Mirko Graziano, La Gazzetta dello Sport 19/11/2014, 19 novembre 2014
BOBO VIERI: «MI TRATTO’ DA MAFIOSO MA AMERO’ L’INTER PER SEMPRE»
Milano, zona Garibaldi, Christian Vieri, uno dei più grandi attaccanti italiani di tutti i tempi, ci aspetta all’Osteria del Corso, di fatto una sua seconda casa milanese. Sta finendo di pranzare. Con lui gli amici di sempre, vecchi colleghi come Ibrahim Ba e il fratello Max, ex nazionale australiano. Oggi Bobo è un uomo di 41 anni e vive soprattutto negli States, dove è fra i più apprezzati opinionisti di soccer.
Vieri, sta pensando a una carriera da tecnico?
«Presto mi iscriverò al corso allenatori negli Stati Uniti, mi sto informando».
Negli Usa?
«Beh, ormai vivo lì, a Miami».
E per il momento che cosa fa?
«Lavoro a beIN Sports, ho appena rinnovato il contratto per altri tre anni. Sono felice di questa esperienza, il canale è gestito dai padroni del Psg, gente fantastica, mi trovo davvero bene. Abbiamo in esclusiva Serie A, Liga e Ligue 1».
Ogni tanto la vediamo ancora sui campi...
«Sì, mi diverto con Juve Legends e Milan Glorie».
Ha tenuto rapporti con Juve e Milan?
«Sento spesso Andrea Agnelli, grande dirigente. Da quando ha preso in mano la situazione, la Juve è tornata ai massimi livelli, sia in Italia sia oltre confine. Il Milan? Beh, lì mi trattano come se avessi giocato con loro per un decennio, e ringrazio in particolare Alessandro Spagnolo, Mauro Tavola e Flavio Farè».
In futuro non le piacerebbe l’idea di rientrare nel calcio di casa nostra?
«Non è semplice avere l’opportunità giusta, ora vediamo che cosa succede».
Sono passati anni, però in molti, soprattutto fra i tifosi, non hanno ancora capito come si possa essere arrivati a una rottura così dura fra lei e l’Inter.
«È davvero un peccato che sia finita in un determinato modo. Amavo l’Inter, ho dato tutto, mi sono ammazzato per la maglia nerazzurra, ogni giorno. Agli allenamenti ero il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Non mi sono mai tirato indietro e a volte ho giocato nonostante non stessi in piedi. Però, mi dicevano: vai in campo, resta lì davanti anche fermo, che per noi va bene così. E io accettavo, perché ci tenevo davvero, anche a costo di fare figure di merda... Sì, scriva così. Il mio rapporto con Moratti era speciale, forte, decisamente forte. Ci sentivamo parecchie volte durante il giorno, anche alle 3 del mattino, ci confrontavamo su ogni cosa. Mi faceva sentire uno di famiglia. Insomma, stavo bene professionalmente e umanamente, e davo ogni mia energia per la squadra. Capite bene la terribile delusione nel momento in cui è emerso che mi pedinavano e addirittura intercettavano. Cavolo, queste sono cose che si fanno coi mafiosi...».
Ma non ha mai avuto segnali che qualcosa si stesse incrinando con Moratti?
«Diciamo che dopo l’arrivo di Adriano le telefonate con il presidente si erano fatte meno frequenti...».
Della serie: arriva il nuovo campione...
«Ma io so come vanno le cose, in particolare nel calcio. Bastava parlarci direttamente e non avrei avuto problemi ad andarmene in buoni rapporti. C’era aria di rinnovamento e dopo sei anni era forse anche normale puntare su altri giocatori. Ma perché non vedercela fra di noi, in amicizia? Perché cercare la rottura in quel modo? Un giorno dissi: “Presidente, non ti preoccupare, se devo andarmene basta che me lo dici, non ci sono problemi”. E lui: “No, no. L’Inter siamo io e te, le colpe sono sempre nostre per gli altri, le responsabilità ce le prendiamo sempre noi due. Ti voglio al mio fianco...” . Io allora insisto, per essere sicuro: “Davvero presidente, se ci sono problemi...”. Risposta secca: “Va tutto bene!”. Altro che tutto bene quando poi vieni a scoprire di essere intercettato...».
Lei è stato il bomber più prolifico dell’era Moratti...
«Lo so...».
E al momento di rescindere?
«Hanno trattato Ghelfi e Branca con il mio procuratore. Io e il presidente non ci siamo più sentiti...».
E se incontrasse ora Moratti?
«Gli stringerei la mano. E lo abbraccerei anche (sorride con una certa tenerezza, n.d.r.). Lo ringrazierò comunque sempre: mi acquistò a peso d’oro dalla Lazio e mi ha permesso di vivere sei anni meravigliosi, travolto a lungo dall’amore della gente nerazzurra. Penso addirittura che mi amassero troppo. Però mi piaceva essere il loro simbolo, sentivo la pressione ma mi esaltava vederli tanto orgogliosi di me. Mi dicevano: “Con te possiamo fare la guerra a chiunque”. Era bello! Entravamo per il riscaldamento e lo stadio tremava, queste sono sensazioni che vanno oltre ogni trofeo. E solo la gente che era lì in quegli anni può capirlo».
Che cos’è oggi l’Inter per lei?
«Ne ho sentite dire tante in giro, ma io non potrei mai odiare l’Inter, questo sia chiaro a tutti. È impossibile, sono stati i miei migliori anni, mi sono spaccato per quella maglia, ho segnato quasi un gol a partita, ho sofferto, gioito e provato emozioni che non ho mai più avvertito da altre parti. E tutto ciò nonostante le poche vittorie. Quelle emozioni erano uniche, perché vissute in simbiosi coi tifosi. Ancora oggi mi arrivano su twitter foto di me e Ronaldo insieme. Che tempi! Ecco, uno dei grandi rimpianti è non aver giocato più a lungo assieme al Fenomeno. Eravamo i più forti, e che attesa c’era attorno a noi. Mi ricordo Inter-Verona, arrivammo allo stadio un’ora e mezza prima, eppure dentro c’erano già 85.000 persone che urlavano il nostro nome. Roba da brividi, impossibile da spiegare. Comunque, di una cosa vado fiero: ho dato davvero ogni energia per quella gente».
Lei andò via, poi scoppiò Calciopoli: avvertiva qualcosa anche ai suoi tempi?
«No, Juventus e Milan allora erano più forti. Noi sprecammo la grande occasione nel 2002...».
Nella stagione successiva trascinò l’Inter fino alla semifinale di Champions League...
«A proposito di rimpianti, segnai i due gol qualificazione con il Valencia, poi proprio al Mestalla mi feci male al ginocchio e addio doppia sfida col Milan. Ancora oggi non perdono Materazzi e Carew (ride, n.d.r.): mi cascarono addosso e mi ruppero. Incredibile, infortunio assurdo. Eravamo maturi per quella Coppa e io stavo benissimo. Potevamo vincerla».
E sempre un infortunio le tolse il Mondiale 2006...
«Lo sa che non riuscii a guardare nessuna partita degli azzurri? Dio, quanto ho sofferto...».
Cosa provò quando l’immagine di Cannavaro con la Coppa al cielo fece il giro del mondo?
«Ero distrutto, inizialmente evitavo anche solo di pensarci. Mi dicevo: ho faticato per anni, ho segnato 9 gol ai Mondiali e mi perdo il sogno di una vita. Poi, però, nel mio cuore ho gioito con tutti quei ragazzi, compagni di sempre in azzurro: era la nostra generazione, avevamo giocato insieme dai 17 anni in avanti, eravamo stati campioni d’Europa anche con l’Under 21. Certo, quella sera a Berlino era tutto perfetto, mancavo solo io...».
Che generazione!
«La più forte che l’Italia del calcio abbia mai avuto, assieme a quella del 1982. Vincemmo nel 2006, ma forse il top lo avevamo toccato nel 2002».
Amore vero per l’azzurro.
«Ho lasciato l’Australia e la famiglia a 14 anni con due sogni: giocare in A e vestire la maglia della Nazionale. Quasi mi scoppiava il cuore quando Cesare Maldini, un secondo padre per me, mi chiamò in Under 21: prima di ogni gara andavo in bagno e piangevo fra gioia e tensione. Rappresentare il proprio Paese è la cosa più eccitante per me. Io sputavo sangue per la Nazionale, uscivo distrutto dopo ogni gara, non ammettevo altro modo di interpretare certe partite. E quelli che tirano indietro la gamba anche una sola volta, non li farei nemmeno più entrare a Coverciano».
In Brasile è stato un disastro, e molto si è polemizzato sul ritiro aperto a compagne, mogli e fidanzate.
«Dico solo che per quelli della mia generazione il ritiro di un Mondiale era sacro. Saremmo stati noi giocatori a chiedere per primi una totale clausura. Il Mondiale è il torneo dei sogni, fin da bambino, e va preparato senza la minima distrazione. Ogni energia deve essere indirizzata al campo, altro che storie...».
Beh, a proposito di tempi che cambiano, oggi sono mogli e compagne a farsi portavoce dei diritti dei propri mariti, magari attaccando pure gli allenatori. Sappiamo che recentemente lei ha espresso un suo parere attraverso i social...
Ride... «Non voglio andare oltre. Di certo, mai nessuna mia compagna si è permessa di entrare nella mia professione. Non esisteva proprio...».
Vuole dare un consiglio a Balotelli?
«No!».
Oggi la Nazionale è nella mani di Conte.
«Il miglior tecnico giovane d’Europa. Scuola Juve: serio, preparato, carismatico e con una grandissima cultura del lavoro. Mi ricorda Lippi».
Già, però c’è poco materiale, non le sembra?
«C’è scarsa qualità. Bisogna ricominciare seriamente a investire nei vivai. Servono però tecnici ed educatori adeguati. Ricordo le scuole di Atalanta e Torino per esempio, erano all’avanguardia nel mondo. Io devo quasi tutto a Mondonico che mi forgiò fra Toro e Atalanta, oltre a Rampanti, maestro nella Primavera granata. Oggi qualcosa si muove a livello di tecnici: sono felice per il mio amico Inzaghi e aspetto ad alti livelli pure Brocchi (oggi tecnico della Primavera del Milan, n.d.r. )».
Appunto, gente della sua generazione. Chissà, magari sarete proprio voi a far ripartire il calcio italiano.
«Verremo fuori, sicuro: siamo ragazzi seri, generosi, innamorati del calcio e della Nazionale. Le nostre carriere da giocatori sono lì a testimoniare tutte queste cose». Impossibile dargli torto.