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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

QUANTE CONTRADDIZIONI SU FINANZA, BANCHE E INFLAZIONE

Un importante giornale economico dedica un’intera pagina ai gravi pericoli che corre il sistema finanziario a causa della sua vulnerabilità informatica da parte degli hacker piuttosto che della sua incapacità di contribuire alla crescita reale, base prima della sua esistenza; sei pagine dopo sostiene invece che l’informatica è lo strumento principale per uscire dalla crisi. Lo stesso giorno i mezzi di stampa sostengono che la Bce deve rispettare l’impegno di un’inflazione prossima al 2% e plaudono alla richiesta dell’Italia di consentire flessibilità nei vincoli europei al disavanzo di bilancio pubblico, il che equivale a invocare una maggiore spesa pubblica e un maggiore indebitamento che sono, insieme ad altri fattori negativi geopolitici, alla base della crisi. Queste sollecitazioni fanno parte dei messaggi contradditori che investono l’uomo comune sui temi della crescita e della disoccupazione, che gli impedisce di orientarsi correttamente nelle scelte individuali e collettive, ivi incluse quelle di chi affidare la cura dei propri interessi. È lecito domandarsi se si può porre ordine a questa confusione. La pluralità dell’informazione sembra impedirlo, ma qualche punto fermo può essere messo.
Partiamo dai tre casi del giorno citati. Se i manager bancari e finanziari ritengono che il maggior pericolo delle loro aziende è l’attaccabilità del loro sistema informatico ignorano che è assai peggiore quello di non saper contribuire alla crescita delle imprese produttive valutandone il merito di credito e prezzandolo adeguatamente. Se si dedicano alla produzione di finanza a mezzo di finanza, che crea profitto per partenogenesi (di cui menano vanto) attraverso scritture contabili o bit informatici, essi negano la ratio che legittima la loro attività di intermediari del risparmio ed espongono i loro bilanci a rischi maggiori degli hacker. Nell’era della moneta scritturale imposta per via legale o accettata volontariamente (come il dollaro o l’euro per usi internazionali) una finanza che non serva la produzione e l’occupazione è una sovrastruttura parassitaria generatrice di un potere di acquisto che espropria il valore aggiunto dell’attività reale (salari e profitti veri) o può essere usata per impossessarsi dei beni produttivi e di ogni altra forma di ricchezza. Vi è un solo modo per evitare che ciò accada: togliere la patente di banca a quelle unità che entro un lasso di tempo stabilito non finanziano l’attività produttiva e impedire alle finanziarie di operare con risparmi raccolti in forma diversa da quella di capitale proprio, cioè di rischio. Quanto più la finanza crea finanza, tanto più è esposta al rischio hacker; quanto più finanzia la produzione, tanto più ha basi solide per rispondere ai suoi debiti. Se a tassi ufficiali prossimi a zero, l’economia reale non cresce, significa che, di fronte alla creazione abbondante di base monetaria, banche e finanza trovano più conveniente fare altra finanza. Più che regole asfissianti alla loro attività, bastano poche regole che riportino la loro attività alla ratio che ne legittima l’esistenza.
La richiesta rivolta alla Bce di portare l’inflazione al 2% appare paradossale, perché questo non è un impegno, ma un tetto massimo da non oltrepassare. È noto che l’inflazione eccita la domanda aggregata perché questa tende ad anticipare gli aumenti di prezzo aumentando consumi e investimenti, riduce il rapporto debito pubblico/pil che assilla molti Paesi e abbassa i salari reali; ma, anche a voler seguire questi dubbi ragionamenti, la dimensione è tale da non potersi attendere grandi risultati dall’inflazione in termini di crescita reale; salvo che non innesti aspettative di aumenti di prezzo crescenti, il che è sempre un male, solo a ricordarci che l’inflazione è una tassa iniqua, che colpisce i poveri e premia i ricchi. Il problema della mancata crescita non può essere affrontato a valle partendo dagli effetti, ma a monte operando sugli investimenti che creano lavoro e su quelli che aumentano la produttività. Siccome gran parte del rischio è stato creato dalle politiche economiche seguite nel mondo e, per quanto riguarda l’Europa viene ancora creato, gli Stati membri e l’Unione Europea devono coprirlo, ben sapendo che se hanno successo, la garanzia fornita non causerebbe una grande spesa. Dovrebbe aver insegnato qualcosa il vantaggio offerto dalla celebre frase di Mario Draghi che sarebbe intervenuto «whatever it takes», che fu sufficiente per far cessare le speculazioni sui debiti sovrani e sull’euro sborsando cifre modeste. Insistere sulla flessibilità o sugli eurobond (o similia) per dare vita a una maggiore spesa statale o europea resta fuori da un quadro di realpolitik. Giusto o sbagliato che sia, gli Stati membri hanno approvato sulla base di una direttiva la clausola del saldo zero con il Fiscal compact ma, se l’Europa vuole rispettare il dettato dei Trattati, deve spendere il 3% per realizzare le grandi opere infrastrutturali o le grandi innovazioni produttive necessarie, dando la garanzia ai bond necessari per consentire al settore privato di attuarle, prevedendo un contributo entro i limiti del bilancio ordinario della Ue qualora il bilancio del project finance non quadrasse. Il problema della spinta esogena necessaria per uscire dalla crisi perde i connotati di un’iniziativa impedita dalla finanza per trasformarsi in uno di scelta di buoni progetti.
Paolo Savona, MilanoFinanza 19/11/2014