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 2014  novembre 14 Venerdì calendario

SCRIVERE, TUTTO IL RESTO È NOIA

Il treno per Ystad viene fermato e svuotato per un laconico incidente. Il bus sostitutivo ritarda. «Qualcuno si è suicidato» mi spiegherà Karl Ove Knausgård, uscendo da un Multivan Volkswagen bianco, più scuolabus che auto. Il Proust norvegese, come da definizione più gettonata, è altissimo, ha due mani grandi come cazzuole da intonaco ed è di una bellezza scarmigliata più da rockstar che da scrittore. «Devo essere a Malmo tra un’ora e mezza per un’altra intervista: possiamo parlare mentre guido?». Gli accordi erano di vederci a casa sua, prendendo appunti su un tavolino e non su un bracciolo sussultante, ma il morto li ha fatti saltare.
L’impresa già titanica di far dire qualcosa di nuovo a uno che a 46 anni ha scritto un’acclamata autobiografia di quasi 3.600 pagine in sei volumi, il cui primo libro Feltrinelli sta per mandare in libreria (La morte del padre, pag.512, euro 20, dopo una precedente edizione di Ponte alle Grazie), diventa ancora più ardua. Come si può pronunciare anche una sola parola inedita sulla morte, la noia o la felicità con una mano sul cambio e gli occhi fissi sulla strada?
Min Kamp, La mia lotta, è un caso letterario raro. Uscito in Norvegia dal 2009 al 2011 ha subito creato un doppio scandalo, prima per l’omonimia hitleriana del titolo, poi per il coming out esistenziale in cui l’autore coinvolge il padre, la nonna, l’ex moglie, l’attuale e una quantità di amici. Quanto al contenuto si tratta di uno smisurato oggetto testuale non identificato (autofiction hanno detto; per lui semplicemente «romanzo») segnato da una abbacinante sincerità al confine con il masochismo e da un gusto quasi patologico per i dettagli apparentemente inessenziali.
Un esempio dalla cronaca di una non esaltante gitina familiare: «Un tafano mi ha punto sulla gamba. L’ho colpito con una forza tale che è rimasto schiacciato sulla pelle. La sigaretta aveva un sapore terribile con il caldo, ma aspiravo ostinatamente il fumo, guardavo la cima degli abeti, di un verde intenso alla luce del sole. Un altro tafano mi si è posato sulla gamba. “Va bene” ho detto alzandomi, ho preso i bastoncini dello zucchero filato di Vanja e Heidi e li ho gettati in un cestino».
Eppure, e qui sta il miracolo, Knausgård riesce, una parola alla volta, a trasformare la banalità della vita quotidiana in un trampolino dal quale spiccare sorprendenti salti conoscitivi, che partono da lui e finiscono per coinvolgere lettori di ogni latitudine.
Un norvegese su dieci (500 mila copie) l’ha letto. La pandemia narrativa ha raggiunto dimensioni tali che alcune aziende hanno dichiarato certi giorni Knausgård free, per evitare che i dipendenti si distraessero troppo discutendone. In America, a fronte di 50 mila copie vendute, la critica è in visibilio. «Uno strano, alterno e meraviglioso libro» per la New York Review of Books; «interessante anche quando ci si annoia» per il New Yorker; «provoca più assuefazione del crack» stando a Zadie Smith. E via incensando.
Ma torniamo nell’abitacolo del Multivan, con l’aranciata lasciata da uno dei suoi figli nel portaoggetti della portiera. La notorietà è venuta con un prezzo personale alto. «La famiglia di mio padre, dopo aver raccontato del suo alcolismo e di quello di mia nonna, non vuole più avere niente a che fare con me», constata. Confessioni che, tornando indietro, non rifarebbe? «Aver detto di una fidanzata con cui sono stato quattro anni che non l’ho mai amata. Per il resto, se ci fossi riuscito, sarei stato anche più sincero».
Mi vengono in mente le lezioni che Foucault tenne a Berkeley sul concetto (in disuso) di parresia, il diritto-dovere di dire tutta la verità, costi quel che costi. La sua prima moglie, che non ha apprezzato di essere trattata come carne da romanzo, l’ha sfidato in diretta radiofonica («Ora siamo in buoni rapporti»). La seconda, Linda Boström, una scrittrice dalla quale ha avuto quattro figli dai 10 anni ai 10 mesi, ha visto riacutizzarsi la sua sindrome maniaco-depressiva.
Nel secondo libro Knausgård confessa di avere avuto fantasie su una cameriera, un’insegnante di musica e una cassiera. «Praticamente di ogni donna che incontro penso come sarebbe andarci a letto. Tutti gli uomini hanno pensieri del genere. L’unica differenza è che non lo dicono. L’innamoramento è un’altra cosa». Scrive: «Incontrai Linda e spuntò il sole». Per uno come lui, introspettivo al limite dell’eviscerazione («Una volta ho riempito per curiosità un questionario psichiatrico sulla depressione ed è risultato positivo»), che sembra ricordare quasi tutte le risate che ha fatto (una fragorosa davanti a una scena di Tempi moderni, a vent’anni), è uno spartiacque: «Uno dei due migliori momenti della mia vita. Da allora ho sempre cercato, senza riuscirci, di ritrovare la felicità che mi aveva invaso e la sensazione di invincibilità che avevo provato».
L’idillio dura sei mesi, poi quella sensazione si attenua «e il mondo svanì di nuovo al di là della mia portata». Risuccede, per un periodo inferiore, quando nasce Vanja. La primogenita gli farà segnare anche un altro record: «Non ho mai provato una noia così assoluta come nei primi tempi che stavo con lei, tutto il giorno, tutti i giorni. Sai che è una cosa giusta, necessaria, il tuo dovere, ma cionondimeno mi frustrava tantissimo». Un sentimento che non è suo monopolio, ma conoscete persone che lo mettano nero su bianco? Gli mancava il tempo per scrivere, soprattutto. Perché è l’unico momento in cui riesce a prendere una distanza salvifica da quel corpo a corpo con le ossessioni che si porta dietro a cominciare dal padre, insegnante e gran filatelico, che lo terrorizzava ben prima di diventare un alcolista.
La nostra conversazione subisce la pausa prevista. Una giornalista norvegese è venuta a intervistarlo per l’uscita di un carteggio di 500 pagine col suo amico Fredrik Ekelund durante il mondiale di calcio in Brasile. Lo pubblica Pelikanen, la piccola casa editrice che ha fondato per autori di nicchia che ama moltissimo (Stig Larsson, omonimo del famoso; Cornelius von Jackhelln, un blogger tedesco; il disegnatore Martin Kellerman) ma che faticano a far quadrare il conto economico. Di quest’operazione, mentre esegue sapienti palleggi di piede e di testa davanti a una fotografa colpita dalla sua fotogenicità, ammette con il consueto candore che gli importa poco, «è una maniera per far cassa».
Di tutta la lunga intervista capisco solo una parola: Minecraft, inteso come il videogioco di cui pare appassionato. E poi Pirlo, uno dei giocatori che preferisce («Cinico, razionale, perfetto»). Quella mattina, prima di incontrarci alla stazione, si era alzato alle tre per scrivere un editoriale in difesa di Peter Handke, altro suo autore, al centro di una polemica feroce per la vicinanza al regime di Milosevic.
Il ritardo originale ne ha generati altri, come in una catena di torti che si sommano. Ha saltato il pranzo ma si è scolato quattro tazzone di caffè fortissimo. Fuma quaranta sigarette al giorno. Giura: «Prima che sia troppo tardi voglio smettere. Me ne sono accorto settimane fa, quando dopo venticinque anni, abbiamo rimesso insieme il nostro gruppo facendo quattro serate in Norvegia. Ci vuole il fisico per quella roba». Pop-rock scandinavo, meno cerebrale del resto che lo riguarda. «Vaffanculo l’integrità è il mio nuovo motto» rivendica, inteso come libertà di fare quello per cui lo facevano sentire in colpa da bambino, come suonare la batteria e giocare a pallone.
Chi ascolta? Ci pensa: «Midlake, Bonnie ‘Prince’ Billy, Boniver, Wilco». Scrittori preferiti? «Gli americani Ben Marcus e Donald Antrim. Mi piace la vostra Elena Ferrante. E, tra i classici, Joyce, Calvino, Cortazar, Borges». Con quest’ultimo sembra condividere l’ambizione di riprodurre, in scala 1 a 1, non tanto la biblioteca totale ma il catalogo esaustivo della vita quotidiana, con le res gestae prosaiche (spingere il passeggino, cambiare i pannolini) che sin qui la letteratura ha attentamente scartato. «È una reazione al minimalismo imperante. Tendo al barocco e vorrei, come certe nature morte fiamminghe del 600, dar voce anche a cose inanimate. Non sottoscrivo affatto la massima giornalistica show, don’t tell. Credo invece che dalle parole, dal discorso intorno alla realtà, scaturiscano nuovi livelli di comprensione».
Alle quattro doveva prendere la figlia a scuola. Parliamo, sbaglia uscita, il ritardo si aggrava. Chiama Geir, l’amico amatissimo (che nel libro coglie il suo talento: «Tu riesci a fare una descrizione di venti pagine su una visitina al cesso e a far venire gli occhi lucidi a chi la legge»), perché avverta la maestra. Quando finalmente arriviamo la bimba, bionda e pallida come te l’aspetti, gli chiede quando è finita la guerra del Vietnam.
Per arrivare a casa sua, a un quarto d’ora dal primo centro abitato («Cercavo la pace, e qui l’ho trovata»), bisogna attraversare un bosco che il buio rende minaccioso. Da un lato tre casupole di legno sono state unite ed è lì che vivono. La moglie Linda, che mi saluta distrattamente, prepara delle polpette tali e quali a quelle dell’Ikea. Il piccolo John fa una fugace apparizione. Attraversando una specie di aia si passa nella casetta-studio. «Non avrà mai visto un disordine del genere» avverte. È come se una banda di ladri sotto anfetamina avesse appena fatto irruzione. Cataste di libri per terra, oltre ai tanti ordinati nella librerie, un paio di bottiglie vuote di vodka o aquavite, il torsolo di una mela. Nella stanza accanto la batteria e la scrivania col portatile. Al lettore che ha ancora negli occhi le lunghe pagine in cui lui e il fratello si imbarcano nella pulizia con Ayax e Klorin della casa del padre senza vita la scena provoca una specie di déjà vu.
Quanto è presente l’idea della morte nella sua vita? «Tutto quel che facciamo è per tenerla lontana, pensarci il meno possibile. Viviamo in uno stato di grande rimozione. La tv ne è uno strumento. Ma anche la spasmodica fuga dalla noia, un vuoto che rischieremmo di dover riempire di pensieri profondi. Così evadiamo da quella presenza forzata a noi stessi compulsando i cellulari, controllando l’email, portandoci virtualmente altrove». Per non dire del paradosso di suo padre, che da vivo sentiva assente e da morto è ogni giorno con lui. È stato il suo buco nero. Da genitore quale suo errore cercherà di non ripetere? «L’imprevedibilità, il fatto che potesse scattare per un nonnulla, senza una logica. Si può dare uno schiaffo a un bambino, ma ci devono essere delle regole».
Nello scaffale più basso della libreria, rischiarato dalla lampada, si vedono un paio di tomi su Hitler: «Ho studiato molto per affrontarlo nel sesto libro. Ed è stata la parte più divertente della scrittura, perché non dovevo parlare di me». A scanso di equivoci, è stato socialista all’università e si considera ancora un progressista. «Il progetto originariamente doveva chiamarsi Argentina, un paese dei sogni, dove avrei voluto sempre andare, e che riassumeva bene la somma dei miei desideri inattuati». Qualcosa mi dice che la storia editoriale non avrebbe preso la stessa piega.
Quindi, riassumendo, la lotta del titolo contro chi è? «Contro la vita che vivevo e non era la mia. Cercavo di farla mia, combattevo ma fallivo. C’era un problema, ma non sapevo quale». Ha cercato di capirlo, tanto fluvialmente quanto temporaneamente, con la scrittura di cui fornisce una definizione memorabile: «Una mano fredda appoggiata su una fronte calda». Non sarà tanto, ma è quello che cerchiamo tutti. Ed è un lenitivo che, chi ha il coraggio di avventurarsi nel mondo ad altissima definizione di Knausgård, trova in quasi ogni pagina.