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 2014  novembre 18 Martedì calendario

RITORNO AL FUTURO

Quando guardo una partita di calcio che ha più di vent’anni, una delle prime cose che noto è quanto siano sgraziati i giocatori in campo. Qualsiasi stia vedendo: che sia una semifinale dei Mondiali del 1986 o una partitaccia del Milan del 1977/1978. Più volte, quando ho dovuto guardare spezzoni di vecchie partite, mi sono trovato a pensare di tale rispettatissimo campione degli anni Ottanta – che chiamerò X, per risparmiarmi brutte figure – che fosse davvero brutto da vedere, e che si muovesse a scatti, nervosamente, e avesse insomma meno fluidità di un sacco di gente che ho visto giocare in spiaggia, in un campo fangoso e spelacchiato di Milano, su un pratone irlandese.
Ho anche cominciato ad azzardare una qualche spiegazione. Potrebbe essere legato al fatto che i giocatori che vediamo in questi anni sono i più preparati e forti dal punto di vista fisico e tecnico. Che il calcio di oggi, a differenza di parecchi anni fa, prevede una certa intercambiabilità di ruoli ed elasticità mentale, nell’interpretarli. Ma più di tutti questi fattori ha giocato una parte importante il fatto che solo da pochi anni assistiamo a una grande quantità di calcio, e di ottima qualità. E con il verbo “assistere” vorrei spostare l’attenzione su tutto quel calcio che non giochiamo, ma che viviamo lo stesso. Probabilmente da piccoli, crescendo, abbiamo passato una quantità inferiore di tempo in cortile, rispetto a quelli cresciuti negli anni Cinquanta o Sessanta però, abbiamo passato una quantità imparagonabile di tempo a guardare partite e giocate eseguite da gente millemila volte più brava e capace di noi. Un ragazzino “di altri tempi”, e di conseguenza un futuro (di un futuro passato) calciatore di qualsiasi livello, non aveva la possibilità di guardarsi tutte le partite di Champions League che voleva, di passare ore davanti a FIifa, o anche solo guardare più di una partita a settimana. Di conseguenza, è naturale che una certa fluidità e grazia dei movimenti di cui godiamo quando vediamo giocare gente come Stevan Jovetić (sono innamorato, perdonatemi, e non ditemi che al City ha fatto troppa palestra) venga assorbita e messa in pratica, anche inconsciamente, sui campetti di qualsiasi parte del mondo. E che quindi la “fluidità media” si sia alzata esponenzialmente.
Ovviamente, però, ci sono delle eccezioni. Solo due calciatori in particolare mi hanno colpito per quanto fossero molto più fluidi e aggraziati del resto degli altri: uno è Marco Van Basten. L’altro è Roberto Mancini. Senza voler fare paragoni tra i due, Van Basten aveva un talento “eterno”, di quei pochi che resteranno finché gli esseri umani giocheranno/parleranno di calcio, ma Mancini era comunque fuori dal suo tempo. Fossi capace di smanettare con un programma da grafico, ritaglierei la sagoma in movimento di Mancini e la incollerei dentro a un video di una partita giocata l’anno scorso. Non si noterebbero differenze, fossi un bravo grafico. Roberto Mancini non ciondolava, non si muoveva nervosamente o goffamente: aveva una fluidità e una grazia dei movimenti tutta moderna.
È una cosa che si vede già bene in un gol che Mancini segna a 16 anni, il 3 gennaio 1982, in un Bologna-Genoa che finisce 1-1. Mancini riceve palla sul lato corto dell’area di rigore, si porta avanti di poco la palla, con l’esterno sinistro, fintando di andare sul fondo, e invece rientra, ancora con l’esterno, la mette sul secondo palo, fortissimo. Il portiere non si muove neppure. Lui, Mancini, sembra leggerissimo e quando tira si china leggermente all’indietro, piano, quasi per un suo vezzo personale.
Mancini, durante la sua prima stagione in Serie A, segna 9 gol in 30 partite. Il Bologna retrocede e lui viene ceduto alla Sampdoria, dove resta per quindici stagioni diventando un giocatore leggendario, insostituibile, bellissimo da vedere.
Pian piano, Mancini emerge anche come personaggio pubblico. Ne viene fuori un tipo descritto da tutti come introverso, ma anche un po’ vivace e casinista, una specie di ossimoro. Come ossimorico è la sua condizione di giocatore aggraziato e moderno, capace di pensate spettacolari e movimenti, e rinchiuso nel corpo di un normale ventenne che ricorda quello bravo, a calcio, di una città di periferia (aspetta: lui è quello bravo, a calcio, di una città di periferia). È una condizione – la contraddizione – che ricorre un po’ ovunque, durante la sua carriera.
In un’intervista che dà alla RAI quando ha 17 anni, di lui si racconta che è venuto via da Jesi quando aveva 13 anni, per andare a giocare nel Bologna: poi, il giornalista gli fa domande standard, a cui lui fornisce risposte standard. Tranne in alcune occasioni, quando sembra abbandonare, per un attimo, il pilota automatico. Come quando racconta che in pratica gli hanno imposto di studiare inglese perché a scuola non ci va più («facevo scuola normale però non è che avevo molta voglia, ecco»): l’audio dell’intervista scorre sotto a una serie di immagini in cui Mancini è su un letto, vestito – ha ancora addosso le scarpe – e ripete alcune frasi con davanti un libro e una voce femminile che esce da un registratore. È una scena un po’ strana, anche difficile da capire: Mancini parla un italiano stentato, durante l’intervista, ma ha anche l’intelligenza per rendersene conto e difatti cerca istintivamente di asciugare il suo discorso, fatto di frasi secche e un po’ banali. Rimpiange di non essere andato avanti a studiare, ma quella frase la butta lì, senza molta convinzione. Poi, si augura di riuscire a portare avanti quel corso di inglese, «almeno quello».
A Genova, Mancini è il cocco del presidente Paolo Mantovani e della tifoseria. Resta in squadra anche dopo che Vialli viene comprato dalla Juventus, nel 1992, al termine di un ciclo di vittorie e trofei forse irripetibile: con Vujadin Boškov in panchina, fra il 1986 e il 1992, la Samp accumula 6/7 del suo attuale palmarès: arriva persino a giocarsi per due volte la finale di Coppa delle Coppe, fra il 1988 e il 1990, e quella di Champions League, nella stagione 1991-1992.
La prima finale, quella del 1988-1989, ha un esito quasi commovente: la Sampdoria è alla prima finale europea in assoluto, e ci arriva con Vialli infortunato, che però, si dice, è costretto da Boškov a giocare per tutti i novanta minuti. Il Barcellona è quello allenato da Cruyff, di Gary Lineker nel fiore della carriera, di Julio Salinas nella stagione migliore della sua vita. La Samp viene dominata e perde 2-0. L’anno dopo arriva di nuovo in finale, stavolta contro l’Anderlecht: a questo giro, attacca per tutta la partita, infruttuosamente. Poi, ai supplementari, Vialli segna un gol al termine di un’azione confusa, quasi strappando la palla dai piedi del portiere dell’Anderlecht. Pochi minuti dopo, Mancini si fa trovare larghissimo sulla destra dell’area, dove punta al centro e mette un cross perfetto, potente, preciso, che avrebbe fatto segnare chiunque – Vialli salta semplicemente sul posto, tanto è ben calciato. 2-0. In un’intervista recente, Mancini teorizza che se Vialli avesse fatto 200 gol con la Sampdoria, 150 sarebbero stati realizzati grazie a suoi assist (in realtà, con la Samp, Vialli di gol ne ha fatti “solo” 141). Vialli ricorda che segnare, a Mancini, «faceva un po’ schifo». Uno che di gol ne ha fatti 208, in carriera. Alcuni dei quali, fra l’altro, bellissimi: come uno dei suoi più famosi, segnato durante una partita di Serie A contro il Napoli, il 18 novembre 1990: in corsa, azzeccando alla perfezione movimenti e scelta del colpo (un esterno collo complicatissimo) – il tutto, ancora, con un’eleganza incredibile.
Fra gli anni Ottanta e Novanta è uno dei giocatori più forti, in Italia: eppure, in Nazionale va sempre maluccio. Nella sua carriera, non gioca mai nemmeno un minuto di un Mondiale (e per Italia 90 era stato pure convocato). Il primo gol lo realizza nel 1988, durante una partita del primo turno con gli Europei contro la Germania Ovest: dopo aver segnato, scansa tutti per andare a esultare polemicamente sotto un gruppo di giornalisti. Giocherà altre tre partite di quell’Europeo, non segnando più e venendo sostituito tutte e tre le volte. Fu l’unico grosso torneo disputato da Mancini con la Nazionale.
Nel 1997, a 33 anni, a un’età in cui solitamente si cerca la penultima squadra della propria carriera (a meno che non ti chiami Emiliano Moretti: in quel caso, sei pronto per essere chiamato in Nazionale). Mancini trova il tempo di arrivare alla Lazio – assieme a mezza Sampdoria, comprata da Cragnotti: e cioè Sven-Göran Eriksson, Siniša Mihajlović e Attilio Lombardo – e vincere tutto, anche lì. Scudetto, Coppa Italia, Coppa delle Coppe, Supercoppa UEFA, Supercoppa Italia. E poi, ovviamente, fa anche quel gol lì.
Mancini si ritira a 36 anni, dopo aver provato a giocare qualche partita con il Leicester City (e aver passato un breve periodo alla Lazio, come viceallenatore di Eriksson). Si mette a fare l’allenatore: un giocatore fantasioso e d’attacco, che non è un leader nel senso convenzionale del termine, che si mette ad allenare: una cosa strana.
Una delle cose più sorprendenti, scorrendo mentalmente la lista delle sue esperienze, è che Mancini ha vinto un trofeo ovunque sia andato. Il ragazzo un po’ intontito che imparava l’inglese seduto sul suo letto, ascoltando la voce di un registratore, è diventato prima un giocatore elegante e vincente, e quindi un allenatore maturo e vincente.
Nel 2014, per arrivare ad alto livello praticamente in qualsiasi cosa, non è più richiesta un’intelligenza settoriale, anche se sviluppatissima. Nel 2014, per arrivare ad allenare in Premier League – o, più banalmente, a vincere tre scudetti di Serie A – non basta essere un grande allenatore: occorre scegliere i giocatori giusti da comprare, avere una sufficiente elasticità mentale per calarsi in un contesto nuovo, diverso, straniero. Occorre gestire i rapporti con giornalisti, tifosi, altri manager, la dirigenza. Ed è una bella storia, che ad essere riuscito a fare tutto questo sia quel ragazzo dai vestiti un po’ larghi, che imparava l’inglese a letto. Ed è una storia ancora più bella se si pensa che ad ottenere tutte queste cose è ancora quella persona lì, quel tipo capace a 16 anni di cose meravigliose in campo, e introverso, un po’ casinista, contraddittorio, a volte banale. Però più spesso di una figurina.
La prima panchina “vera” di Mancini è quella della Fiorentina. Una squadra praticamente un po’ in disarmo, dopo la cessione di Batistuta alla Roma e due terzi posti e il ritorno in Champions League degli anni prima. Mancini salva il salvabile, dopo essere arrivato a marzo del 2001 in sostituzione di Fatih Terim: ottiene un nono posto ma soprattutto vince la Coppa Italia, battendo 1-0 il Parma all’andata e riuscendo a pareggiare 1-1 al ritorno (a proposito: in entrambe le partite giocò titolare Emiliano Moretti).
Per la stagione successiva, una serie di articoli successivi racconta come Mancini si spese moltissimo per allestire una squadra decente, in mezzo ai mille problemi finanziari della società (che fallirà nel 2002, sotto la presidenza Cecchi Gori). Moratti gli “regala” Adriano e Robbiati, mentre lui stesso cerca di convincere Mihajlović a mollare la Lazio per andare alla Fiorentina. La Gazzetta dello Sport, quell’estate, racconta di un Mancini in cerca di «favori, aiuti, elemosine».

Con una buona dose di faccia tosta, Mancini aveva chiesto a Cragnotti anche Castroman, puntando stavolta sulla necessità di non svalutare un giovane che a Roma gioca pochissimo. Altri soldi non poteva offrire: l’ ingaggio di Baronio, infatti, è stato garantito dalla liquidazione laziale di Mancini. Oltre a non vedere né lire né euro dalla Fiorentina dalla scorsa estate, Mancini s’ era giocato da tempo le spettanze che doveva ancora riscuotere pur di rafforzare la squadra. Per la sua prima esperienza da allenatore di serie A voleva un palcoscenico elegante – Firenze – e un abito adeguato, ovvero una formazione di buon livello. Quando ha capito che in cassa non c’ era una lira, anziché andarsene ha cominciato a ricorrere al suo conto in banca, ai crediti economici e a quelli morali di cui godeva.

Società nobilissima e pochi soldi. Mancini mi ricorda terribilmente quelle stagioni passate ad allenare squadre – a Football Manager, chiaro – dai mille problemi economici, setacciando la lista dei parametri zero, dei giocatori in lista per il prestito, dei grandi difensori un po’ vecchiotti ma ancora buoni. Notevole. Però, non funziona: Mancini viene esonerato dopo 10 sconfitte su 16 partite. La Fiorentina retrocede e fallisce. Fra il 2002 e il 2004, allena la Lazio, con buoni risultati: un quarto e un sesto posto, una qualificazione in Champions League, ancora una Coppa Italia. All’epoca, Mancini non ha ancora 40 anni ed è l’allenatore del momento. La Lazio gioca benino, e Mancini dimostra di riuscire a tenere a bada uno spogliatoio con dentro giocatori già affermati. Il tutto è sufficiente ad irretire Massimo Moratti, innamorato perenne degli allenatori-del-momento.
Entriamo nella fase di carriera più nota di Mancini: che prende una squadra con Álvaro Recoba e ne consegna a Mourinho una con Cambiasso, Stanković, Júlio César, Maicon e Samuel. Negli anni in cui il Milan si concentra quasi esclusivamente sull’Europa e la Juventus affonda, in Italia resta solo la Roma. La sua Inter non gioca un calcio spettacolare: cerca invece di controllare il gioco con una manovra lenta e paziente. L’arrivo di Ibrahimović attira le prime accuse di ibracentrismo. Nel frattempo, l’Inter vince tre scudetti e due Coppe Italia.
Manchester City: un sacco di soldi a disposizione, una squadra da costruire sulle proprie esigenze. Una squadra che non ha vinto niente e che Mancini assembla coi giocatori che vuole: gli piace vincere con «squadre non di vertice, che poi ci sono arrivate»: un po’ la storia della sua carriera. Trofei importanti e squadre che importanti non lo sono ancora. Ancora negli ultimi anni, Mancini è rimasto il solito tipo contraddittorio: vincente con squadre che vincenti non lo erano, vincente ma non infallibile, rivelatore di cose interessanti in mezzo a decine di minuti di risposte banali.
Come quando, da allenatore del Galatasaray, ricorda che nei suoi confronti la dirigenza del Manchester City si è comportata «da Giuda» perché nei mesi precedenti al suo licenziamento avevano contattato altri allenatori, fra cui Guardiola e Ancelotti.
Tutto questo, nel mezzo di un’intervista nella quale spiega pazientemente che «negli scorsi quattro anni abbiamo vinto tutto, siamo stati felici, ma ora il mio lavoro lì è concluso». Oppure come quando rivendica di aver comprato lui Agüero, Džeko, Yaya Touré, David Silva, Samir Nasri: e che quindi spiega, nel febbraio del 2014, di essere contento del fatto che «il Manchester City sia una delle più forti squadre inglesi, perché la squadra l’ho costruita io».
Oppure, ancora, come quando durante la conferenza stampa di presentazione all’Inter, infila in mezzo a cose tipo “bisogna vincere tramite il lavoro” affermazioni schiette sul fatto che non si sarebbe mai aspettato di tornare all’Inter e che proprio di mercato non può parlare perché non conosce i giocatori che ha. Schiettezza, banalità, umanità. E prima di allora, un gran giocatore, a vedersi.