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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

PENSANO CHE IO SIA IL RE MIDA

(Intervista a Claudio Cecchetto) –
Claudio Cecchetto ha compiuto 62 anni. Per chi, come me, è nato negli anni ’70 ed è cresciuto davanti a Deejay Television ogni giorno, alle due dopo la scuola, o ha ballato Gioca Jouer alle feste delle medie, poteva essere un incontro un po’ triste, diciamolo. O quantomeno venato di malinconia. Invece no. Perché Cecchetto i malinconici non li ha mai sopportati e in questa intervista ci spiegherà il motivo.
In diretta, il suo libro autobiografico appena pubblicato, è una botta di adrenalina e di energia: racconta una vita vissuta a mille da un ragazzo partito da Ceggia, in provincia di Venezia, che si è inventato un mestiere, il deejay, programmi e canali Tv musicali rivoluzionari (Deejay Television appunto), ha fondato ben due radio (Deejay e Capital), e nella sua carriera ha anche condotto tre Festival di Sanremo (dal 1980 all’82).
Mi accoglie nel suo ufficio a Milano. Le radio le ha vendute, ma la musica resta la sua passione. Non è cambiato molto: i capelli sono sempre lunghi, anche se inframmezzati da qualche cioccia grigia, il viso è leggermente più scavato, con un accenno di pizzo sul mento, ma il corpo è ancora scattante, stretto nei pantaloni attillati. Gli occhi sono gli stessi, veloci, curiosi, a fissare quelli dell’interlocutore. La novità è nel suo modo di parlare: per uno famoso per pronunciare cinque parole al secondo, ha decisamente rallentato.

Ma come faceva a parlare così veloce?
«Mi veniva naturale e funzionava per il ritmo. Non era importante cosa dicevo ma come lo dicevo. A Sanremo, per esempio, c’erano un sacco di regolamenti da elencare: volevo togliermeli il prima possibile. E pensare che a scuola in italiano raggiungevo a stento la sufficienza. Quando poi andavo a fare i provini per condurre, mi dicevano: “Finalmente uno che non sbaglia i congiuntivi”».
Che titolo di studio ha?
«Diploma da perito termotecnico. Poi all’università ho dato una ventina di esami in Scienze delle preparazioni alimentari. Scelsi quella facoltà per il nome spettacolare: appena lo dicevo, dall’altra parte si accendeva l’interesse».
Fin da piccolo desiderava essere al centro dell’attenzione?
«Sono figlio di una casalinga e di un camionista, un uomo ambizioso nel suo genere, che venne a Milano per cercare fortuna. Da bambino ho cambiato sei case in pochi anni, ogni volta dovevo ricrearmi amici, riferimenti. Ma adoravo le star. Ho sempre pensato che se sei una star, significa che sei il migliore di tutti».
Le star ha contribuito più che altro a crearle: Jovanotti, Fiorello, Max Pezzali, Gerry Scotti sono stati lanciati da lei.
«Volevo essere troppe cose e sempre al top, e siccome essere al top in tutto è un casino, identificavo qualcuno per farlo diventare il numero uno nel campo che mi interessava. Tutti i miei artisti rappresentano qualcuno che avrei voluto essere: grazie a loro ho vissuto tante vite».
Come è avvenuto il passaggio da dj e conduttore Tv famoso a talent scout?
«Anche il deejay è qualcuno che si fa rappresentare dal lavoro degli altri, i dischi, e sceglie i migliori. Io ho iniziato a farlo perché volevo far divertire la gente in discoteca e, visto che ero stonato e non sapevo suonare, per riuscirci usavo la musica dei numeri uno. Sono stato molto criticato come dj perché nella stessa sera ripetevo i dischi, ma quando faccio una scelta la spingo al massimo, come con i miei artisti».
Star si nasce o si diventa grazie a persone come lei?
«Si nasce: il talento è un dono, il successo è un mestiere. Lorenzo (Jovanotti, ndr) ha scritto nel contributo al mio libro che ero il suo burattinaio, ma solo perché è una persona intelligente e grata. Le star non sono i famosi ma chi ha una qualità artistica congenita che è come un’aura. Io l’ho sempre vista subito».
Come fa?
«È una questione di concentrazione. Io, che mi annoio facilmente, appena vedo qualcosa di strano, che magari mi dà un certo disagio, ne sono attratto. Allora mi chiedo: ma è strano perché non mi piace o perché è nuovo? La gente non osserva. Probabilmente tutti al mio posto, se fossero stati concentrati, avrebbero capito che Fiorello, Lorenzo erano bravi. Invece tutti i miei artisti arrivavano da me senza essere stati capiti. Anche dopo mezzo milione di dischi venduti con Jovanotti, c’era chi mi diceva: quello non va bene».
Ammetterà che Jovanotti era difficile da capire, all’inizio.
«Non per me. L’ho visto sul palco e mi sono sentito rappresentato, si muoveva da esagitato proprio come me. Negli anni ’80 uscivamo dalla new wave che io ho adorato ma dove tutti erano molto impostati sul palco: figaccioni, mosse. Lorenzo saltava su una gamba, per giunta con quel cappellino buffo, non era lì a fare la rappresentazione teatrale».
Con i suoi artisti lei viveva in simbiosi.
«Non sono mai stato un discografico, uno che lavora con i numeri, i miei artisti sono sempre stati anche la mia famiglia. In Lorenzo vedevo la passione che ci metteva, lavorava 24 ore su 24 e non l’ho mai visto vestito male. Voglio dire che anche quando aveva una maglietta arancione, si capiva che non l’aveva presa a caso nell’armadio ma era stata una scelta, perché era in armonia con il resto. Jovanotti per me è il più grande artista che abbiamo in Italia».
Nel libro racconta anche momenti di difficoltà, come quando a militare ha sofferto di depressione.
«Avevo appena iniziato a lavorare in televisione e continuavo a pensare a quello che mi stavo perdendo fuori. E poi c’erano le regole: che cazzo di vita è quella dove, se stai camminando immerso nei tuoi pensieri, devi scattare sull’attenti e dare le tue generalità se passa un tuo superiore? Stavo male, avevo perso la voglia di vivere. Un generale lo capì e mi mandò prima a casa. Ma il mio era uno stato passeggero, non la malattia. Di indole sono ottimista perché quando ero il tipico adolescente lamentoso, un bel giorno mi sono guardato da fuori e mi sono detto: “Credi che alla gente freghi qualcosa dei tuoi problemi? No. Anzi, se sei così negativo ti staranno alla larga”. E da quel giorno ho cambiato atteggiamento».
La depressione è una malattia da artisti?
«Più che di depressione, nel loro caso parlerei di malinconia. E a volte la malinconia produce anche capolavori. Con un carattere come il mio non credo però sarei mai riuscito a produrre un malinconico. Quando ho conosciuto Pieraccioni, per esempio, mi piacque come comico per la sua aria solare, non saccente. A un certo punto mi disse che cantava. Mi ha fatto sentire i suoi pezzi: erano di una malinconia allucinante, tanto che gli ho detto: “Io ti produco come comico, ma le canzoni no”».
Non avrebbe prodotto neppure Tiziano Ferro?
«Con Tiziano, che è bravissimo, mi succede una cosa strana: ascoltare le sue canzoni mi spaventa. Esprime emozioni così intense che io non ho mai provato e mi prende il panico di essere un arido. Poi guardo mia moglie e i miei figli e mi dico: “Dai, non puoi essere proprio così male”».
Com’è da padre?
«Non so come si faccia il padre, cerco di impararlo dai miei figli. Quello che ho capito è che in una famiglia la mamma è la numero uno, noi uomini siamo solo degli assistenti. Fino a un certo punto della mia vita, non credevo avrei avuto figli: ero troppo preso dal lavoro, e sempre senza una lira in tasca perché reinvestivo nelle radio tutto quello che guadagnavo. Avevo anche un problema medico che mi impediva di procreare. Quando ho conosciuto Mapi (Maria Paola Danna, sposata nel ’92, ndr), che ha 16 anni meno di me, ne abbiamo parlato e lei mi ha detto: “Si può fare”. Ho fatto un piccolo intervento e sono arrivati Jody e Leonardo. Ma anche lì, c’è lo zampino di qualcuno da lassù, la chirurgia non basta».
I suoi figli, che hanno 20 e 14 anni, sanno dei suoi successi?
«Hanno acquisito la mia storia a pezzi. Sono più gli amici, o meglio i genitori degli amici, che sanno e sono attratti da me. D’altra parte un figlio ti vede a casa in mutande, spettinato, abbruttito, in tuta: come può considerarti un mito?».
Come marito invece come si giudica?
«È il successo che mi ha portato fuori casa, io di natura sono un family man. Non mi piacciono gli hotel, la sera voglio tornare a casa».
E le donne? Avrà avuto l’imbarazzo della scelta.
«Siccome ho avuto un’adolescenza con i capelli corti, perché mio padre mi obbligava a tagliarli, faticavo con le ragazze. E quando me li sono fatti crescere e sono diventato famoso, ho fatto un’overdose. È stato come abbuffarsi di pasticcini di cui pensavi di essere goloso, ma poi ti abbuffi e scopri che non ne andavi così matto. Ho sempre goduto più per i successi lavorativi. E poi ne avevo di amici che avevano quella malattia, di dover cambiare sempre donna, e li vedevo messi male».
Droghe?
«Mi davano del cocainomane, l’hanno detto perfino ai miei figli. Ma io vado a mille da sempre e di natura. Quando facevo il deejay in discoteca i ragazzi venivano a chiedermela e quando rispondevo che non ne avevo, dicevano: “E allora come fai a essere così?”. Se ti fai non riesci ad andare in onda in radio ogni giorno. E poi tenevo troppo al progetto di Radio Deejay, che riguardava i ragazzi, uno scandalo per droga avrebbe rovinato tutto».
Un tempo c’erano i talent scout, ora quel lavoro lo fanno i talent show. Li guarda?
«Sto seguendo X Factor con i miei figli. Quest’edizione mi piace molto, apprezzo i giudici. Morgan è un numero uno. Fedez l’ho visto qualche anno fa su YouTube e l’ho chiamato: volevo dirgli che, nel giro di pochi anni, avrebbe riempito San Siro».
Lo farebbe il giudice di un talent?
«Nella prima edizione, in Rai, mi avevano chiamato ma sono stato un po’ presuntuosetto. Non avendo mai visto il format,volevo essere un giudice che partecipasse alla stesura del programma, quindi decisero giustamente che non andavo bene. Poi non se ne è più parlato. Ho in mente un talent che cerchi l’attitudine artistica più che la voce: ormai, come i giovani sono tutti belli, sanno anche tutti cantare. Sarebbe esattamente il contrario di The Voice: prima ti guardo sul palco e poi decido se voglio sentirti cantare».
Fa ancora il talent scout?
«Ancora tanti ragazzi vengono da me, pensano che io sia re Mida. Il problema è che dovrebbe esserci uno come me, ma più giovane. Mi guardo in giro, ma ancora non ne vedo».