Andrea Schianchi, La Gazzetta dello Sport 20/11/2014, 20 novembre 2014
GENIO, DIFESA E CONTROPIEDE UN MAESTRO SENZA CONFINI
La misura delle proprie idee, nel mondo del calcio, è il successo. Se vinci, significa che hai pensato bene, insegnato bene e raccolto i frutti. E se vinci in tempi e luoghi diversi vuol dire che la tua è una lezione da tramandare, un modello da seguire, un obiettivo cui tendere. Giovanni Trapattoni, da quando ha iniziato ad allenare nel 1976, non ha fatto altro che vincere: con la Juventus, con l’Inter, ancora con la Juventus, con il Bayern Monaco, con il Benfica, con il Salisburgo. Scudetti, coppe nazionali e internazionali. Ovunque e contro chiunque. Ed è riuscito in questa impresa per una ragione molto semplice: ha saputo adattarsi al tempo senza mai snaturarsi. Lui è sempre il Trap, Giuàn per gli amici: ha assorbito il buono e gettato il cattivo delle mode. In poche parole ha vissuto la sua epoca senza arroccarsi in difesa, ma andando all’attacco, cercando nuove strade, soluzioni sempre diverse per i problemi che gli si paravano davanti. E questi ostacoli, di volta in volta, li ha affrontati «a uomo» o «a zona», in alcune circostanze persino «a zona mista». Da vero «italianista».
PREZIOSI CONSIGLI Nella primavera del 1976 Trapattoni, dopo essere cresciuto all’ombra di Nereo Rocco al Milan, sta per accettare il primo lavoro in proprio. Lo vuole l’Atalanta, in Serie B, ma quando tutto sembra ormai concluso arriva la telefonata di Giampiero Boniperti che gli propone la panchina della Juventus. Lì comincia un binomio d’oro che andrà avanti per un decennio. Trapattoni è un tipico prodotto italiano: massima attenzione difensiva, strette marcature a uomo, contropiede rapido. Alla Juve il materiale umano è di primo livello e, grazie ai preziosi consigli di Boniperti che lo conduce per mano e a qualche tirata d’orecchie dell’Avvocato Agnelli, il Trap colleziona successi su successi. I maliziosi sostengono che con quella squadra avrebbe vinto chiunque: giudizio ingeneroso. Alla sua prima stagione in panchina Trapattoni porta alla corte degli Agnelli lo scudetto con il record di punti (51) per i tornei a 16 squadre, e la Coppa Uefa, primo trofeo internazionale nella storia della società. Inoltre, è tutto del Trap il merito di aver rigenerato Boninsegna e Benetti, considerati ferri vecchi da Inter e Milan, e di aver lanciato giovani come Tardelli e Cabrini. Se l’Italia di Bearzot, al Mondiale del 1978, è la squadra che più diverte, e se la formazione di quella Nazionale è composta da nove juventini, non è esagerato dire che c’è anche lo zampino del Trap.
CAPOLAVORO ALL’INTER Continua a vincere con Platini e Boniek, proponendo un modello di calcio che non è soltanto difesa e contropiede. Perché è vero che nella Juve c’è Furino (e poi Bonini) a occuparsi in pianta stabile della mezzala nemica (chiaro intento difensivistico), ma c’è pure Scirea che fa il libero e, appena ruba il pallone agli avversari, imposta l’azione come un centrocampista. E c’è Cabrini, che pedala sulla fascia come faceva Facchetti. E Tardelli, che s’inserisce in attacco con la prontezza di un felino. Insomma, un meccanismo perfetto che, anno dopo anno, Trapattoni modella e, quand’è il caso, corregge. A testimonianza della sua duttilità c’è l’esperienza all’Inter. Dopo un paio di stagioni così così, mentre sull’altra sponda di Milano comincia a brillare la stella del nemico Sacchi, il Trap costruisce il suo capolavoro. Scudetto 1989, record di punti (58) per un torneo a 18 squadre, alla faccia dei predicatori della zona, del pressing e del fuorigioco chiamato alzando la manina e condizionando arbitri e guardalinee. Il Trap dispone rigide marcature a uomo (Ferri e Bergomi che ringhiano), con un libero alle loro spalle (Mandorlini), un terzino di spinta che fa il centrocampista e l’ala (Brehme), un regista che detta i tempi (Matteoli), una mezzala di classe e potenza (Matthäus), un mediano di corsa (Berti), un’ala tattica (Bianchi), un centravanti che rientra (Diaz) e apre spazi per l’ariete (Serena). Il disegno è leonardesco, per precisione e bellezza.
ALL’ESTERO Considerato «bollito» in Italia (non si sa perché), Trapattoni fa la valigia e si trasferisce in Germania, dove vince con il Bayern Monaco. Poi rientra nel nostro campionato, guida la Fiorentina, la Nazionale (ah, se non ci fosse stato l’arbitro Byron Moreno, chissà...) e poi decide che è venuto il tempo di far gioire pure i tifosi del Benfica. Si ferma a Lisbona, dove le Aquile non vincono lo scudetto da 11 anni: lui interrompe il digiuno. E lo stesso farà in Austria, a Salisburgo. Ora, al netto delle preferenze estetiche (più bello il calcio del Trap o, tanto per fare un esempio, quello di Sacchi?), si deve concludere che non c’è allenatore che rappresenti meglio l’idea italiana.