Massimo Oriani, La Gazzetta dello Sport 19/11/2014, 19 novembre 2014
STANTON. NE’ LEBRON NE’ RONALDO, MA SUL CAMPO GUADAGNA PIU’ DI LORO
«Gene, Carlos, Cruz. Ce ne fosse uno che mi chiama col mio nome...» sospira Giancarlo Stanton, noto anche come Mike. Da bambino tutti si rivolgevano a lui con una serie d’appellativi che lo costrinsero, una volta finite le elementari, a dichiarare ufficialmente che il suo nome era Mike. Salvo cambiarlo in Giancarlo due anni fa. Capita quando hai sangue irlandese, afroamericano e portoricano nelle vene. Ogni antenato vuol lasciare la sua traccia. Ma da lunedì nessuno avrà più dubbi su cosa scrivere sulle lettere che parenti lontani che nemmeno sapeva di avere gli indirizzeranno supplicandolo per un piccolo aiutino: «Mr. 325 milioni (di dollari)».
Differenze Il contratto da 13 anni che l’esterno ha firmato con i Miami Marlins del baseball Mlb hanno fatto di Stanton il giocatore più pagato nella storia dello sport americano. Ma tra lui e gli altri multimilionari stelle e strisce, ma non solo, c’è una differenza chiave: Giancarlo fondamentalmente è un mezzo sconosciuto. Non certo tra gli addetti ai lavori e i tifosi, che sanno benissimo il suo valore. Un battitore mostruoso, dalla potenza disumana. Frustrato dal dover giocare in un impianto che non esalta le sue caratteristiche. E’ anche per questo che erano in molti a fargli la corte. Sino a lunedì. Non cercate la faccia di Giancarlo su un murale di Miami come quella di LeBron a Cleveland. Non lo vedrete in tv a pubblicizzare mutande come Cristiano Ronaldo. O su un cartellone pubblicitario dove vi invita ad indossare Nike. E infatti Stanton non entra nella classifica degli sportivi più ricchi del mondo, perché le entrate extra baseball sono minime. Se James, Bryant, Tiger, Messi, Federer, sono delle multinazionali, Stanton è una fabbrichetta di provincia. I dollari (154.321 a partita) gli entrano nelle tasche solo perché sa colpire una pallina da baseball meglio di chiunque altro. Probabile peraltro, anzi sicuro, che da ieri il telefono dell’agente della superstar sia bollente per le chiamate di potenziali sponsor che faranno di Giancarlo la prossima multinazionale. Ma di solito il processo è al contrario. Non nel suo caso.
PAPà’ Da ragazzino il padre di Stanton, Mike (e ridagli con questo casino dei nomi...) lo chiamava in salotto, lo faceva sedere sul divano e gli mostrava dei Super 8 con le immagini, rigorosamente in bianco e nero, dell’Home Run Derby al vecchio Wrigley Field di Los Angeles (da non confondere con quello storico di Chicago), indicando al figlio come Hank Aaron, il più grande fuoricampista della st+oria, avesse una potenza inaudita nei polsi. «”Che giocatore, guardalo!” mi diceva papà» ricorda Giancarlo, che la scorsa stagione ha intascato 6,5 milioni di dollari. Oggi è lui a mettere in mostra la forza dei suoi arti superiori.
LI VALE? La domanda che sorge spontanea, di fronte a una cifra simile, è «perché? Li vale?». Partiamo da un presupposto: nessuno al mondo vale quei soldi, a meno che non inventi la cura per il cancro o riesca a portare la pace nel mondo. Ma visto che i proprietari delle squadre pro’ non fanno la fame e il mercato si muove in quella direzione, in teoria ci sta che venga pagato così tanto. Altra obiezione: «Ma come, i Marlins sono notoriamente i più tirchi delle Major League e sfondano il salvadanaio per un solo giocatore?». Il proprietario, Jeffrey Loria, ha così risposto: «Ce lo possiamo permettere e gli costruiremo attorno un lineup alla sua altezza». Staremo a vedere. Pare infatti che il contratto sia strutturato in modo tale da pagare Stanton solo 6.5 milioni per il 2015, 9 per il 2016, 14,5 per il 2017. Ma intascherebbe 77 milioni nelle 3 stagioni successive. Se a quel punto decidesse di uscire dal contratto, i Marlins finirebbero col pagarlo «solo» 107 milioni per i prossimi 6 anni. Se invece venisse ceduto, chi lo prenderebbe si accollerebbe il resto dei 218 milioni di dollari che gli spettano. Per ora Giancarlo è tutto dei Marlins. E se lo potranno godere almeno sino al 2020. Entro allora sarà anche lui una multinazionale.