cucina sul fuoco per abitudine e perché più salutare. Nel 1989, infatti, la sua famiglia si ricongiunge a Milano, in seno ad una comunità viva e attiva fin dagli anni Venti.
Gente battagliera, quella di Wenzhou, gente inviata in prima linea durante la guerra sino-vietnamita, e gente rispettata: zona cardine dell’imprenditoria cinese, zona di emigrazione e ritorni, Wenzhou con i suoi centinaia di negozi, ristoranti e pizzerie dai sorprendenti nomi italiani è considerata anche in Cina la patria dei cinesi più intraprendenti. Quelli che si portano l’Italia appiccicata addosso in Cina e una predisposizione quasi brianzola a darsi un gran da fare in Italia. Ma da qualche anno a questa parte quelli come Francesco non sono più solo cinesi d’oltremare. Francesco cresce a Milano, quando ancora i bambini stranieri rappresentano una novità e un cognome cinese è un’eccezione sul registro scolastico. Rincontra la Cina solo dopo la laurea, quando viene inviato nel suo paese d’origine per rappresentare alcune aziende italiane: siamo nel 2007 e agli occhi dei cinesi Francesco è a tutti gli effetti un occidentale. E come tanti Wu, italiano in Cina e cinese in Italia, decide di reinventarsi e rimettersi in gioco. Con il fratello, con un ristorante e con un’associazione, l’Uniic, Unione imprenditori Italia Cina, che si trova a fondare e promette di guidare una sera, a tavola con venti amici. Oggi conta trecento soci e cosa fa? Il suo orgoglioso presidente la spiega così: «Siamo l’unica associazione di giovani imprenditori sinoitaliani che vuole rilanciare l’immagine dell’imprenditore cinese di seconda generazione che ormai apre attività con standard italiani, che cerca di integrare l’imprenditoria italo-cinese a quella nazionale e che si impegna a essere ponte tra le istituzioni italiane e la comunità cinese». Ecco chi è Francesco Wu, un mandarino meneghino.
La Grande Muraglia
C’è una grande muraglia che attraversa Milano. Fatta di pregiudizi e sentenze del tribunale. Sono passati otto anni dalla rivolta di Paolo Sarpi e oggi la comunità cinese torna a fronteggiare Palazzo Marino. Tutta colpa di una delibera posticcia quanto un Rolex made in China. Dopo aver risollevato le saracinesche di via Bramante, dopo aver pagato anche il doppio dei prezzi di mercato immobili, magazzini e licenze commerciali da proprietari italiani schiacciati dalla crisi dei negozi di vicinato – imprese in buona salute come la Cappelleria Melegari, la pasticceria Berni, le Cantine Isola, l’ortolano D’Ambrosio o l’erboristeria Novetti e moltissime altre (Sarpi detiene il record a Milano di botteghe storiche) hanno invece continuato a crescere accanto ai nuovi esercizi di proprietà cinese –, dopo essersi ribellati alla tolleranza zero dell’amministrazione Moratti, che a mezzo multa per violazione del codice della strada e manganello ha deciso di porre di colpo fine alla “zona franca”, dopo aver partecipato a innumerevoli tavoli e accettato di spostare i grossisti oltre i confini cittadini a Lacchiarella. Dopo tutto questo, «credete che i commercianti cinesi vogliano ancora essere trattati come cittadini di serie B?». Il 16 novembre 2012 l’amministrazione Pisapia firma una delibera che attiva otto nuove telecamere, orari ultraridotti per le operazioni di carico e scarico merci, divieto d’accesso ai Tir nel quadrante Sarpi. Per Francesco la misura significa una perdita di oltre 100 milioni di euro e la chiusura dei negozi all’ingrosso delle zone 1 e 8 di Milano. Guidata dall’Uniic la comunità cinese ricorre al Tar. Con loro ci sono anche alcuni famosi negozianti storici italiani di via Sarpi e gli avvocati Elia ed Elisabetta di Matteo: «La Ztl è uno strumento viabilistico, non può essere “distorta” per riparare altri guasti – spiegano i legali –. Il problema è l’ingrosso? Il Comune modifichi il piano del commercio, lasci stare il traffico». A grande sorpresa, dopo anni di rospi maldigeriti, il Tar dà ragione al guerriero di Wenzhou, depositando l’ordinanza di sospensiva. Ma l’euforia e la sensazione che “qualcosa è cambiato” dura poco. Maggio 2014: senza aspettare la sentenza del Consiglio di Stato ed eludendo la prima bocciatura del Tar, Palazzo Marino vara in fretta e furia una seconda delibera, aggiustata ma pur sempre «discriminatoria, perché prevede nuovamente un uso di telecamere e finestre orarie che rendono questa zona diversa da tutte le altre», spiega Francesco. Questa volta il Tar respinge il ricorso e gli occhi elettronici iniziano a sorvegliare Chinatown. Francesco non demorde: «Oggi i commercianti cinesi residenti a Milano lottano per il proprio diritto al lavoro, che dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini che hanno aperto le proprie attività con le licenze date dalle amministrazioni stesse. Le irregolarità vanno combattute là dove ci sono, puntualmente, e non danneggiando una intera comunità lavoratrice».
“Se sta mai coi man in man”
Crescendo, Francesco Wu – oggi presidente Uniic ma anche coordinatore lombardo di Associna, impegnata nella difesa dei diritti e del protagonismo delle seconde generazioni – ha lavorato per smontare molte leggende, tanti luoghi comuni, qualche triste verità. “Pechino paga le famiglie 200 mila euro per emigrare”. “Pechino ha stretto un accordo con Roma per esonerare ogni cinese che apre una società dal pagamento delle tasse”. “La mafia cinese finanzia le attività commerciali”. Questo è quello che si dice. E poi c’è Francesco. Che ha studiato grazie a una borsa di studio. Ha rilevato il Borgo antico di via Ponzella 38 a Legnano, in pieno feudo leghista, investendo i suoi risparmi da ingegnere e raccogliendo un prestito tra i tanti parenti. Appena aperto, ha lavorato «ogni giorno della settimana per due anni, accumulando 150 giorni di ferie all’anno» per ripagare il suo debito e insieme dare lavoro ai suoi dipendenti italiani. Oggi sponsorizza la squadra di calcio, di basket e il palio della sua città. Come Francesco c’è Alberto Lu Rong Yi, presidente della squadra di calcio Sesto 2000 di Sesto San Giovanni, o Fan, 25 anni, due figli milanesi, nato anche lui a Wenzhou, che ha recuperato la mitica gelateria di via Paolo Sarpi 2 sull’orlo del fallimento e i ragazzi che vi lavoravano, ristrutturato e stretto un accordo con Seletti per dare vita a una ancora più buona e bella gelateria ribattezzata Chateau Dufan. C’è insomma la seconda generazione, cresciuta fra italiani, che lavora e assume italiani e che parla con accento milanese. La vocazione all’imprenditorialità è fortissima grazie all’esempio dei maestri della prima ora, i più abili a dare senso e concretezza al proprio progetto migratorio: cinesi come Marco Jubin,
ieri lavapiatti e cameriere, oggi proprietario di ristoranti fusion dalla clientela selezionatissima e tra i più influenti uomini d’affari della comunità. Ci sarà un motivo se oggi in Italia si contano oltre 45 mila imprese con a capo un cinese, di cui quasi 9 mila attive in Lombardia, dove si registra una crescita del 7,1 per cento nel 2013 e del 139,2 per cento negli ultimi dieci anni, e se il 53,3 per cento di queste imprese sino-lombarde si concentra proprio a Milano e provincia.
A Milano del resto si fa così, “se sta mai coi man in man”, e non è diverso per tutti i cinesi, operai o imprenditori di prima generazione che spesso hanno un passato contadino nella Cina rurale degli anni scorsi, dove «lavorare la terra significa lavorare ogni singolo giorno dall’alba al tramonto. Non esiste un sistema pensionistico – esiste solo per i lavoratori statali e per i membri del Partito, spiega Francesco – né un sistema sanitario o scolastico pubblico che non sia a pagamento. Produrre diventa una questione di sopravvivenza e adattamento consolidati nei secoli. I cinesi sono più spaventati dalle miriadi di certificazioni spesso inutili che servono per aprire un’attività in Italia che dal dover lavorare sodo sette giorni su sette». È proprio questa l’estenuante, inconcludente, interminabile burocrazia che intrappola ogni tentativo di intrapresa in Italia a lasciare basito Francesco. E non solo. Il modello cinese all’estero? «Costituito da una miriade di imprese medie, piccole o piccolissime, proprio come quello italiano, deve la sua forza e la sua solidità alla famiglia, base di tutta la solidarietà imprenditoriale, veicolo di valori e di forza lavoro. Per questo i cinesi migrano in massa, fanno in genere più di due figli (il doppio della media italiana) che tramandino il proprio cognome, si stringono a parenti di ogni grado, amici fidatissimi, che uniscono le forze e il portafoglio per realizzare il progetto di ciascuno. Venisse meno la famiglia, con il suo senso del rispetto e dell’onore per cui tutti sono impegnati a restituire il debito e ricambiare i sacrifici, tutto andrebbe in crisi».
Gente spiccia, gran voglia di lavorare, risparmiare, senso della famiglia, lavapiatti che diventano chef, dipendenti che diventano proprietari. Alla base del successo delle imprese cinesi che crescono del 6,1 per cento a fronte del -1,6 per cento di quelle italiane (dati 2012-2013 Cgia Mestre) c’è tutto quello che oltre mezzo secolo fa andava costruendo il miracolo economico italiano. I cinesi di oggi sono i “ragiunatt” degli anni Sessanta.
Un ceto politecnico e idealista
Carlo Emilio Gadda lo chiamava ceto politecnico-mercantile: innamorato spieiato della «città industre», denunciava la miopia culturale di una classe borghese, capace di indefessa industriosità e filantropia quanto di sentirsi appagata dal senso comune più che dal buon senso. Capace di imprese grandi ma non di grandi imprese. Ma quello di Wu e compagni, moderni mercanti col bernoccolo dell’ingegneria, è un pragmatismo che non è privo di slanci ideali. Tutt’altro. «La partita dell’integrazione nasce, come sempre accade, da un’esigenza concreta, economica, ma si gioca sul filo del rapporto umano, dell’incontro, non attraverso una formula politica o una sentenza del tribunale. I nostri figli cresceranno in Italia. Milano ha bisogno di un modello somigliante a se stessa come quello cinese e il cinese ha bisogno di tornare a dare peso all’essere e all’ideale a guida del suo progetto, qualcosa che ha a che fare profondamente con il marchio di fabbrica ambrosiano». Qualcosa che ha a che fare con una mattina di 13 anni fa, quando nella chiesa di San Gregorio Magno, Boqing Wu riceve il battesimo. Sceglie di chiamarsi Francesco Saverio, patrono delle missioni e dell’Oriente. Una vocazione che è nata così, con un incontro e che attraverso altri incontri ha dato un senso al progetto migratorio di un ragazzo di Wenzhou.
Oggi Francesco non ha ancora cittadinanza italiana. Si dice favorevole a un “Ius Soli temperato o culturale” che permetta al bambino nato e cresciuto in Italia di avere la cittadinanza italiana, prima del compimento della maggiore età, qualora abbia fatto almeno un ciclo di studi scolastici, o che almeno faciliti l’iter a chi come lui non è nato in Italia, ma possiede un diploma o una laurea presa sul territorio italiano. In base alla legislazione vigente, invece, per acquisire la cittadinanza Francesco dovrà ancora aspettare. L’iter dura 4-5 anni, solo allora – dopo molte scartoffie, bolli e tempi biblici – potrà finalmente votare. Nel frattempo continua a darsi un gran da fare a Legnano e tra le vie di Paolo Sarpi: là dove crescono i nuovi ragiunatt degli anni Sessanta, i lavapiatti diventano chef e non c’è carretto che non si muova sotto l’occhio elettronico dello Stato.