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 2014  novembre 20 Giovedì calendario

ARTICOLI SULLA SENTENZA ETERNIT DAI GIORNALI DEL 20 NOVEMBRE 2014


VIRGINIA PICCOLILLO, CORRIERE DELLA SERA -
Prescritta. La strage dell’Eternit resterà impunita. Si è chiuso così il «processo del secolo» contro il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, a capo dell’azienda accusato di disastro ambientale per aver esposto i lavoratori all’amianto e alla conseguente morte per mesotelioma pleurico. Assolto, tra i fischi e le grida dei familiari di alcune delle oltre 3 mila vittime registrate nei 4 stabilimenti italiani della multinazionale elvetico-belga e tra i cittadini di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). «Vergogna», «buffoni», «assassini», hanno urlato in tanti. Invano.
Crolla così il castello costruito dal pm di Torino Guariniello che però assicura: «Il reato c’è. Non demordiamo. Ora apriremo il capitolo omicidi». Mentre il magnate assolto dichiara: «L’Italia è l’unico Paese che vuole risolvere la catastrofe dell’amianto attraverso processi. Sarebbe meglio abbandonarlo».
È la conferma che nei precedenti gradi di giudizio sono stati violati i principi del giusto processo. Ora basta processi ingiustificati». Sfumano i risarcimenti previsti dalla sentenza di appello per le 983 parti civili: familiari e comunità locali. I 2 mila parenti che hanno raggiunto un accordo extragiudiziale potranno tenere i compensi. È di 280 milioni di euro la perdita dell’Inail, condannata con l’Inps a pagare le spese e priva di risarcimento per le prestazioni erogate ai malati. Una strage che continua e dovrebbe avere il suo picco nel 2025. Ma che si sarebbe potuta evitare: secondo i processi, le conseguenze dell’esposizione all’amianto erano note ai vertici Eternit, che però le ignorarono.
Resta il monito del sostituto pg della Cassazione, Francesco Iacoviello: «Per reati come le morti per amianto che ha una latenza di decenni, serve un intervento legislativo». Perché a volte «diritto e giustizia vanno da parti opposte». Parole che avevano suscitato l’applauso delle parti civili convinte di ascoltare la conferma di condanna a 18 anni per Schmidheiny dal pg definito: «Responsabile di tutte le condotte a lui ascritte».
Alla richiesta di assoluzione il sorriso si è trasformato in maschera di dolore indignato: «Reato prescritto». Troppo vecchi i fatti cui faceva riferimento l’imputazione di disastro. «Un reato non agganciato alle lesioni e alle morti», aveva evidenziato il difensore del magnate, Franco Coppi. E, secondo il pg, prescritto già dal 1998, 12 anni dopo il fallimento dell’azienda. Una tesi che ha convinto anche i giudici della prima sezione penale. Ma non i parenti. «Ma come prescritto se c’è gente che sta morendo?», protestavano madri, figli, mogli, mostrando le foto di chi non c’è più. Chi piangeva. Chi, con le mani tra i capelli, muto, guardava fisso nel vuoto. Chi, al telefono, gridava per far capire, a un’anziana madre in attesa, che giustizia per il figlio perduto non ci sarà mai più: «Non c’è un altro giudice, mamma. È finita. È finita per sempre».
Virginia Piccolillo

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GIORGIO DELL’ARTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Alle dieci di sera, quando arriva la sentenza, non sappiamo che questo: che tutto è stato prescritto, e che quindi le migliaia di morti provocate dall’eternit di Casale è come se non fossero mai esistite, niente galera per nessuno, neanche una lira di risarcimento per le famiglie, un tutti a casa clamoroso, impossibile da digerire, e che bisognerà capire nei prossimi giorni. In quale punto del sistema giudiziario s’è manifestato questo buco tanto clamoroso? Perché, se sono vere le prime notizie, la Cassazione ha stabilito che i reati in questione erano prescritti già all’inizio, cioè il processo non sarebbe mai dovuto cominciare. Siccome due consessi di giudici si sono cimentati con questa faccenda, ne consegue che non tutti intendono la prescrizione allo stesso modo, altrimenti anche i giudici del primo o quelli del secondo grado sarebbero stati in grado di non procedere. È questione di leggi mal scritte, come al solito? È questione di troppe leggi sulla stessa materia e in sottile contraddizione una con l’altra, leggi confliggenti che offrono il destro a chi sentenzia di scegliere quella che più gli aggrada? Non lo sappiamo e non siamo nemmeno sicuri che, al momento delle motivazioni, avremo davvero capito di che si tratta.
1 Facciamo un po’ di storia.
Il primo dibattimento si concluse il 13 febbraio 2012 con la condanna dei due proprietari a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissione dolosa di misure infortunistiche. I due, padroni di quattro stabilimenti ormai falliti, si chiamano Stephan Schmidheiny e Luois Cartier de Marchienne, a quell’epoca di 65 e 91 anni, entrambi residenti all’estero (Svizzera e Belgio) e quindi, nel caso, da far instradare in Italia a sentenza definitiva. Louis Cartier morì poco dopo e l’Appello giudicò quindi il solo Schmidheiny: nonostante la fama di benefattore e di ecologista, conquistata soprattutto in Sud America, i giudici gli aggravarono la pena portandola a 18 anni e stabilendo anche risarcimenti (provvisionali) per un totale di 90 milioni di euro. A ciascuna delle 932 parti civili sarebbero dovuti andare 30 mila euro, 20 milioni alla Regione Piemonte, 31 milioni al comune di Casale Monferrato, 2 milioni al comune di Rubiera, 5 milioni alla Asl di Alessandria. Dopo ieri sera, non c’è più niente. Niente carcere, niente soldi. E pensare che all’inizio Schmidheiny aveva offerto 18 milioni alla sola città di Casale perché non si costituisse parte civile e il sindaco Demezzi (Pdl) sulle prime aveva accettato e poi era stato costretto dall’indignazione generale a fare marcia indietro perché, naturalmente, non si barattano le vite con i soldi. Errore, errore gravissimo, specie con la giustizia italiana, che ragiona sempre in termini di accomodamento tra le parti e detesta andare fino alla fine del giudizio. Con una buona trattativa, si sarebbero potuti togliere ai due ricconi un cinquanta milioni da dividersi tra tutti quanti. Almeno avrebbero pagato qualcosa.
2 Spieghiamo un attimo, che cos’è questo eternit...
L’eternit è un impasto di acqua cemento e amianto, che il suo inventore (l’austriaco Ludwig Hatschek) chiamò in quel modo perché pensava fosse eterno. Era il 1901. Che l’amianto facesse male lo si sospetta praticamente da sempre, ma dagli Anni 70 lo si dice apertamente. Una lunga lotta ha permesso di dare certezza scientifica al sospetto. A Casale parlano ancora del professor Salvini, medicina del lavoro dell’Università di Pavia, che una certa mattina del 1984 si presentò in fabbrica con un pennello e spennellava di qua e di là le pareti che la direzione aveva tentato di lucidare a specchio. Salvini trovò talmente tanta polvere, e così nociva, da trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica.
3 Quanta gente è morta a Casale e negli altri tre stabilimenti per questo?
Duemila persone. E non si contano le vittime di prima del 1999 perché quelle erano già tutte prescritte. Altre 90 sono state estromesse in toto dal processo già in Appello, per via della scomparsa di Louis Cartier. L’eternit non ha ucciso solo i lavoratori e gli impiegati degli stabilimenti. A Casale se n’è andata all’altro mondo col mesotelioma pleurico, o con l’asbestosi, la silicosi e varie broncopneumopatie da silicati tanta gente che in fabbrica non ci aveva mai messo piede. La polvere, portata dal vento, s’incanalava per le vie della città imbiancando le famiglie ignare che stavano a casa. Il peggio purtroppo deve ancora venire perché il picco dei decessi — che continuano con ritmo impressionante — si registrerà tra il 2015 e il 2020. Solo dopo comincerà il declino di questa peste metallica.
4 Come comincia il male?
Con un piccolo dolore alla schiena. E da quel momento in poi si va all’altro mondo in fretta.
5 Prime reazioni?
Mentre scriviamo i familiari delle vittime, disperati, sono in piazza Cavour a Roma e stanno gridando rivolti verso le finestre accese degli uffici della Cassazione, e rivolti anche verso la giustizia italiana: «Vergogna! Vergogna!».

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MARCO IMARISIO, CORRIERE DELLA SERA -
L’ultimo è stato seppellito sabato scorso. A salutare Luigino Bozzo nella chiesa di Roncaglia c’era la sua famiglia e qualche abitante della frazione più piccola di Casale Monferrato. Faceva il geometra, aveva 58 anni. Il mesotelioma ci ha messo appena tre mesi a farlo annegare nell’acqua dei suoi polmoni. Fuori pioveva forte. La bara è stata caricata in fretta sull’auto dell’impresa funebre. Dieci minuti dopo sul piazzale non c’era più nessuno.
Quest’anno è peggio dell’ultimo. Appena metà novembre e siamo già a cinquanta. Al procuratore generale e ai giudici della Cassazione forse non può e non deve interessare. Ma in queste terre belle e sfortunate si continua a morire, come se essere nati da queste parti, aver respirato quest’aria sia una condanna destinata prima o poi a diventare esecutiva.
La sentenza di ieri fissa invece un punto fermo in una storia che è un continuo e atroce divenire. Ci saranno tutti i crismi di legalità, che dubbio c’è, ma le facce della gente che ieri piangeva disperata sulle scale del Palazzaccio romano dovrebbero dire anch’esse qualcosa. Molte di quelle persone sono venute a Roma per la prima volta in vita loro, così come in questi anni si sono messe in coda all’alba sul corso Valentino per salire sul pullman che le avrebbe portate alle udienze del processo di Torino. Lo hanno fatto perché credevano nella possibilità di quel risarcimento morale che ci ostiniamo a chiamare giustizia dopo aver assistito impotenti alle sofferenze indicibili dei loro figli, delle loro madri e padri.
C’era Valeria, la figlia di «Pica» Busto, che lavorava in banca e correva sugli argini del Po, come poteva sapere che tutto quel bianco dell’acqua e della terra conteneva un veleno che lui inalava. Valeria aveva due anni quando papà se ne andò per sempre, alla vigilia del Natale ‘88. Sua moglie fece affiggere dei cartelli funebri che dicevano «l’inquinamento da amianto lo ha tolto all’affetto di chi lo amava», e quel necrologio fu uno schiaffo in faccia a una città che stentava a comprendere il motivo di quelle morti repentine, tutte uguali, tosse secca, dolore appena sotto le scapole, e poi l’inutile macelleria chirurgica, persone che tornavano a casa e sembravano spettri, e nessuna speranza, mai.
A Casale Monferrato sono morte di amianto tremila persone, senza contare quelle non dichiarate, in ogni paese se ne contano almeno una decina. Più delle vittime del conflitto in Nord Irlanda. La «fabbrica» era arrivata in città nel 1906 portandosi dietro un brevetto innovativo che mischiava fibre di cemento a quelle di amianto, capace di resistere al tempo e al fuoco. Lo chiamarono Eternit perché era destinato a durare per sempre. Gli abitanti consideravano quello stabilimento di 94 mila metri quadrati come la Fiat di Casale Monferrato, entrarci significava dire addio alla malora, alla vita nei campi.
Gli operai morivano, ma erano separati dal resto della città da quel recinto di cemento in fondo al quartiere del Ronzone. Era meglio non sapere, altrimenti magari la fabbrica chiude, allora erano in tanti a pensarla così.
Nel 1969 accadde però che il vento fece un giro strano per molti mesi. In via Roma, il cuore di Casale, morirono sette «civili» in poco tempo. Morì il maestro che aveva insegnato le tabelline a intere generazioni e ieri in aula c’erano i suoi figli, uno di loro con la bombola d’ossigeno, perché non c’è scampo, ti viene a prendere, anche dopo tutto questo tempo. E insomma, si cominciò a capire che stava succedendo qualcosa di mostruoso.
La prescrizione decorrerà senza dubbio dal momento in cui Eternit chiuse, nel lontano 1976. Ma quelli che conoscono Casale Monferrato e le altre città colpite da questa morte bianca che non conosce prescrizione, sanno che l’effetto sarà devastante e allontanerà intere comunità fatte di gente perbene e senza fortuna dalla giustizia. Nel 2000 la fabbrica del Ronzone fu tumulata nel cemento con un’operazione uguale a quella fatta con il reattore di Chernobyl. Gli operai si estinsero, o quasi. Ma i «civili», ormai la maggioranza nel pallottoliere dei caduti, hanno continuato a morire nell’indifferenza.
Poi arrivò Raffaele Guariniello che raccolse le denunce fatte dagli ostinati familiari delle vittime, e per un attimo durato il tempo di due sentenze sembrò davvero che lo Stato facesse la sua parte. Adesso anche questa pare illusione. Il magistrato torinese giura che non si fermerà. In fondo, dice, «è solo prevalsa a sorpresa una diversa interpretazione del concetto di disastro. Ora si ricomincia con l’accusa di omicidio doloso». Parole che sembrano frutto della sua preoccupazione per la differenza tra le cose della legge e l’enormità di questa vicenda. Le sentenze vanno rispettate. Ma la sensazione che chiude questa giornata è terribile.
Sappiamo che il procuratore generale non è tenuto a leggere le parole di un giornalista, ma ci piacerebbe che l’avesse fatto. Marco Giorcelli aveva 51 anni. Era il direttore del giornale locale. Aveva una moglie, una figlia, amava girare in bici per le nostre colline. Quando scoprì di essere condannato scrisse il suo ultimo editoriale, tenuto nel cassetto fino a dopo la morte. Non conosciamo modo migliore per chiudere questo articolo. «Provo pena per gli imputati, più che rabbia. Per come hanno negato il senso dell’umanità nel nome del profitto, del potere. Certo, noi di Casale Monferrato chiediamo giustizia. Per i nostri morti, per le nostre famiglie sconquassate come se sul nostro cielo si fosse combattuta, nel XX secolo, un’altra guerra. Lunghissima, estenuante. E senza possibilità di difenderci. Un crimine contro l’umanità».

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GRAZIA LONGO, LA STAMPA -
Di amianto non si muore, o meglio si muore, ma poiché l’omicidio non è imputato contestualmente all’accusa di disastro ambientale il colpevole va assolto. Il processo del secolo sulle tremila vittime per l’amianto dell’Eternit, con numeri e drammi esistenziali straordinari, si conclude con una sentenza che ha altrettanto dell’incredibile. La Cassazione, dopo appena due ore di consiglio, prescrive il reato. Nessun colpevole, dunque. La prima sezione penale, presieduta da Arturo Cortese, ieri sera ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Torino che aveva condannato a 18 anni per disastro ambientale doloso l’unico imputato rimasto nel processo, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny. Un verdetto accolto da cori di sdegno - «Vergogna», «Servi dei padroni» - dei parenti delle vittime.
Il ribaltone, del resto, era nell’aria sin dalle prime battute dell’udienza, quando la richiesta dell’annullamento era stata avanzata proprio dalla pubblica accusa, il sostituto procuratore generale Francesco Iacovello. Prescrizione legata alla chiusura degli stabilimenti Eternit, nell’86, a Casale Monferrato, Cavagnolo in provincia di Torino, Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli).
Iacoviello è convinto che non si possa procedere con un verdetto di condanna «poiché nei primi due gradi di giudizio il disastro era slegato dalle morti per amianto».
In effetti per i decessi e relativa accusa di omicidio (da definire ancora se colposo o doloso) il pm di Torino Raffaele Guariniello ha aperto un fascicolo a parte, l’Eternit bis. L’inchiesta è stata chiusa a giugno ma non è ancora stata ancora definita la qualificazione del reato. E qualche avvocato di parte civile non nasconde il rammarico. «Forse oggi non ci troveremmo di fronte a questa prescrizione se Guariniello avesse tralasciato il disastro ambientale a favore dell’omicidio» afferma il legale Ezio Bonanni. Mentre altri suoi colleghi rifuggono le polemiche e guardano al futuro. Come l’avvocato Sergio Bonetto: «Per due sentenze i giudici si sono espressi contro l’imputato. Gli ermellini hanno prescritto il reato? Beh, noi andiamo dritto verso il processo Eternit bis per omicidio. Chiederemo ancora giustizia. In Italia si muore ancora per amianto: ci sono 1.500 vittime all’anno e a Casale si registrano 50 nuovi casi ogni anno».
Ma intanto la Suprema Corte non punisce nessuno. Una scelta anticipata dalle parole del sostituto pg Iacoviello: «È una questione di principio e quindi se un giudice deve decidere tra diritto e giustizia scelga il diritto». Non che Iacoviello pensi che la condanna debba essere cancellata con un colpo di spugna. Anzi, nella sua requisitoria, afferma chiaramente che «per me l’imputato è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte». Eppure le ragioni del diritto vincono su quelle della verità.
E sembra di fare un tuffo nel passato, in quel Paese di Azzeccagarbugli di manzoniana memoria dove i cavilli legali hanno la meglio sull’attesa di giustizia dei comuni mortali. Una beffa amara per i parenti delle oltre 2.800 vittime - tra morti e malati per mesotelioma e asbetosi - che assistono spauriti e interdetti. Sorpresi, interdetti, indignati, calpestati. «Ma com’è possibile? - domanda sgranando gli occhi Giuliana Busto, che ha perso il fratello bancario sportivissimo, mai entrato nella fabbrica della morte di cui ha però respirato i veleni correndo sulla pista ciclabile lungo lo stabilimento di Casale Monferrato -. Tanti anni di battaglie e di attesa e adesso se ne escono con questa assoluzione?».
Opposto, ovviamente il parere degli avvocati difensori. Il professor Franco Coppi insiste sulla questione del diritto: «Il legislatore tutte le volte che ha voluto richiamare la morte come conseguenza di un reato, lo ha fatto. Non lo ha fatto nel caso del disastro ambientale, perché la norma tutela l’esposizione al pericolo del bene della vita, in maniera del tutto svincolata dal fatto che si verifichino o meno morti o feriti». E l’avvocato Guido Alleva, che assiste le società responsabili civili dipendenti da Schmidheiny afferma: «Ci dispiace per i parenti delle vittime, ma il verdetto della Cassazione ristabilisce equità nel diritto. E questo è una garanzia per chiunque».

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MARIA NOVELLA DE LUCA, LA REPUBBLICA -
«È una strage infinita. I nostri cari, i nostri amici, i nostri figli continuano a morire di cancro. Ogni settimana c’è un lutto, l’ultima è stata una ragazza di ventotto anni. Ci stiamo ammalando tutti, hanno prescritto il reato ma la morte non si estingue ». E poi: «Vergogna», «Assassini ». È un urlo forte e terribile quello che risuona nei corridoi della Cassazione, quando il presidente annuncia che l’intero processo “Eternit”, e soprattutto le colpe dell’ultimo dei proprietari della famigerata fabbrica di amianto, l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, sono cadute in prescrizione. Tremila morti di mesotelioma pleurico, tra Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli, e nessun colpevole. Come se quella polvere killer che decimava da Nord a Sud gli operai dei quattro stabilimenti italiani dell’azienda elveticobelga, più le vittime svizzere e francesi, non fosse stata causata dalla lavorazione dell’amianto, ma quasi da una calamità naturale.
«Mia cognata è morta a cinquantacinque anni, tra sofferenze atroci, e soltanto perché lavava le tute del marito, che erano coperte di quel veleno», ricorda tra le lacrime Maria Ottone. Il maxiprocesso Eternit, frutto di 30 anni di ricostruzioni, l’enorme lavoro del procuratore di Torino Raffaele Guariniello, che riuscì a dimostrare come i vertici della multinazionale fossero del tutto consapevoli dei pericoli a cui esponevano gli operai, è stato cancellato ieri con un colpo di spugna, e la complicità dell’oblio del tempo. Perché la tesi del procuratore generale Francesco Iacoviello fatta propria dalla Corte - è che da quel “delitto” sono passati troppi anni. Visto che la “Eternit” chiuse nel 1986, le responsabilità dei suoi proprietari si fermano a quella data, e dunque dopo quasi trent’anni il reato cade in prescrizione. Vanificando così la condanna a diciotto anni di reclusione per disastro ambientale doloso al magnate svizzero Stephan Schmidheiny.
Una sentenza accolta con grida di sdegno o occhi pieni di lacrime dalle associazioni delle vittime arrivate ieri in pullman da tutta l’Italia, ma anche dalla Francia e dalla Svizzera, insieme alle delegazioni di altri morti sul lavoro, i parenti degli operai morti nel rogo della Thyssen. Perché insieme all’assoluzione del padrone delle fabbriche, la decisione della Cassazione cancella anche i 90 milioni di risarcimenti alle 5mila parti civili. Una tragedia nella tragedia. «Ci hanno dato un calcio in pancia — dice Bruno Pesce, portavoce delle vittime di Casale Monfer- rato — l’amianto continua ad ucciderci, come si può prescrivere un reato simile?». Perché quello che raccontano le centi- naia di parenti che per ore hanno aspettato il verdetto della Cassazione, è che a Casale, come a Bagnoli, come a Rubiera, «ogni pochi giorni c’è un lutto, tutto è contaminato, la nostra acqua, le nostre case, e adesso hanno iniziato a morire le persone giovani, abbiamo paura che si ammalino pure i bambini ».
Dunque l’Eternit è una strage negata. Eppure già negli anni Settanta esistevano capillari dossier sulla pericolosità di quella povere bianca, che laddove c’erano gli stabilimenti sembrava una neve malata. E mentre Schmidheiny plaude alla sentenza, chiede che lo Stato italiano lo protegga «da ulteriori processi ingiustificati» e urla al «complotto dei pm di Torino», lo sdegno profondo dei parenti viene amplificato dalla politica. Durissimo il commento di Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte. «Apprendo con sorpresa e disappunto della decisione della Corte di Cassazione di annullare la sentenza di condanna a Stephan Schmidheiny nel processo Eternit. Tutto ciò non può che destare profonda indignazione».
Negli occhi e nelle parole dei parenti delle vittime ci sono lutti che si sommano a lutti. «Ho perso mio padre, mio fratello, mia cognata». «Sono morti mio figlio e altri cinque cugini». Chi lavorava in fabbrica e chi no. A volte i familiari, che entravano a contatto con i residui sugli abiti da lavoro dei loro cari. Ma la cosa più inquietante è che secondo le previsioni la catena dei lutti non è destinata a spezzarsi. «Ci hanno detto che il picco dei tumori ci sarà nel 2025», mormora amaro Nicola Pondrano, ex dipendente della Eternit, «questa non è la prova chiara di un reato che non può essere prescritto? ». E dunque quanti saranno i morti che si sommeranno ai morti, tremila quelli accertati, più i tanti altri già ammalati?
Infatti, «è come se le vittime fossero morte due volte» hanno detto gli esponenti di “Green Italia” Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «Nel caso Eternit il disastro ambientale doloso è un reato continuato, le cui conseguenze durano oggi e dureranno ancora a lungo. Inaccettabile considerarlo come un reato soggetto a prescrizione. È giuridicamente e moralmente indecente la scelta di lasciare impunita l’azione di chi, nel nome del profitto, ha violato sistematicamente la legge esponendo a rischi mortali migliaia di lavoratori e cittadini».
Racconta Antonio, padre di una delle vittime dello stabilimento di Bagnoli: «Gli scarti dell’Eternit venivano buttati senza criterio in una discarica a cielo aperto, poco lontano dalle case. E quintali di residui sono ancora lì, accanto alle scuole, ai luoghi dove giocano i bambini. E sono loro adesso che si stanno ammalando di cancro. L’amianto uccide ancora, ogni giorno».

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GAD LERNER, LA REPUBBLICA
La malapolvere che lacera i polmoni ieri, nel palazzo della Cassazione, ha inferto una ferita sanguinante all’intera giustizia italiana. Mi sento stupido a scrivere di amianto, adesso. Perché tre anni fa c’ero anch’io, monferrino d’adozione, a confidare nel diritto e quindi a implorare l’allora sindaco di Casale Monferrato affinché rifiutasse i 18,3 milioni di euro che l’imputato miliardario Stephan Schmidheiny gli offriva come transazione purché rinunciasse a costituirsi parte civile nel processo Eternit, al fianco di tremila famiglie.
Ci sembrava una mancia offensiva, quella somma, meno della liquidazione di un manager, quota infinitesimale dei profitti miliardari accumulati quando già si sapeva che lo stabilimento intorno a sé spargeva una malapolvere mortale. Avremmo fatto meglio a incassarli — sporchi, maledetti e subito — quei soldi, da un signore svizzero resosi irraggiungibile, dotato di ottimi avvocati e potere extraterritoriale abbastanza per rendersi indisponibile anche solo a un interrogatorio? Davvero tocca rassegnarsi alla giustizia del più forte? Il fatto è che a Casale e nelle verdi colline del Monferrato ne abbiamo visti morire troppi di mesotelioma pleurico, rapiti da una malattia che sopraggiunge improvvisamente colpendo a casaccio fra coloro che anni prima avevano respirato quelle fibre cancerogene, sparse dovunque, a riempire i sottotetti o a imbiancare l’aia della cascina.
LA strage è fatta di nomi e di volti familiari, non c’è abitante di Casale Monferrato che non ne custodisca almeno uno cui rispondere. Bisognava incassare la mancia e rassegnarsi? Cosa avrebbero detto del “patto col diavolo”, della transazione Schmidheiny, il mio collega Marco, direttore del giornale locale; o il mio formidabile amico Renzo, vignaiolo, alpino e maestro nella caccia al cinghiale? Come avremmo potuto guardare ancora in faccia Romana Blasotti Pavesi che ha perso un marito, una sorella, una figlia e due nipoti? Potrei continuare con migliaia di nomi… La dignità esemplare con cui i familiari delle vittime hanno costruito un’associazione rispettosa del diritto, fiduciosa nella giustizia, capace di assumere il ruolo di capofila internazionale nella campagna per la messa fuorilegge dell’amianto, ieri ha subito un’offesa che ci fa sentire, come minimo, ingenui. Umiliati.
Possibile che si sia svegliato all’ultimo minuto prima della sentenza decisiva il procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, nel sostenere in punta di diritto che un disastro ambientale non si consumerebbe a lungo nel tempo? Davvero può fermarsi al 1986 la colpa dell’imprenditore beneficiato di ignominiosa prescrizione, quando la scia di morte ha trascinato via con sé migliaia di vittime nei ventotto anni successivi, e ancora non si arresta? Non suona forse macabro addebitare alle pubbliche istituzioni la responsabilità successiva, riguardante il divieto all’uso dei materiali velenosi e la mancata bonifica, scagionando chi per convenienza economica, pur sapendo, non fermò subito la produzione?
Schmidheiny ha assoldato società di pubbliche relazioni per presentarsi come ambientalista coscienzioso, vittima di una giustizia italiana prevenuta. Intanto sfuggiva a ogni confronto con il territorio violentato dalla sua azienda. Sarebbe stato lecito aspettarsi come minimo da parte sua un cospicuo finanziamento alla ricerca medico-scientifica che tuttora annaspa, povera di fondi, nel tentativo di trovare una cura per il mesotelioma. Invece ha tentato solo il trucco meschino, lo scambio utilitaristico giocato a ridosso della prima sentenza di Torino, quando ha intuito la mala parata: una manciata di soldi in cambio dell’immunità. Cavarsela a buon mercato, di fronte a magistrati che i suoi depistaggi non erano riusciti a fermare. Ci ha pensato la Cassazione, infine. I calcoli di Schmidheiny sulla malagiustizia italiana erano ben riposti, purtroppo. La legge del più forte ha prevalso sulla sofferenza di una comunità civile che per anni ha continuato a inalare le fibre cancerogene della sua Eternit. Nelle alte sfere multinazionali, quelle particelle affilate che lacerano i polmoni non arrivano mai. Il disastro per lui si è fermato al 1986, prescritto. Quel che è successo dopo sono affari del Monferrato. Fesso chi ha creduto, in Italia e nel mondo, che il Codice penale non potesse ignorare gli effetti ritardati dell’amianto.

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FILOMENA GRECO, IL SOLE 24 ORE -
Arriva alle 9 di sera la sentenza della Cassazione nel processo Eternit. I giudici hanno annullato la condanna a 18 anni per disastro ambientale per Stephan Schmidheiny, a capo della multinazionale elvetico-belga specializzata nelle lavorazioni con l’amianto. Reato prescritto, già in primo grado, dicono i giudici. La decisione è arrivata dopo una camera di consiglio durata poco più di due ore e dopo che la stessa Procura generale aveva chiesto, attraverso il sostituto procuratore Francesco Iacoviello, di annullare la sentenza: il reato di disastro ambientale è prescritto, non ci sono colpevoli per una contaminazione ambientale gravissima e per le migliaia di morti causate dalle patologie legate all’esposizione all’amianto. E così cadono anche le richieste di risarcimento per circa 90 milioni di euro accolte in appello.
Un risultato straordinario per il collegio di difesa di Schmidheiny. Una sentenza accolta tra le urla «Vergogna, vergogna» dei familiari delle vittime, ieri in presidio a Roma in attesa della decisione dei giudici, con l’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto (Afeva). «La Corte – scrivono i legali di Schmidheiny in una nota – ha, così, condiviso le argomentazioni degli avvocati della difesa: Stephan Schmidheiny non ha mai assunto un ruolo operativo nella gestione delle aziende e nemmeno nel Consiglio d’amministrazione della società italiana Eternit Spa». Il gruppo svizzero Eternit SEG, diretto da Schmidheiny, aggiungono, è stato il principale azionista della Eternit soltanto per 10 anni, su 80 anni di storia aziendale. «In questo periodo – scrivono – il gruppo SEG non ha mai ricavato alcun profitto dalla sua partecipazione nella Eternit Spa, anzi, tramite aumenti di capitale e prestiti azionari, ha consentito alla società italiana di effettuare enormi investimenti pari a circa 75 miliardi delle vecchie lire al fine soprattutto di migliorare la sicurezza degli stabilimenti».
«Aspetto di leggere la sentenza» commenta a caldo il pm Raffaele Guariniello, il magistrato che ha coordinato le indagini della procura di Torino. Per Sergio Bonetto, che ha difeso i familiari di 400 parti lese, l’Associazione italiana esposti amianto (Aiea) e l’Afeva, «si tratta di una sentenza che assume tutti i limiti legati alla prescrizione di un reato come il disastro ambientale. Ora si dovrà ricominciare dall’Eternit bis, l’inchiesta in capo alla procura di Torino per omicidio colposo sulle morti causate dall’esposizione all’amianto».
Il 3 giugno 2013 era arrivata la condanna in appello per Schmidheiny, rimasto l’unico imputato del processo dopo la morte Jean-Louis de Cartier de Marchienne, condannato in primo grado. Tutta l’inchiesta della procura di Torino aveva ruotato intorno al reato di disastro ambientale permanente, per i siti di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera. Configurazione di reato che non ha retto al terzo grado di giudizio. Lasciando forse un vulnus come sembra chiaro dalle stesse parole del sostituto procuratore generale Iacoviello: «Per reati come il disastro "silente" o "innominato" come quello delle morti per amianto che ha una latenza di decenni, o per l’omicidio stradale servono nuove leggi e l’intervento del legislatore perché non sono più gestibili con le categorie di reato tradizionali».
È il caso della contaminazione da amianto, appunto, e dei suoi effetti su ambiente e salute. L’amianto continua a uccidere, il picco delle morti è previsto per il 2020-2025 e le stime parlano di 4-5mila vittime all’anno per le patologie derivanti dall’esposizione all’amianto, a cominciare dalla più grave, il mesotelioma.

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SILAVIA BAROCCI, IL MESSAGGERO -
Reato prescritto. Annullati anche i risarcimenti. Sul maxi processo Eternit cala il sipario definitivo della Cassazione. Cancellata la condanna a 18 anni che nel 2013 la Corte di Appello di Torino aveva inflitto al magnate svizzero Stephan Schmidheiny, capo dell’azienda accusata di disastro ambientale doloso per aver esposto i lavoratori all’amianto e in molti casi alla morte per mesotelioma pleurico, il lento e devastante tumore ai polmoni cha in quarant’anni ha causato la morte di oltre tremila vittime nelle fabbriche piemontesi di Casale Monferrato e Cavagnolo, in quella emiliana di Rubiera e nella campana Bagnoli. Reato prescritto sin dal primo grado e, di conseguenza, niente 89 milioni di risarcimento alle 983 parti civili, tra familiari e enti locali che si erano costituiti in sede penale. Alla lettura del verdetto da parte del presidente della Prima sezione penale della Suprema Corte, Renato Cortesi, la rabbia dei familiari è esplosa: «Vergogna! Vergogna!». Per un’intera giornata, a centinaia, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, avevano atteso l’ultimo atto del «processo del secolo».
ACCUSA E DIFESA
Ma la speranza di vedere riconosciute le ragioni di una strage che continua e che, secondo stime epidemiologiche, avrà il picco di morte nel 2025, era andata sfumando quando nell’aula magna aveva preso la parola il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello. Perché è stata proprio la pubblica accusa a chiedere l’annullamento senza rinvio della condanna di Schmidheiny per intervenuta prescrizione. Lo ha fatto con argomentazioni lucide e allo stesso tempo appassionate. Quando si parla di «disastro silente che si muove impercettibile nelle cellule umane ed emerge decenni dopo» - aveva esordito Iacoviello - l’effetto è quello di «una serie straziante di migliaia di morti. Per me l’imputato è responsabile di tutte le condotte a lui ascritte, ma il problema è il capo di imputazione». E cioè il disastro ambientale. Che, però, come è a tutt’oggi formulato non può comprendere anche le morti per amianto. Ecco perché la vicenda Eternit deve considerarsi prescritta dal 1998, ossia 12 anni dopo la dichiarazione di fallimento di Eternit del 1986. «Il processo - aveva spiegato il pg tra l’incredulità dei parenti delle vittime - arriva a notevole distanza di anni. E’ vero che la prescrizione non risponde alle esigenze di giustizia, ma stiamo attenti a non piegare il diritto alla giustizia». Dello stesso tenore le argomentazioni del prof Franco Coppi, uno dei difensori del magnate: «Il reato di disastro ambientale non è agganciato alla previsione di morte e di lesioni, tanto è vero che la stessa procura di Torino in altri procedimenti sempre relativi alla vicenda Eternit ha contestato le imputazioni per lesioni e, nel processo Thyssen, addirittura per omicidio doloso».
LE VITTIME E LA PROCURA
Il verdetto è stata una pugnalata per mogli e madri che stringevano al petto le foto di chi non c’è più. «Siamo allibiti - ha parlato per tutti loro Bruno Pesce, coordinatore dell’Associazione Familiari e Vittime dell’Amianto (Afeva) -. Questa sentenza ci dice che non è possibile giudicare un disastro provocato dall’amianto perché è passato troppo tempo e il reato è prescritto. Ma dimentica che l’amianto è una bomba a orologeria a lungo periodo».
Lo sa bene anche il pm di Torino Raffaele Guariniello, che ha visto sgretolare in Cassazione un’accusa che aveva retto sia in primo che in secondo grado. Il maxi-processo Eternit fino a ieri aveva rappresentato la più grande causa mai intentata in Europa e al mondo sul fenomeno dei danni alle persone e alle cose provocati dall’amianto. «Non bisogna demordere. Non è una assoluzione. Il reato c’è», è stata l’immediata reazione di Guariniello. «Abbiamo spazio per proseguire il nostro procedimento, aperto mesi fa, in cui ipotizziamo l’omicidio. Questo - ha insistito - non è il momento della delusione, ma della ripresa. Noi non demordiamo». Tranchant la replica a distanza del magnate Schmidheiny: «L’Italia è l’unico paese che vuole risolvere la catastrofe dell’amianto attraverso processi penali contro singole persone».
Silvia Barocci
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LODOVICO POLETTO, LA STAMPA -
«Vedrete, il processo Eternit non finisce così». E come finirà allora?
Palazzo di giustizia di Torino, ore 17. Il pm Raffaele Guariniello non commenta la richiesta di prescrizione del pg di Cassazione, Iacoviello. Barricato nel suo ufficio aspetta le ultime da Roma.
Eppure nei corridoi di questo palazzo ormai semideserto qualcuno è pronto a giurare che Stephan Schmidheiny sarà chiamato prestissimo in tribunale a Torino. E che, oggi stesso, Guariniello manderà avanti gli atti di quell’inchiesta battezzata «Eternit bis», quella che a luglio si era conclusa con l’avviso di chiusura indagini per 213 morti per amianto. Stiamo parlando di morti targati Eternit, ovvio. E il reato su cui si era lavorato negli uffici del quinto piano non era disastro, ma omicidio. Duecentotredici casi. Forse anche qualcuno in più, perché in questi quattro mesi, a quegli atti, se ne potrebbero essere aggiunti molti altri.
Sarà omicidio volontario, dicono, perché il viatico all’accusa arriverà proprio da quella frase che il Procuratore generale ha pronunciato nella sua requisitoria - «Per me l’imputato è responsabile di tutte le condotte a lui ascritte» - prima di entrare nella disquisizione, molto delicata e poco condivisa, della differenza che c’è tra il diritto e la giustizia: «Concetti che spesso non possono coesistere».
Certo, la scelta di aggredire il «fenomeno amianto» prima ancora di entrare nell’analisi dei casi singoli, delle morti per tumore ai polmoni, provocato dalle microscopiche fibre di roccia, è stata una decisione che in questo palazzo è maturata con fatica. Ma, allora, quando era partita l’indagine, e quello che poi venne chiamato «processo del secolo» era ancora molto lontano, quella era parsa una scelta vincente. E l’unica strada per affrontare giuridicamente il «fenomeno amianto» era quella di contestare il disastro.
Si erano discusse questioni tecniche e procedurali, che in parte si sono dimostrate vincenti. Che hanno portato ad una prima - e consistente - tranche di risarcimenti alle famiglie delle vittime. E che, in fase di sentenza, aveva consentito di quantificare anche le cifre dei risarcimenti ai Comuni e alla Regione. Milioni di euro. Nei paesi della «peste bianca», da Cavagnolo a Casale Monferrato era sembrata la rivincita dopo anni di attesa, dolore e lutti. E qualcuno parlava di «dimostrazione di forza una giustizia che è finalmente vicina alla gente». Tutto questo mentre dalla Svizzera, l’ex re dell’amianto Stephan Schmidheiny, prometteva battaglia, parlava di se come di un mecenate incompreso, mentre il suo avvocato tuonava frasi del tipo: «Con questa sentenza nessuno verrà mai più ad investire in Italia».
E adesso che cosa accadrà? Il processo per i duecento e rotti casi di omicidio sarà una strada lunga, ma in parte già percorsa. Gli accertamenti sono finiti. I nomi delle vittime sono già tutti scritti sui faldoni riempiti con documenti medici che attestano la causa della morte, «mesotelioma pleurico», e montagne di altre carte che raccontano la storia professionale di ognuno negli stabilimenti Eternit. Ma con che tempi, con quali modalità si procederà? Questioni che a palazzo di giustizia di Torino il sostituto procuratore Raffaele Guariniello e il suo collega Gianfranco Colace, inizieranno ad affrontare da oggi.
E la questione del diritto e della giustizia e la loro impossibilità, spesso, di camminare fianco a fianco? In questa giornata di attesa nessuno ne parla. Troppo delicata, troppo filosofica, troppo impegnativa. Soltanto un vecchio avvocato si sbilancia: «Per me hanno sempre camminato a braccetto».

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MICHELE BRAMBILLA, LA STAMPA -
Una sentenza di condanna non avrebbe restituito le migliaia di morti d’amianto ai loro familiari e non avrebbe fatto nemmeno giustizia, perché uno degli imputati è ormai scomparso prima del giudizio d’appello e quello rimasto in vita se ne sta, da tempo, al sicuro in Svizzera; non avrebbe fatto giustizia neppure dal punto di vista economico, perché per una serie di arzigogoli burocratico-giuridici sarebbe stato quasi impossibile far arrivare i risarcimenti dall’estero. Ma un annullamento delle condanne per avvenuta prescrizione è forse la cosa peggiore che ci si potesse aspettare. Per i familiari delle vittime - ma non solo per loro - ha il sapore della beffa. Del colpo di spugna, dell’avevamo scherzato.
Probabilmente, anzi quasi sicuramente, da un punto di vista tecnico l’annullamento delle condanne di primo e secondo grado è ineccepibile. Il procuratore generale, che pur rappresentando la pubblica accusa aveva chiesto esattamente questo epilogo, dice che l’accusa di disastro ambientale non è sostenuta dal diritto e che un giudice, «tra diritto e giustizia, deve scegliere il diritto». Sarà senz’altro così.
C’è però, oltre alla tecnica del diritto, la storia. Ed è quella di una fabbrica che nasce, a Casale Monferrato, nel 1907, in piena sbornia positivista: la scienza che libererà l’uomo da tutte le sue angosce. L’Eternit fa parte di quel mito di progresso, il suo nome stesso è già un surrogato della religione, Eternit come eterno perché questo nuovo mirabolante materiale sfiderà il vento e la grandine, l’usura e il tempo che passa.
Ma la storia prosegue in un grande, tombale - è il caso ahimè di dire così - silenzio: quello che copre le prime inquietudini. Già alla fine dell’Ottocento c’era chi avvertiva che l’asbesto (l’amianto) era pericoloso per la salute. Se non si sapeva, insomma, quanto meno si dubitava. Ma perché fermare il progresso? Quei tetti ondulati che costano poco e durano per sempre? Nessuna precauzione viene presa: nell’archivio dell’Istituto Luce sono conservati i cinegiornali trasmessi prima dei film dei telefoni bianchi, si vedono donne che nella fabbrica di Casale raccolgono senza alcuna protezione bracciate di scarti d’amianto, la parte più micidiale. A metà del Novecento l’allarme si fa più dettagliato e i medici dicono che l’amianto provoca due malattie: l’asbetosi, che ti fa vivere male perché ti toglie il respiro; e il mesotelioma pleurico, un cancro che ti ammazza in pochi mesi.
E però l’Eternit di Casale Monferrato è l’assicurazione sulla vita per tutto il territorio. Un posto sicuro. Un buon stipendio. Serve anche per il dopolavoro: il sabato si può andare in fabbrica e con cento lire ti porti via una carriolata di polvere bianca, ti servirà per fare un vialetto nel tuo giardino, o un campo da bocce, o un campetto di calcio per i bambini, o per coibentare il tetto di casa. Casale e dintorni si riempiono di amianto. La sera gli operai tornano a casa con le loro tute imbiancate, le mogli le prendono e le mettono in lavatrice. Quante persone respirano la polvere maledetta?
È il 1973 quando un operaio, Nicola Pondrano, pone la questione. È stato assunto da poco e ha l’impudenza di chiedere come mai ogni settimana ci sia, all’ingresso della fabbrica, un annuncio funebre. Operai di 45, 50 anni. Che cosa vuoi che sia, gli dicono: è normale che gli operai muoiano giovani. Anche il sindacato gli consiglia di star buono: in quei tempi, il bene più importante è l’occupazione, non la salute. Gli dicono sei matto, vuoi far chiudere la Eternit? Ma lui insiste, coinvolge i medici, poi il sindaco: l’inchiesta finita ieri in Corte d’assise, in fondo, comincia in quei giorni.
Questa è la storia. Migliaia di morti. Non solo fra chi lavorava in fabbrica ma anche tra i familiari: fra coloro che - bambini - furono abbracciati da un papà tornato a casa con la tuta imbiancata, o semplicemente fra coloro che respirarono la polvere trascinata dal vento. Non ci sono dubbi sul fatto che, almeno a partire da una certa data, la pericolosità dell’amianto fosse conosciuta. La giustizia umana è imperfetta, e già era ingiusto che fossero finiti sotto processo solo gli ultimi due proprietari. Adesso arriva pure la prescrizione per l’unico che era rimasto a rispondere di quei morti.
C’è il dovere di rispettare le sentenze. Però c’è anche la libertà di criticarle. O almeno di pensare che ci sia qualcosa che non torna in uno Stato che concede il titolo di commendatore a Romana Blasotti Pavesi - presidente dell’associazione vittime dell’amianto che ha perso marito, sorella, figlia e due nipoti - e poi dice che il diritto è più importante della giustizia.