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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Giacomo Di Girolamo, Dormono sulla collina. 1969-2014, il Saggiatore 2014, pp. 1272, 24 euro

Notizie tratte da: Giacomo Di Girolamo, Dormono sulla collina. 1969-2014, il Saggiatore 2014, pp. 1272, 24 euro.

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• «Chi dorme sulla collina sono i morti, che enunciano le arti e i mestieri praticati in vita, gli esempi della commedia umana eletti a emblemi della tragedia collettiva».

• «Noi bombe siamo la grammatica della storia patria: Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus eccetera, eccetera, eccetera… come recitava Gaber. E io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore. L’inizio di una strategia. Il peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta dentro di sé. Ore 16 e 37. Banca Nazionale dell’Agricoltura. Diciassette vittime, ottantotto feriti. In televisione, a Canzonissima, Massimo Ranieri canta Se bruciasse la città. Mancano dodici giorni a Natale» (la bomba di piazza Fontana, a Milano. 12 dicembre 1969).

• «Disse la gente: a piazza Fontana forse è scoppiata una caldaia. Ma fu questione di attimi. Poi arrivammo noi, le sorelle minori, a spiegare che non si trattava di un incidente nella storia d’Italia; semmai di un deragliamento. Altra emergenza: una bomba nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Viene fatta brillare. Ma la radio interrompe i programmi, come in una giostra dei gol: 16 e 55. Attenzione, attenzione, qui Roma. Chiediamo la linea: una bomba esplode in via Veneto, all’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro. 17 e 20, c’è una bomba davanti all’Altare della Patria. 17 e 30, bomba in piazza Venezia, quattro persone ferite. Cinque attentati in cinquantatré minuti. E gli italiani a chiedersi: cosa sta succedendo? Qualcosa di organizzato e potente, rispondiamo noi. Mica caldaie» (le altre bombe. 12 dicembre 1969).

• «Io sono l’anarchico, quello morto accidentalmente. No. Io sono l’anarchico che si è suicidato. No. Io sono l’anarchico che hanno visto spingere giù, dal balcone della Questura di Milano. No. Io sono l’unica vittima in Italia di una malattia rarissima, il “malore attivo”, per fortuna non contagiosa. E sono l’unico a essere ricordato nel luogo della morte con due targhe. In una si dice: “Ucciso innocente nei locali della Questura di Milano”. Nell’altra: “Innocente morto tragicamente”. Potrebbero metterne una, a fare sintesi di tutto: “Si apre, per cambiar aria, una finestra e un corpo piomba nel cortile”» (Giuseppe Pinelli, ferroviere. 15 dicembre 1969).

• «Noi parlavamo con il compasso in mano. Siamo stati i grandi architetti della Costituzione italiana. Come ha ricordato il leader del Grande Oriente d’Italia, Gustavo Raffi, al momento di fondare la Carta costituzionale del nostro Paese “tra i settantacinque membri c’erano ben sette, otto massoni e in sede di Assemblea costituente un terzo del totale era composto da componenti della loggia”. Uno ero io» (Meuccio Ruini, politico. 6 marzo 1970).

• «Io, che ho raccontato l’atrocità del male e della morte in guerra, (…) fui il poeta “di chiara fama” di questo porto sepolto, ma, quando ci fu da nominare un senatore a vita, il presidente della Repubblica Saragat preferì Eugenio Montale. Mi venne da pensare questi versi: “Montale senatore / Ungaretti fa l’amore”. Voi, naufraghi senza allegria, mi amate perché ho scritto poesie brevi, che non costa fatica imparare a memoria, a scuola fate riassunti sulla mia vita, copiate analisi del testo già pronte. Sono il più lieve tra gli incubi del vostro esame di maturità. Ecco cos’è oggi un poeta» (Giuseppe Ungaretti, poeta. 1° giugno 1970).

• «Un giorno, il Time mi chiese una biografia. Chiamai Gaetano Afeltra e lo pregai di scriverla lui, quella nota biografica. “Faccia lei” gli dissi. “Le detto solo l’inizio, l’attacco: Rizzoli è uno che se fa pipì in strada, a quell’angolo, nasce un fiore, perché Rizzoli ha culo. È chiaro, ha preso ben nota?” Confondevo Tolstoj con Dostoevskij, perché non ero acculturato. Ma nel capire le cose della vita avevo l’intuito di chi è nato poverissimo e orfano di padre. Dallo storico orfanotrofio di Milano, il Martinitt, uscii nel 1905, con un diploma di tipografo e 850 lire di risparmi. Avevo 16 anni. Impiegai quei soldi per farmi un guardaroba decente e per affittare un sottoscala.
Cominciai a stampare biglietti da visita e le etichette “Manila” per le cassette di frutta. Così nacque l’impero Rizzoli. Valentino Bompiani disse di me che ero più furbo di Mondadori» (Angelo Rizzoli, editore. 24 settembre 1970).

• «Io non lo sapevo, ma entravo in scena per primo: la vittima numero uno delle Br prima ancora che fossero le Br, a Genova. Si chiamava, la banda, XXII Ottobre, quasi la caricatura di un gruppo terroristico. Avevano necessità di soldi, e dovevano fare una rapina. Io ero un fattorino dell’Istituto autonomo case popolari. Il capo della banda, Mario Rossi, il nome più banale d’Italia, e il suo complice Augusto Viel volevano rubarmi la valigetta con i soldi degli stipendi del mese. Solo che dopo lo scippo io ho inseguito i rapinatori, il motore della loro Lambretta si è inceppato. Ero lì per acciuffarli. Allora Rossi ha impugnato la sua Smith & Wesson, una calibro 38, e mi ha ucciso» (Alessandro Floris, fattorino portavalori. 26 marzo 1971).

• «La pillola anticoncezionale era stata scoperta nel 1956, e dal 1961 era in commercio in tutta Europa tranne in Italia. Il bastione ero io, l’articolo del codice penale che puniva con la reclusione “l’incitamento contro la procreazione”. Le donne che usavano la pillola, in Italia, potevano essere arrestate. Quante proteste… Ma Ogino Knaus che male gli aveva fatto?» (l’articolo 553 del codice penale. 31 marzo 1971).

• «1912: Bibliotechina de La Lampada. 1920: Le Grazie. 1921: Enciclopedia dei ragazzi. 1925: Almanacco Letterario. 1926: Le Scie. 1929: I libri gialli. 1932: Medusa. 1932: I romanzi della palma. 1933: I romanzi di cappa e spada. 1933: Collezione dei grandi viaggi aerei e delle esplorazioni. 1934: I classici italiani. 1935: Topolino. 1935: Il cerchio verde. 1937: Omnibus. 1938: il Settebello. 1938: Grazia. 1939: I classici moderni. 1940: Lo specchio. 1947: I classici contemporanei stranieri. 1947: bolero film. 1947: Confidenze. 1949: I libri d’oro. 1950: Universale Ragazzi Mondadori. 1950: Epoca… Erano tempi in cui i libri si vendevano come il pane…» (Arnoldo Mondadori, editore. 8 giugno 1971).

• «Ho fondato, nel 1909, l’unico marchio italiano che da più di cent’anni produce ininterrottamente motociclette. La mia prima moto l’ho costruita a ventidue anni. Poi vennero la Quattro Bulloni 500 e la Otto Bulloni, talmente famosa per i suoi record mondiali da finire pure dentro una canzone degli anni Trenta: “Possente Gilera, tu sei il sogno, tu sei la primavera”» (Giuseppe Gilera, imprenditore. 20 novembre 1971).

• «Il miliardario comunista. L’antiborghese insoddisfatto. Si parlava tantissimo di me, come dei libri che pubblicavo: Il Gattopardo, Il dottor ÿivago. Ero ricco, avevo tutto, ma volevo di più. Capovolgere il sistema, come avevano fatto Che Guevara e Fidel Castro, inventare un’altra vita anche usando la violenza. O forse era solo autodistruzione» (Giangiacomo Feltrinelli, editore. 14 marzo 1972).

• «Cominciò quella giornalista di costume, Camilla Cederna, l’amica di Feltrinelli e degli anarchici. Decise di abbandonare i tic della borghesia milanese per accusarmi della morte di Pinelli: “Un catalogo di bugie dette con disinvoltura”. Continuò Dario Fo con lo spettacolo Morte accidentale di un anarchico. Fecero eco i giornali di sinistra e il leader di Lotta Continua, Adriano Sofri. Alcuni intellettuali chiesero la rimozione dal mio incarico. “Calabresi ritorna in ufficio, / però adesso non è più tranquillo. / Gli operai nelle fabbriche e fuori / stan firmando la vostra condanna, / il potere comincia a tremare / la giustizia sarà giudicata. / Calabresi con Guida il fascista / si ricordi che gli anni son lunghi: / prima o poi qualche cosa succede / che il Pinelli farà ricordar”. Sono morto con due colpi di pistola, uno alla nuca e uno alla schiena, due mesi dopo Feltrinelli» (Luigi Calabresi, commissario di polizia. 17 maggio 1972).

• «Io, (…) studente di Filosofia accoltellato dall’anarchico Giovanni Marini sul lungomare di Salerno. Lui si costituisce subito, ha ucciso un ragazzo. E invece per la sinistra diventa un eroe, perché io ero un “fascista” e “uccidere un fascista non è reato”. Parte la campagna innocentista, fatta di saggi, canzoni, comitati, cortei, slogan (“I veri assassini / han la camicia nera / anarchico Marini / fuori dalla galera”). Fo, Caproni e Moravia gli fanno i complimenti per le poesie scritte in carcere, lo definiscono “il poeta dei folli e dei giusti”. Ha solo tirato fuori un coltello mentre stava litigando con me» (Carlo Falvella, studente. 7 luglio 1972).

• «La nostra sfortuna fu incontrare un sub romano, Stefano Mariottini. (…) Con quelle facce un po’ così, facce di bronzo – la battuta è facile –, potremmo dire che stavamo meglio nascosti nel mare. Fuori, abbiamo fatto di tutto: gli spot, i cartoni animati, i giramondo. Ci hanno poi messo in un museo quasi inaccessibile, senza indicazioni, oppure in uno scantinato, per un restauro che non finisce mai. Ci hanno pescati, acclamati, dimenticati. Non era meglio il mare?» (i bronzi di Riace. 16 agosto 1972).

• «Se volete fare un viaggio nella memoria e nel dolore delle vittime del terrorismo, dovete cominciare dall’immagine più agghiacciante di tutte, la nostra: Virgilio aggrappato alla finestra, noi divorati dalle fiamme che avevano invaso casa. Senza nessuno che ci spingesse via per salvarci la vita. Avevamo 8 e 22 anni, noi, le vittime del rogo di Primavalle, rione popolare della periferia di Roma. Un commando di Potere Operaio voleva punire nostro padre, Mario, ex netturbino, segretario della sezione locale dell’Msi. Appiccarono l’incendio alle tre di notte, dopo aver versato alcuni litri di benzina di fronte alla porta del nostro appartamento. Sei figli avevano, i nostri genitori. Noi non ci siamo salvati. Il giorno dopo, sotto casa, spunta un cartello: giustizia proletaria è fatta. Quale? Uccidere due ragazzi?» (Stefano e Virgilio Mattei, ragazzi. 16 aprile 1973).

• «Dov’è Giulietta, la mamma di Alfredo? E Livia, l’insegnante? Dov’è quel tale, Euplo, dal nome così strano? E Luigi, che era venuto da Foggia? Dove sono Bartolomeo, Alberto e Clementina, Vittorio? L’ex calciatore, la coppia di insegnanti, l’edile appena andato in pensione. Cercateli, cercateli in piazza della Loggia. Erano a una manifestazione contro il terrorismo. Finirono sulle pagine di cronaca, la sillaba del sindacalista che parlava dal palco spezzata nella sua bocca. Io sono la tromba del giudizio, quella che ti lascia senza fiato» (la bomba di Piazza della Loggia, a Brescia. 28 maggio 1974).

• «Sono le 9 e 30 quando due militanti della colonna veneta delle Brigate Comuniste Combattenti, nate da una costola di Lotta Continua, si presentano come simpatizzanti del Movimento Sociale all’ingresso della sede dell’Msi di Padova. Una volta entrati estraggono all’improvviso le P38 munite di silenziatore e ci ammazzano. È il primo omicidio rivendicato dalle Brigate Rosse. Ma per sei anni, anche sotto la spinta di articoli apparsi sul manifesto, l’Avanti!, l’Unità, le indagini seguono la pista nera, e ci considerano morti in un regolamento di conti all’interno della destra. Solo nel 1980 una brigatista pentita, Susanna Ronconi, dirà la verità su quella mattina» (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, agente di commercio e carabiniere in congedo. 17 giugno 1974).

• «Dov’è quel ragazzo, Silver, che faceva il controllore, per pagarsi gli studi all’università? E Tsugufumi, il turista giapponese? Dov’è la famiglia Russo, che viaggiava sempre unita? Cercateli, cercateli su quel treno espresso Roma-Monaco di Baviera. Sono entrati nella galleria di San Benedetto Val di Sambro. Non sono usciti più. Il boato spaventoso, la galleria che avvampa. Io sono la bomba totale, quella che viaggia con te, perché non va in vacanza e ti segue ovunque. “Il vagone dilaniato dall’esplosione sembrava friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzavano su. Su tutta la zona aleggiava l’odore nauseabondo e dolciastro della morte. Le fiamme erano altissime e abbaglianti”» (la bomba dell’Italicus. 4 agosto 1974).

• «Non è la guerra. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa» (Emilio Lussu, politico e scrittore. 5 marzo 1975).

• «Avevamo undici e otto anni. Ci hanno trucidato sul greto di un torrente. Lo capimmo morendo il significato di quella parola, “faida”. A morire in quegli anni furono più di ottanta. Noi, le prime bare bianche. Fate qualcosa, qui si ammazzano tutti, fu l’appello della nostra maestra» (Domenico e Michele Facchineri, bambini. 13 aprile 1975).

• «È bella Milano in primavera, penso, tornando a casa da scuola. Parcheggio il mio vecchio motorino, un Ciao, sotto casa. Vengo aggredito e picchiato selvaggiamente con qualcosa che sembra una spranga. Il commando è composto da otto persone. Solamente due mi colpiscono, gli altri fanno il palo, o bloccano la strada per impedirmi di scappare. Mi colpiscono sul cranio, sempre sul cranio. Sono chiavi inglesi quelle spranghe, pesano tre chili e mezzo. (…) La mia agonia dura 47 giorni. Non avevo fatto sgarbi a nessuno, non avevo torto un capello a nessuno. Avevo solo condannato, in un tema a scuola, l’uso della violenza da parte delle Brigate rosse. La mia storia fa ancora paura» (Sergio Ramelli, studente. 29 aprile 1975).

• «Lo studente ucciso per motivi estremamente futili: io. Indossavo eskimo e jeans, avevo barba e capelli lunghi. Agli occhi dei militanti di destra che erano in piazza San Babila, a Milano, ero dunque un comunista» (Alberto Brasili, studente. 25 maggio 1975).

• «Sono stata un mito. Elio e le Storie Tese mi hanno dedicato una canzone: “Come faranno quattro elefanti a stare in una Cinquecento? / Due davanti e due di dietro. / Come farò a far l’amore in Cinquecento, / con te davanti e il cambio dietro…”» (la Fiat 500, autovettura. 4 agosto 1975).

• «Una 127. Posteggiata in via Pola. Dall’auto giungono dei lamenti. Attirano l’attenzione dei passanti. Con l’intervento di un metronotte viene aperto il baule dell’auto. L’immagine che si presenta agli occhi dell’uomo è sconvolgente: due donne nude, coperte di sangue. Siamo io e Donatella. Donatella è ancora viva. (…) Negli anni Settanta tutto assumeva connotazioni politiche. Ma non ci sono parole né spiegazioni logiche per raccontare quelle 36 ore di violenza – due notti e un giorno –, sopraffazione e morte al Circeo» (Rosaria Lopez, studentessa. 30 settembre 1975).

• «È tutto così assurdo, senza logica. Sono stato assassinato da un commando di terroristi vicini alle Brigate rosse mentre stavo per aprire la sezione del Movimento Sociale Italiano nel quartiere di Prenestino, a Roma. La mia morte fu voluta “per incutere terrore ai militanti di destra”. Nessuno è stato mai punito. Come per altri giovani attivisti missini degli anni Settanta. Eravamo morti di serie B, non valeva la pena indagare troppo a fondo. E poi, uccidere un fascista non è reato, ed era normale che i terroristi di sinistra avessero il loro battesimo del fuoco sparando su ragazzini inermi davanti la sezione dei nemici…» (Mario Zicchieri, studente. 29 ottobre 1975).

• «E io? che non c’entravo nulla? Se la violenza politica è assurda, quella che colpisce per errore come si può definire? I neofascisti organizzano una ritorsione per vendicare la morte di Mario Zicchieri, mi scambiano per un dirigente di Lotta Continua. Mi uccidono sotto casa. Non facevo attività politica. Mi piacevano altre cose, per esempio andare al cinema» (Antonio Corrado, disoccupato. 29 ottobre 1975).

• «Io sapevo. Ma non avevo le prove. Non avevo nemmeno indizi. Voi adesso sapete. E avete anche le prove. Eppure state muti» (Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista. 2 novembre 1975).

• «Nella mattina di quella domenica non ci sono partite, ma la silenziosa custodia di un uomo morto, vicino alla foce del Tevere, in questa landa desolata con qualche bassa costruzione tra strade dissestate e pozze fangose. Muore così un poeta? Io so. L’omicidio e il colpevole» (un campetto di calcio. 2 novembre 1975).

• «Non fate l’antimafia con in bocca i nomi delle vittime. Fate l’antimafia per i vivi. (…) Liberatevi dagli slogan: “Chi ha paura muore ogni giorno”, “Un giorno questa terrà sarà bellissima”, il “Fresco profumo di libertà” tanto caro a Paolo Borsellino, e via dicendo. (…) C’è una persona che potrebbe spiegarvelo cos’è, davvero, il fresco profumo di libertà. Si chiama Giuseppe Gulotta. È stato accusato, ingiustamente, della strage di Alcamo Marina, quella in cui, il 27 gennaio 1976, siamo stati trucidati. Gulotta, che non c’entrava nulla, fu scelto come capro espiatorio. Aveva 19 anni. È stato dichiarato innocente dopo 22 anni di carcere e 36 anni di calvario giudiziario. La sua storia interroga molta parte dell’antimafia di questo Paese. Perché tra gli uomini che lo torturarono, che lo costrinsero a firmare una dichiarazione falsa, che si girarono dall’altra parte di fronte alla sua richiesta di aiuto, ci sono nomi che nell’antimafia ci hanno fatto carriera. E perché ad Alcamo Marina si intrecciano tanti misteri – ancora oggi non risolti – del nostro Paese. Ecco, se volete capire cos’è il fresco profumo di libertà dovete chiederlo a lui, al risorto Beppe Gulotta. Lui sì che lo sa. Altrimenti continuate a fare l’antimafia che ha in bocca i nomi dei morti, ma che si dimentica i vivi» (Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, carabinieri. 27 gennaio 1976).

• «Sono considerato il caposcuola della cardiochirurgia italiana. Tra i miei pazienti illustri anche Palmiro Togliatti. Lo salvai io quando un giovanotto, Antonio Pallante, gli esplose contro tre colpi di pistola mentre lui e Nilde Iotti uscivano da Montecitorio. Il segretario del Pci si ristabilì prontamente. Il mio conto fu particolarmente salato. Quando consegnai a Togliatti la busta con il saldo del mio onorario, lui mi disse: “È denaro rubato”. Replicai, gelido: “Grazie. La provenienza non mi interessa”» (Pietro Valdoni, chirurgo. 23 novembre 1976).

• «Le Br mi uccisero insieme a due uomini della scorta, mentre camminavo verso casa su un caruggio in salita, sotto un sole cocente. Fui il primo magistrato assassinato dalle Brigate rosse. (…) Nei cortei del ’77 risuonò tante volte lo slogan “Coco Coco, è ancora troppo poco…”: quelli erano gli uomini, e i tempi. Mia moglie, dopo qualche anno, dovette telefonare personalmente al presidente della Repubblica Leone per farsi riconoscere la pensione: “Per favore, ho tre figli, dobbiamo pur mangiare…”. Per favore, aggiungo io, dopo tanti anni, è possibile sapere i nomi di chi mi ha ucciso?» (Francesco Coco, magistrato. 8 giugno 1976).

• «Mi uccisero di sabato, sotto casa, ultimo giorno di lavoro prima delle ferie. Stavo andando in tribunale e mi trovai davanti due uomini armati di una mitraglietta Ingram: gli estremisti di destra Pierluigi Concutelli e Gianfranco Ferro. Ero titolare delle inchieste sulla P2 e la formazione fascista Ordine Nuovo. Nel 1973 ne avevo ottenuto lo scioglimento, e non era stato facile. A ottobre ci sarebbe stato un nuovo processo, per accertare i legami tra neofascisti, logge segrete, servizi deviati. Trentadue giorni dopo il procuratore Coco a Genova, cadeva il secondo giudice per mano terrorista in Italia. Ma stavolta è una mano nera» (Vittorio Occorsio, magistrato. 10 luglio 1976).

• «Noi eravamo giorni di festa, segnati di rosso nei calendari degli italiani. San Giuseppe, il 19 marzo. L’Ascensione, il Corpus Domini, i santi Pietro e Paolo del 29 giugno, la festa delle Forze armate del 4 novembre, san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, il 4 ottobre. Un decreto legge ci tinse del nero dei giorni normali. Era l’austerity» (le feste. 5 marzo 1977).

• «C’è una foto che diventerà il simbolo del ’77 e del terrorismo in Italia: tre ragazzi con la faccia coperta da un fazzoletto. Uno punta verso la Polizia la P38, gli altri due scappano. Da un corteo di Autonomia operaia si staccano alcuni giovani che sparano ad altezza d’uomo. Io vengo colpito in faccia da una pallottola che sfonda la visiera del casco. Avevo 25 anni e una moglie incinta. Un ragazzo muore, altri diventano assassini. Uno di loro, Maurizio Azzolini, adesso è capo di gabinetto del vicesindaco di Milano. Ma davvero si può fare tutto in nome dell’oblio?» (Antonio Custra, poliziotto. 14 maggio 1977).

• «Il bar che frequentavo, l’Angelo Azzurro, era considerato un covo dei neofascisti, ma non era vero. Un gruppo di militanti decise di prendere d’assalto il bar durante una manifestazione organizzata a Torino il giorno dopo l’uccisione di Walter Rossi. Lanciarono una molotov. Io mi chiusi nel bagno, per paura. Ne lanciarono un’altra. Mi colpì in pieno. Mi accesi come una torcia. Mi spengo io, si spegne il ’77. Finisce il Movimento, comincia la vera lotta armata» (Roberto Crescenzio, studente. 3 ottobre 1977).

• «Acca Larentia era il nome della madre di Romolo e Remo. In via Acca Larentia ci hanno pianto in silenzio le nostre madri. Rimane come traccia un volantino: “Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga…”. E il senso di qualcosa che cambia, in peggio. Nella guerra tra rossi e neri, che una lite finisse in tragedia era già successo. Ma mai si era visto un agguato pianificato e rivendicato con estrema cura. Molti neofascisti, dopo il nostro eccidio, abbandonano il Movimento Sociale Italiano, a cui davamo tutto, ma che non ci proteggeva mai, per scegliere la lotta armata» (Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Stefano Recchioni, studenti. 7 gennaio 1978).

• «Sei fai il poliziotto – se sei un poliziotto – in quel Paese tragico che è l’Italia alla fine degli anni Settanta, sei solo il nemico di qualcuno. Per sapere di chi, basta pensare. Nel calendario c’è una data, pronta e muta, che ti aspetta. La mia fu stabilita dai terroristi di Prima Linea, il giorno in cui tentarono di assaltare il carcere di Firenze per fare evadere alcuni detenuti. Tra gli organizzatori del piano c’era uno degli esponenti di spicco di Prima Linea, Sergio D’Elia. Prima lo condannano a trent’anni. Poi riducono la pena a venticinque. Poi la pena è dimezzata ancora. Dopo dodici anni è scarcerato. Nel 2006 è eletto deputato. (…) Nessuno tocchi Caino, certo. Ma perché continuare a infierire su Abele?» (Fausto Dionisi, poliziotto. 20 gennaio 1978).

• «Abele sono io. Un notaio di provincia, assassinato dalle ronde proletarie durante un’incursione nel mio studio nel centro di Prato per un esproprio. Quando si presentarono davanti alla mia scrivania, pensai fosse uno scherzo. (…) Abele è mia moglie, che il 6 febbraio 1980 lascia un biglietto – “Così non posso più vivere” – prima di distendersi sul letto e spararsi un colpo alla tempia» (Gianfranco Spighi, notaio. 7 febbraio 1978).

• «Nel 1977 ci sono stati in Italia 1338 attentati, 23 morti, fra cui tre studenti, la gambizzazione del giornalista Indro Montanelli. Lo Stato ha affidato al generale Dalla Chiesa la creazione delle carceri speciali: all’Asinara, a Favignana, a Cuneo… E io ero un suo collaboratore. Non avevo paura. Non avevo scorta. Non sapevo che per le Br “anche la semplice funzione di servizio va punita con la morte”» (Riccardo Palma, magistrato. 14 febbraio 1978).

• «Qualcun altro preferiva chiamarmi “governo di unità nazionale”, o “alternativa democratica”. Questa mattina il presidente Aldo Moro deve fare comunicazioni importanti e vuole essere puntuale. In Parlamento si presenta il nuovo governo che prevede anche l’appoggio esterno del Partito Comunista guidato da Enrico Berlinguer. È lo sdoganamento dei comunisti in un grande paese europeo. (…) Ma al Parlamento Moro non ci arriverà mai. Lui scompare e il quadro si stabilizza. Il Pci viene emarginato, a beneficio del Partito Socialista Italiano dell’emergente Bettino Craxi. La Democrazia Cristiana resterà al governo fino alla rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli. Io rimango un’utopia» (il compromesso storico. 16 marzo 1978).

• «In quell’incrocio dove sono morti degli uomini e una certa idea di Paese sono successe cose. Cose che voi non sapete. Che voi non capite. Nella storiaccia di via Fani si agitano fantasmi. Ogni tanto veniamo fuori: una lettera anonima; un agente dei servizi che avrebbe scortato i brigatisti sino al luogo dell’azione; una moto che prima non c’era; l’ombra di un uomo che nessuno ha visto; il poliziotto che racconta: non mi hanno fatto indagare; l’altro che dice: hanno insabbiato alcune prove; un pentito che dice che c’erano degli affiliati alla ’ndrangheta; le confessioni di un sedicente agente segreto» (i fantasmi di via Fani. 16 marzo 1978).

• «Sono stato doppiamente prigioniero e doppiamente giustiziato. Prigioniero e vittima delle Brigate Rosse, certo, che mi rapirono e mi uccisero per fermare il processo politico democratico e attaccare il cuore dello Stato. Ma prigioniero e vittima dello Stato. Dello Stato che non mi volle né trovare, né salvare. Fui prigioniero di Mario Moretti e dei suo compagni aguzzini, ma anche del potere che aveva in pugno le indagini e che nutriva, come le Br, un identico odio politico per la nuova stagione che avrei rappresentato. Lo sapevano tutti dove mi nascondevano, Andreotti, Cossiga e tanti altri, ma nessuno ha fatto nulla per salvarmi. Con me muore ignominiosamente la Repubblica» (Aldo Moro, politico. 9 maggio 1978).

• «Parcheggiata come un segnaposto del Monopoli in via Caetani, perché è a metà strada tra piazza del Gesù e via delle Botteghe oscure. Tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista. Aprite l’ampio e confortevole bagagliaio. Ci può stare anche una persona sdraiata, volendo» (l’auto del signor Bartoli. 9 maggio 1978).

• «Stupire, non ho stupito nessuno. E nulla ho fatto per attirarmi la simpatia della folla, il suo calore. Non ero mica Roncalli. Mi chiamavano Paolo il Mesto, altro che Paolo VI» (Paolo VI, papa. 6 agosto 1978).

• «C’era questo operaio, Francesco Berardi, che lasciava opuscoli inneggianti alle Brigate rosse vicino alla macchinetta del caffè all’interno dello stabilimento Italsider di Cornigliano. A me, che ero suo collega, ed ero anche un sindacalista comunista, è sembrato giusto denunciarlo. È la prima volta che accade: un operaio che denuncia un operaio per attività filoterroristiche. Lo so, ci vuole coraggio. (…) Era un giorno d’ottobre del ’78. Berardi fu processato per direttissima. Io ero l’unico testimone d’accusa. Fu condannato, e si suiciderà in carcere.
Temendo per la mia vita, alcuni compagni operai mi fecero da scorta per un po’ di mesi. Non bastò a salvarmi» (Guido Rossa, operaio. 24 gennaio 1979).

• «Qui sulla collina dormono insieme il gioielliere e il macellaio. Alza la saracinesca. Aspetta la clientela. Chiudi la saracinesca. Conta il guadagno, togli le spese. E il giorno dopo si ricomincia. Il milanese e il veneto, abituati a difendersi da tutto, ma non sempre. Uccisi dai Proletari Armati per il Comunismo in segno di solidarietà alla “piccola malavita” che “con le rapine porta avanti il bisogno di giusta riappropriazione del reddito e di rifiuto del lavoro”. Eravamo in guerra e non lo sapevamo» (Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, gioielliere e macellaio. 16 febbraio 1979).

• «“E mo’ e mo’ e mo’ e mo’ Moplen!” diceva Gino Bramieri al Carosello. Era la réclame del polipropilene isotattico. Non è uno scioglilingua, ma l’invenzione che mi è valsa il Nobel della chimica, nel 1963. L’industria petrolchimica italiana è nata grazie a me» (Giulio Natta, chimico. 2 maggio 1979).

• «La mia proposta di chiudere i casini fu contestatissima – mi accusarono di bigottismo, ero il bersaglio preferito della satira e degli sfottò – ma con la sua promulgazione, il 20 febbraio 1958, si chiudeva un’epoca. Alcuni soldati mi scrissero: “E noi con la sua legge adesso come faremo?”. Risposi: “Siete giovani, fate la corte alle ragazze”» (Lina Merlin, politica. 16 agosto 1979).

• «Ogni giorno, sulle pagine del Corriere, (…) racconto il tiro al bersaglio da parte dei terroristi, senza strillare, cercando di capire. Chissà a chi toccherà la prossima volta, commentavo giusto ieri. “Non sono samurai invincibili” è il titolo di uno dei miei ultimi articoli. Sei colpi di pistola, mentre sto per prendere la macchina in garage. Orecchio, schiena, spalle, gambe. Punteggiatura su un corpo straziato, ecco cosa scriverò oggi. (…) A darmi il colpo di grazia fu un giovane, Marco Barbone. Aveva 22 anni, poteva essere il mio fratello più piccolo. Dopo pochi anni di carcere, si è convertito al cattolicesimo, è entrato in Comunione e Liberazione ed è responsabile della comunicazione della Compagnia delle Opere. Scrive articoli per un settimanale, lui, che ai giornalisti sparava» (Walter Tobagi, giornalista. 28 maggio 1980).

• «Sono morto davanti agli occhi di mia moglie, Germaine, china sul mio letto di malato. Siamo stati legati quasi cinquant’anni, dall’espatrio a Parigi al confino sull’isola di Ponza, dalla Resistenza alla Costituente. E poi la lotta politica nel Pci, nostra figlia Ada, la sua morte. Quando il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, aprì il mio testamento, tutti si aspettavano chissà cosa, dal padre nobile dei comunisti italiani. Cinque pagine, scritte a penna. Non trovarono nulla: solo Germaine. Tutto. Non un riga sul partito, sulla politica, sul Paese. Tant’è che Berlinguer disse ai suoi: non diffondete questo testamento, non rendetelo pubblico, è troppo intimista» (Giorgio Amendola, politico. 5 giugno 1980).

• «Io ho tentato l’impresa di una lettura del terrorismo nero. Come Vittorio Occorsio. (…) Fui ucciso (…) dai terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari, mentre aspettavo l’autobus per andare in tribunale. Erano le otto, avevo chiesto che mi venisse a prendere un autista con la blindata della Procura. Non è possibile, mi risposero dal centralino, l’autista entra in servizio alle nove» (Mario Amato, magistrato. 23 giugno 1980).

• «Io sono un urlo così forte da rompere il vetro degli orologi, quella “cosa straziante” da fare dire al presidente partigiano: “Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”. E chi è stato? Si sa. È stata la caldaia no sono stati i fascisti no è stato un incidente no è stata una sigaretta no sono stati i libici no sono stati i servizi segreti no è stata una fuga di gas. La verità deraglia dal suo binario, slitta» (la bomba della stazione di Bologna. 2 agosto 1980).

• «È il 17 febbraio quando alle 8 e 20 di mattina vengo assassinato dalle Brigate Rosse sotto casa. Una raffica di colpi di pistola e di fucile al volto e al corpo. Avevo denunciato gli infermieri che sabotavano l’ospedale per fare vedere che il sistema era marcio. Vado a fare un giro in ospedale, dissi ai miei uscendo da casa. E non tornai più» (Luigi Marangoni, direttore sanitario. 17 febbraio 1981).

• «Passò di tutto sopra la mia morte: il presidente della Repubblica, la Rai, diciotto ore di diretta televisiva, una veglia lunga sessanta ore, un dolore collettivo. E ancora: volontari, fantini, nani, acrobati, come al circo. Donne con il fazzoletto in mano che piangono, carabinieri, preti, porchettari, una folla che aspetta. E un pompiere, un minuscolo speleologo che sette volte mi afferrò la mano. E sette volte la sentì scivolare via. L’ultima fu quasi una carezza» (Alfredino Rampi, bambino. 13 giugno 1981).

• «Chiamatemi per esteso: Propaganda 2. P2 sembra il nome di una targa condominiale. Ero una loggia segreta, appartenente al Grande Oriente d’Italia, nata pochi mesi prima della strage di piazza Fontana a Milano, quando a un quasi sconosciuto imprenditore toscano di Pistoia viene chiesto di “operare per l’unificazione delle varie comunità massoniche per fare cadere le preclusioni esistenti con il mondo cattolico”. L’imprenditore è Licio Gelli. (…) Io sono sempre esistita. Ero la loggia dove venivano trasferiti i grandi esponenti della politica quando la massoneria era la religione di Stato» (la P2, loggia massonica. 25 gennaio 1982).

• «“Palla al centro per Müller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile, evviva è finita! Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo!”» (la Germania. 11 luglio 1982).

• «Voi non lo sapete, ma la prima trattativa Stato-mafia alla luce del sole avviene proprio durante i Mondiali di Spagna. Per liberare Ciro Cirillo, l’assessore regionale che era stato rapito dalle Br, la Dc fece quello che con Aldo Moro non aveva voluto fare: scese a patti con la camorra di Raffaele Cutolo, che si offrì per la mediazione, e con le stesse Br. In cambio della liberazione di Cirillo l’accordo prevedeva: una fetta dei lavori della ricostruzione in Irpinia agli “amici imprenditori” che avevano partecipato alla colletta per dare i soldi alle Br; il trasferimento di alcuni camorristi in carceri migliori; una percentuale a Cutolo sugli appalti. E un elenco segreto di persone che Cutolo consegnò alle Br perché fossero eliminate fisicamente. In quell’elenco c’era il mio nome. Conoscevo vita, morte e miracoli dei clan della camorra, ed ero la spina nel fianco di Cutolo» (Antonio Ammaturo, vicequestore. 15 luglio 1982).

• «Che bella la luna, la sera, a Frattaminore, vicino a Napoli. (…) Quando i sicari della camorra mi uccidono, è la luna l’ultima cosa che vedo. Ci sarà giustizia, è l’ultima cosa che penso. La gente si ribellerà. Ma quella sera muore anche il generale Dalla Chiesa. Orrore supera orrore, e il mio omicidio non impressiona nessuno» (Andrea Mormile, poliziotto. 3 settembre 1982).

• «Tra la vita e lo Stato, scelgo lo Stato, fino in fondo. (…) Ero penetrato davvero in tutto l’indicibile della storia italiana, ero un archivio vivente della mafia e del terrorismo. Mi mandarono a Palermo per morire. Da sovversivo. Andreotti non c’era al mio funerale. “Preferisco andare ai battesimi” rispose al giornalista che chiedeva conto della sua assenza. Lo Stato, fino in fondo» (Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale. 3 settembre 1982).

• «Sono stato il primo geniale comunicatore politico. Per farmi eleggere sindaco regalai a tutti i napoletani una scarpa. E la seconda? mi chiesero. Quella ve la darò non appena sarò eletto. Fu un plebiscito» (Achille Lauro, armatore. 15 novembre 1982).

• «Io sono Giuanìn, che per primo sfidò la Eternit. Ero un operaio vittima delle polveri d’amianto. E denunciai la fabbrica piemontese dove lavoravo. Ero un mangiapolvere. Ho respirato giorno dopo giorno, per anni, con altri tremila come me, la polvere di amianto e cemento. Era dappertutto, la mangiavamo anche in mensa. Non solo operai, anche impiegati, semplici cittadini. Perché a Casale Monferrato, per decenni, per morire è bastato respirare. La foto del mio arrivo in tribunale per testimoniare, su una barella, con la cuffia in testa, una coperta addosso, quasi in agonia, finì sul giornale. Avevo la febbre a trentanove, e solo 58 anni. Il cancro ai polmoni a Casale non era un caso o una maledizione o una coincidenza, ma una condanna legata al lavoro: i polmoni si riempiono di polvere, e poi si soffoca. Quel giorno in udienza parlai con un filo di voce, tremavo come una foglia. Ma da quello stesso giorno nessun poté fare finta di nulla» (Giovanni Demichelis, operaio. 21 febbraio 1983).

• «Io sono il primo militare italiano caduto dopo la Seconda guerra mondiale. Anch’io avevo delle idee, anch’io volevo essere uomo, finire l’università, girare il mondo. Anch’io avevo vent’anni. C’è chi muore nella guerra civile intestina d’Italia tra rossi e neri, o tra l’antistato e lo Stato. E poi ci sono io, che sono morto in una guerra vera, in Libano. Solo che la mia guerra si chiama “missione di pace”. Forse è anche per questo che mi colpiscono alla schiena. In una guerra vera l’avversario ce l’hai di fronte. Nelle missioni di pace il nemico è alle spalle» (Filippo Montesi, militare. 22 marzo 1983).

• «Io sono il sovversivo che ha inventato il pool antimafia. Piersanti Mattarella. Gaetano Costa. Pio La Torre. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Stavo per chiudere il cerchio: mandanti ed esecutori, un’unica regia. Avevo paura per me, per i miei giovani colleghi, Falcone e Borsellino. “Papà Rocco” mi chiamavano. Facevo il giudice a Palermo. E invece era Beirut. Fecero una strage. Per la prima volta la mafia abbandonò la lupara o la P38 o quella tempesta di fuoco che chiamavano “pocket coffee”. Cento chili di tritolo. Con l’asfalto, i marciapiedi, le auto parcheggiate, lo strazio di altri corpi. Totò Riina era a poche centinaia di metri da me. “Minchia che gli ho combinato” dirà ridendo anni dopo» (Rocco Chinnici, magistrato. 29 luglio 1983).

• «Il mio nome vi è noto perché è presente in tutte le edizioni della Costituzione. C’è la firma mia, alla fine: ero il presidente dell’Assemblea costituente. (…) Ma sono stato anche un “compagno”. Sospeso dal partito perché critico nei confronti dell’alleanza Hitler-Stalin, contrario alla macchina totalitaria dei sovietici. Ero troppo insofferente delle idee calate dall’alto per rinunciare alle mie convinzioni o accettare gli ordini di Mosca. Sono stato diverso, imprevedibile, scomodo. Non sorprende che nessuno mi rivendichi come antenato» (Umberto Elia Terracini, politico. 6 dicembre 1983).

• «Ogni sera, durante il fascismo, la radio diffondeva la propaganda del regime. Ma il 6 ottobre del 1941 successe qualcosa. Una voce si inserì, e cominciò a dire: “Italiani! Non è vero!”, oppure “Bugiardo!”, “Basta con la guerra fascista!”. La cosa andò avanti fino alla Liberazione di Roma, nel giugno del 1944. Mussolini si imbestialiva, perché le sue polizie non riuscivano a capire come diavolo fossero possibili queste interferenze, che chiamavano la popolazione alla rivolta. La voce era la mia. Agivo su segretissimo mandato di Palmiro Togliatti, da una stazione radio nascosta tra la Serbia e il Montenegro, con l’ausilio di due tecnici sovietici. Sono stato una specie di leggenda» (Luigi Polano, politico. 24 maggio 1984).

• «Dove sono Anna Maria, che si doveva laureare in lettere, e Giovanbattista che tutti gli chiedevano se era parente di Altobelli? Dov’è Federica, che voleva andare a Milano a vedere la neve? Dove sono Anna e Giovanni? Hanno più scritto la loro lettera a Babbo Natale? Dove sono tutti gli altri che tornavano a casa per le feste? Cercateli, cercateli in quella galleria, sul Rapido 904. Con i loro panini ancora nella stagnola, il thermos del caffè, le valigie piene di regali. Erano sul treno. Viaggiavano con me. (…) Nona carrozza, seconda classe, proprio al centro del convoglio. Un solo botto, tante idee. Chi l’ha detto che l’inverno può essere avaro di creatività, o che la mafia uccide solo d’estate?» (la bomba del Rapido 904. 23 dicembre 1984).

• «Noi pensavamo al mare, che ad aprile in Sicilia è già bellissimo, e alle vacanze, che arrivano sempre troppo tardi. La mamma ci ha fatto da scudo. Noi abbiamo fatto da scudo a un giudice dentro la sua auto blindata. (…) Di noi è rimasto: un dito sul ciglio di una strada; un piede dentro una camera da letto di un appartamento in un palazzo vicino; un orecchio su un albero; una macchia color ruggine sul muro di un altro palazzo; un volto, solo un volto, come svuotato dall’interno, stampato su un altro muro; un grande senso di disumanità. Non si può morire straziati a sei anni, in una bella giornata di sole» (Giuseppe e Salvatore Asta, bambini. 2 aprile 1985).

• «Sì, lo so, sono morta tante volte. Ma se devo scegliere una data, un anniversario, scelgo il giorno in cui la Corte d’assise d’appello di Bari assolve dal reato di strage Freda, Ventura, Valpreda e Merlino per insufficienza di prove. Di quale strage stiamo parlando? Piazza Fontana, naturalmente: 12 dicembre 1969» (la verità. 1° agosto 1985).

• «Ci ha uccisi l’auto di scorta a Paolo Borsellino, il giudice. In controsenso, a 130 chilometri all’ora, ci piombò addosso quel giorno, all’uscita di scuola, mentre aspettavamo il bus. Sì, sì, è stato un incidente. Ci ha ucciso la mafia? Forse. Ci ha ucciso l’antimafia? Anche. Ma in fondo, che domanda è? Nel nostro caso, è come chiedere se c’è un confine tra deserti» (Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, ragazzi. 25 novembre 1985).

• «“La famiglia ringrazia…”, “I figli ricordano…”, “La vedova annuncia…”. Qui, a Casale Monferrato, davanti al muro di ingresso venivano incollati i manifesti funebri dei lavoratori. In pochi avevano più di cinquant’anni. Quasi nessuno è arrivato alla pensione. Tegole, tettoie, tubature, fioriere. Io sono il regno del “polverino”, il luogo che si mangiò tanti corpi» (la Eternit. 6 giugno 1986).

• «La “necessità di tenere i comunisti fuori dal governo”. L’unica alleanza possibile, quella del Pentapartito. 1058 giorni di gloria e tensioni. Il nuovo Concordato con la Chiesa. Il taglio della scala mobile. L’affronto agli americani per la crisi di Sigonella. Il condono edilizio e il decreto per salvare le tv di Berlusconi. Lui che irradia la sua immagine. La corte di nani e ballerine. Milano (e l’Italia) da bere» (il governo Craxi. 1° agosto 1986).

• «Per me ci fu un complimento particolare. Nel volantino in cui rivendicavano il mio omicidio le Brigate rosse mi definirono “uno dei migliori politici della Dc, l’uomo chiave del rinnovamento”. (…) Fui l’ultima vittima del terrorismo. Mi uccisero degli irriducibili. Finiscono gli anni di piombo. Comincia la normalità» (Roberto Ruffilli, politico. 16 aprile 1988).

• «Le fredde mattine degli assassinii. Giochi di specchi, la verità che non si trova. Ma sono veri i cadaveri crivellati di pallottole. Sono vere le lenzuola bianche. Sono veri i volti attoniti dei passanti, ogni volta, a fare da corona. Vere le macchie di sangue sull’asfalto. Vere le sagome di gesso» (gli anni di piombo. 16 aprile 1988).

• «Sono gli anni ottanta, ragazzi! Dopo gli anni di piombo, finiti con la morte di Moro e la bomba a Bologna, arrivano gli anni del disimpegno. L’Italia è la scenografia americana del mio cinema all’aperto. Col Paninaro, la contessa Marina Lante delle Povere, il pittore della televendita Teomondo Scrofalo, Vito Catozzo, poliziotto pugliese omofobo. E ancora: De Michelis, il Tenerone, il professor Zichichirichì, Anche i Baudi piangono, Zuzzurro e Gaspare… Qualcuno ha storto il naso, come sempre. Ma fu Federico Fellini, a dire: “Drive In è l’unico motivo per avere in casa una tv”» (Drive In, trasmissione televisiva. 17 aprile 1988).

• «Erano, i miei, anni di grande fermento. Nel 1923, dopo aver vinto alcune gare automobilistiche, conobbi i genitori dell’aviatore Francesco Baracca. “Ferrari, metta sulle sue auto il cavallino rampante, che era il simbolo di nostro figlio” mi dissero “le porterà fortuna”. E li ascoltai, aggiungendo al cavallino un fondo giallo canarino, il colore di Modena» (Enzo Ferrari, imprenditore. 14 agosto 1988).

• «Le chiappe più belle del mondo, quelle di Nadia Cassini. I Kiss e i Police, Albano e Romina Power, Toto Cutugno sempre secondo, il Festivalbar e Superclassifica Show, Pac-Man e il Commodore 64, i post-it e i plasticissimi Swatch, la cintura del Charro, Best Company, Americanino, l’Uomo Tigre, Ritorno al futuro, gli Uni Posca, la manina appiccicosa dentro le patatine, Jovanotti: È qui la festa?, le cassette musicali, quello che atterrò con il suo aereo a Mosca, nella Piazza Rossa, I predatori dell’arca perduta, “In bagno? In caldobagnoooo!”, Alberto Tomba, il cubo di Rubik, un cuore di panna» (gli anni Ottanta. 31 dicembre 1989).

• «Mi chiamavano “il pio Mariano”. Ero presidente del Consiglio quando scoppiò quella bomba a Milano, il 12 dicembre del 1969. Al processo che si teneva a Catanzaro sulla strage di piazza Fontana mi chiamarono a testimoniare. Era il 16 settembre del 1977. Pronunciai per 18 volte la frase “non ricordo”. Non ricordo. Sapevo che il mio prestigio ne usciva distrutto. Non ricordo. Avevo una memoria eccezionale. Non ricordo. Ho dovuto proteggere il partito. Non ricordo. Nel 1969 potevo chiedere lo stato d’emergenza – molti volevano il colpo di Stato – ma non ho voluto farlo» (Mariano Rumor, politico. 22 gennaio 1990).

• «Erano gli anni novanta, ma la storia è antica. Avevo una mia piccola impresa di costruzioni. Non volevo pagare il pizzo e denunciai i miei estorsori. Il complimento più bello, me lo ha fatto il boss Giovanni Brusca: “Era un onesto lavoratore”. Ed è anche il motivo per cui mi ha sparato» (Vincenzo Miceli, imprenditore. 23 gennaio 1990).

• «Nato nel 1921. Sopravvissuto al Sessantotto, all’avvento della televisione, a Craxi. Morto lapidato. È caduto il Muro di Berlino, e con i suoi frammenti mi hanno fatto fuori in un congresso di polvere e fuoco. Il movente? “Siamo voluti tornare alle fonti. Alle fonti della modernità politica” disse l’ultimo segretario, Achille Occhetto. La sua proposta risale al 12 novembre 1989, appena tre giorni dopo la caduta del Muro. Per alcuni ero già morto anni prima, l’11 giugno 1984, il giorno della morte di Enrico Berlinguer. Così finisce in Italia una delle più nobili e tragiche illusioni della storia» (il Partito Comunista Italiano. 3 febbraio 1991).

• «C’era il trucco, e quel Mario Chiesa ci cascò in pieno. Mi stringeva in mano Luca Magni, giovane imprenditore titolare di una piccola impresa di pulizie, che lavorava anche per il Pio Albergo Trivulzio, la casa di riposo di Milano della quale Chiesa era presidente in quota Psi. Ero piena di soldi. La tangente per Chiesa: sette milioni, cash. Avevo una microspia. Magni aveva denunciato tutto ai Carabinieri, stanco di dover pagare mazzette ai politici per poter lavorare. Ero una valigetta-trappolone. (…) Così fu beccato il “mariuolo”, come lo definirà Craxi. Uno straniamento inatteso, il suo. Così è cominciata Tangentopoli. Per Bettino, per tutti, un cataclisma» (una valigetta. 17 febbraio 1992).

• «Dove sono Giovanni, il giudice, e sua moglie Francesca? Dove sono Vito, Rocco, Antonio? Il poliziotto, il poliziotto, il poliziotto… Cercateli, cercateli in quel pezzo di autostrada di fronte la collina di Capaci, davanti al mare di Palermo. (…) Io sono la bomba che tutto accelera: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica come la fine di Borsellino. Borsellino muore a Capaci, non lo capite? È come un immenso movimento di terra, che poi è la specialità della mafia» (la bomba di Capaci. 23 maggio 1992).

• «Sono stato la prima torre gemella a essere abbattuta, sull’autostrada, un sabato pomeriggio, vicino a Capaci. Poi, il 19 luglio, Paolo Borsellino fu la seconda torre a cadere, bombardata» (Giovanni Falcone, magistrato. 23 maggio 1992).

• «Io sono la bomba che completa il lavoro. (…) Cento chili di tritolo, in una Fiat 126, posteggiata davanti al civico 21. La terra è stata smossa. Serviva a coprire delle fosse. Una per i giudici, i loro tronchi smembrati. Una per gli agenti, i loro pezzi sparsi sull’asfalto bruciato di sole. La fossa grande, invece, è un buco nero. Per l’Italia tutta. Sono la bomba delle mille verità, del gioco di specchi, dei finti pentiti che racconteranno di finti preparativi, finte riunioni, finte strategie, finti motivi. Tutto finto. Borsellino Bis, Borsellino Ter, Borsellino Quater. Troppi numeri romani per mascherare l’incapacità a trovare un brandello di luce. Di vero c’è solo il botto. Ancora oggi. Di vero c’è solo il botto, e nulla più» (la bomba di Via Mariano D’Amelio, a Palermo. 19 luglio 1992).

• «Dove abbiamo sbagliato, Giovanni? Non lo so. (…) La lotta alla mafia è nata sui nostri corpi straziati ed è finita subito dopo, soffocata dalla retorica e dal merchandising. I cineforum, le fiaccolate, i cortei. Le fiction, i film, i fumetti, i romanzi, le miniserie in tv. Le intitolazioni: biblioteche, scuole, aeroporti, piste di sci, strade, viali, piazze… Chi lo poteva dire: lottare ogni giorno senza riposo, morire da eroi, diventare simboli di una ribellione. E poi riempire le pagine di Tuttocittà» (Paolo Borsellino, magistrato. 19 luglio 1992).

• «Parla per noi tutti Sergio Moroni, tesoriere del Psi in Lombardia. Prima di spararsi in bocca un colpo di fucile, scrive al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: “… È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti… Esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori”» (quelli che si sono suicidati durante Mani pulite. 2 settembre 1992).

• «“Signor Pubblico Ministero, non diciamo latitanza, io in realtà… a me non mi ha mai cercato nessuno. Io ogni mattina andavo a lavorare, a me non mi ha mai fermato nessuno, prendevo il treno per andare a Trapani, prendevo l’autobus, a me non mi ha mai detto niente nessuno. Sono solo un lavoratore, tutto casa, famiglia, lavoro e chiesa, come si dice dalle nostre parti”. Totò Riina, cella numero 19 dell’aula bunker dell’Ucciardone, Palermo. Ore 10 e 15 del 1° marzo 1993. Interrogatorio dinanzi alla Corte d’assise – presidente Agnello, giudice a latere Saguto» (una latitanza. 15 gennaio 1993).

• «Mi avevano studiato nel dettaglio il ministro della Giustizia Conso, e il presidente del Consiglio, Amato: depenalizzare i reati sul finanziamento irregolare ai partiti. Cancellare il reato. Cancellare Mani pulite. Salvare la Repubblica. De Mita, Andreotti, La Malfa, Craxi, Martelli, Altissimo, Gava, Cirino Pomicino, Forlani… Ero l’ultima ciambella di salvataggio per tutti. Il capo dello Stato Scalfaro era d’accordo: “Recitate un’Ave Maria alla Vergine” disse ai parlamentari. Ma dopo tre giorni bocciò tutto. La trattativa fallì (questa). La Repubblica, la prima, crollò. Un incubo per tutta una nomenclatura, senza un pizzicotto in grado di svegliarli» (il decreto Conso. 8 marzo 1993).

• «Io sono stata non la trattativa, ma una trattativa nell’antico rapporto Stato-mafia. Stato e mafia hanno sempre parlato. Faccio parte di una famiglia, la Famiglia Trattativa, che appartiene alla storia di questo Paese, ne ha condizionato i suoi passaggi fondamentali, non solo quelli nel ’92-’93. È la vera grande famiglia italiana. (…) Mia nonna aiutò gli inglesi a fare sbarcare Garibaldi a Marsala. Il nonno fu alleato dei fascisti. Una vecchia zia fu l’amante di Salvatore Giuliano, quello di Portella della Ginestra. Papà prima ha aiutato gli americani in Sicilia, poi è stato un democristiano di ferro. Mamma ha fatto la signora delle pulizie nei salotti della Palermo bene. Io sono stata quella capricciosa, in famiglia, imprevedibile. Nessuna trattativa muore orfana. Tutte lasciamo molti figli» (una trattativa. 1992-1993).

• «Il mio crollo ha la faccia di Arnaldo Forlani, il suo affanno con il filo di bava mentre è interrogato dal giudice, il suo smarrimento in diretta tv dall’aula di giustizia, neanche un mese fa. Del cappio mimato dai deputati della Lega in Parlamento. Delle monetine su Craxi all’uscita dell’Hotel Raphaël, dell’inseguimento per le calli veneziane di De Michelis, dei colpi di piccone del presidente della Repubblica, Cossiga, e delle televisioni di Berlusconi. Del tg di Emilio Fede, con il fido inviato Paolo Brosio e la postazione fissa davanti al Tribunale di Milano che racconta tutto, ogni giorno, con la convinzione che dalle mie macerie sarebbe emerso un solo trionfatore: Silvio Berlusconi. E fu così» (la Prima Repubblica. 16 gennaio 1994).

• «Senza andare tanto per il sottile: sono stata il governo del Paese, per mezzo secolo esatto, senza alcuna alternativa, in nome dell’anticomunismo. Perché? (…) Il fatto è che non ci doveva essere alternativa, punto. Questa era la mia forza, questa la mia debolezza. La ragion di Stato era la ragion di partito, e viceversa. Io ne ero vittima e protagonista al tempo stesso. (…) Sono stata la faccia pulita e la luna nera. Ho controllato l’ordine pubblico e chiuso accordi con la mafia, ho fatto della P2 una specie di governo clandestino del Paese, e poi l’ho sciolta. Tenevo quelli di Gladio come una cubista che ama circondarsi dai suoi buttafuori, salvo cacciarli quando c’è da utilizzare le buone maniere. Ho avuto un fondo doppio, come nelle scatole degli illusionisti. Verità e menzogne, insieme. Senza alcuna alternativa. Dal cilindro usciva un coniglio che sbranava chi voleva accarezzarlo. Quando ho capito che era il momento di cambiare, ho anche capito che non potevo cambiare: come si riforma un partito rimasto al governo così tanto?» (la Democrazia Cristiana. 18 gennaio 1994).

• «Il mio nome me lo diede il segretario del Partito democratico della sinistra, Achille Occhetto, a febbraio, due mesi prima delle elezioni politiche. Ero l’Alleanza dei progressisti. L’incauta dicitura fu consegnata a un drappello di giornalisti amici dopo la formazione delle liste. (…) Il Corriere della Sera scriveva: “Berlusconi non arriverà al 10%”. Scalfari sulla Repubblica lo chiamava “il ragazzo Coccodè”. Per Ernesto Galli Della Loggia Forza Italia era “un partito di yuppies”. Mi avviavo baldanzosa alle urne per suonare Berlusconi. Finii suonata. Occhetto si dimise, e su di lui cadde l’oblio. Come Napoleone, Berlusconi in soli tre mesi aveva conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile: gli italiani» (la gioiosa macchina da guerra. 28 marzo 1994).

• «Uno vede con i miei occhi. A uno batte il mio cuore. Avevo una vita, ne ho donate sette. (Ci voleva un bambino americano ucciso per una rapina sulla Salerno – Reggio Calabria per fare conoscere agli italiani il valore della donazione degli organi)» (Nicholas Green, bambino. 1º ottobre 1994).

• «“Ho finito. Do ordine ai miei collaboratori di spegnere i computer”. Il giudice Antonio Di Pietro si liberò di me, a sorpresa, dopo una requisitoria. Lo fece in favore delle telecamere. Dopo 1025 giorni finiva Mani pulite» (una toga. 6 dicembre 1994).

• «Boia di un Gianfranco Fini. Voleva uscire dal ghetto, allearsi con Berlusconi. Mi ha ucciso lui, in un congresso, a Fiuggi: il partito della destra sciolto così, nell’acqua minerale. Fini trionfa, e dopo mezzo secolo finisce la mia storia, la storia del partito che fu di Michelini, Almirante, Romualdi e Pace. Finisce la diversità, comincia la fame di poltrone» (il Movimento Sociale Italiano. 27 gennaio 1995).

• «A scuola ci facevano studiare quella poesia sugli ebrei: Se questo è un uomo. E voi che siete sicuri nelle vostre tiepide case considerate se questo è un ragazzino. Tenuto per 779 giorni nascosto, incatenato in una botola, appeso a un gancio, ridotto a una larva, senza nome e senza forza, infine sciolto nell’acido. Come il poeta, anche io vi ordino: ricordate sempre che questa è stata la mafia. Ripetetelo ai vostri figli, a quelli che hanno gli stessi miei anni. Ripetetelo. “O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”» (Giuseppe Di Matteo, bambino. 11 gennaio 1996).

• «Per i telespettatori che mi ricordano io sono “quello della cartolina”. Era il mio appuntamento serale, su Rai Tre, dove, con toni pacati, dicevo la mia su quello che accadeva in Italia. Una delle ultime cartoline fu per Beppe Grillo. Era il 1992, e già lo ammonivo: “Lei, Grillo, centra bersagli molto ovvi. Non nego il valore liberatorio, ma davvero la furia contro i poteri e le arroganze possono essere sanate da un grido insultante? Questa è la strada maestra dell’illusione qualunquistica, dello sberleffo fine a se stesso…”» (Andrea Barbato, giornalista. 12 febbraio 1996).

• «Avevo visto al cinema I Vitelloni di Federico Fellini e ne ero rimasto talmente entusiasta che decisi che avrei fatto di tutto per poter lavorare con lui. Durante l’estate mi presentai a Fregene per incontrarlo. Era in spiaggia, sotto l’ombrellone, vestito, con lui c’era Ennio Flaiano. Mi salutò: “Marcellino, bene bene, grazie di essere venuto. Devo girare un film per De Laurentiis. Lui vorrebbe Paul Newman, ma è troppo importante e a me serve una faccia qualsiasi”. Io ero disposto a tutto pur di lavorare con lui, ma per darmi un minimo di tono gli dissi che mi sarebbe piaciuto avere almeno un’idea della trama. “Ma certo” mi rispose, e chiese a Flaiano di passarmi il copione. Era una cartella, con dentro un disegno di Fellini: un uomo che nuotava, con un sesso enorme, che arrivava al fondo del mare, e attorno a quell’immenso arnese danzavano allegramente cavallucci e stelle marine. Mi sentii sbeffeggiato, ma abbozzai: “Mi dica solo dove devo venire, quando devo presentarmi”. Il film era La dolce vita. C’è bisogno di dirlo?» (Marcello Mastroianni, attore. 19 dicembre 1996).

• «Non avevo mai bisogno di dire il mio cognome. Ero Corrado, Corrado e basta. Con il mio nome ho firmato cinquant’anni di storia della radio e della televisione italiana. Il mio trionfo in tv mi ha sempre sorpreso, perché ero fuori moda. Prima di presentare in televisione ho lavorato in radio. (…) In pochi ricordano che sono stato io ad annunciare due eventi storici: la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della monarchia» (Corrado Mantoni, presentatore televisivo. 8 giugno 1999).

• «Mi chiamavano “il Ragno”. Tra le mie mani è passato di tutto: lo sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Enrico Mattei, la scomparsa di Mauro De Mauro, il golpe Borghese, la morte di Roberto Calvi, i cugini Salvo, i rapporti tra la Dc e la mafia. Ma il mio nome non si poteva nemmeno pronunciare. Mai un processo, una denuncia. Mai un esposto, e mai esposto. Si diceva nei bar di Palermo: “Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi”» (Vito Guarrasi, avvocato. 31 luglio 1999).

• «Noi siamo stati in Bosnia, in Kosovo, in Somalia, in Iraq. Ma la nostra guerra l’abbiamo combattuta, e persa, al ritorno, in Italia. Combattuta da soli, si intende. (…) Noi siamo morti perché colpiti da malattie inguaribili: leucemie, tumori fulminanti alla tiroide, al pancreas, ai testicoli. Uranio impoverito, vaccini sbagliati, esposizione a radiazioni non dichiarate. Il primo è Salvatore Vacca. Muore di leucemia al ritorno dalla missione militare in Bosnia. Lo seguiranno in 45 e la chiameranno “sindrome dei Balcani”. Ma sono più di duecento i soldati morti per possibile contaminazione da uranio impoverito. Nessun ministro, nessun generale della Difesa sarà mai processato in un’aula di tribunale per tutto ciò» (i soldati italiani tornati dalle missioni di pace. 9 settembre 1999).

• «Per entrare nell’ufficio di Giulio Andreotti, al terzo piano d’un palazzetto di piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma, dovevate passare sotto il mio sguardo. Seduta dietro a una scrivania piena di carte, con tre telefoni, una bambola di stoffa, un candelabro. Nel riverbero di una lampada, osservavo in silenzio. Alle spalle, l’Enciclopedia Treccani e la collezione rilegata di Civiltà Cattolica. Dicevano che ero dura. Mi aveva formato la guerra. Ero stata fascista, e dopo la Liberazione mi avevano messo in carcere con l’accusa di aver collaborato con la Repubblica di Salò. Mi chiamavano “ombra”. Riservatissima. Senza parola. Forse anche senza corpo. Senza simpatie, senza antipatie. Se un colloquio si prolungava troppo, entravo nella stanza di Andreotti, e che ci fosse un ministro o un cardinale, annunciavo secca: “Il presidente ha un altro impegno”. Quando Tina Anselmi, presidente della Commissione d’inchiesta sulla P2, mi interrogò chiedendomi se avessi visto nell’ufficio di Andreotti gli iscritti negli elenchi di Licio Gelli risposi: “No”. E aggiunsi: “Qualcuno di voi, invece, nell’ufficio del presidente, l’ho incontrato”. Vedevo. Sapevo. Tacevo» (Vincenza Enea Gambogi, segretaria. 21 settembre 1999).

• «Enrico Berlinguer vedeva il mondo in bianco e nero. Io no. È anche per questo che tutti i comunisti mi hanno odiato. Adesso si sono pentiti, e dicono che ero “un interprete acuto dei bisogni della società”. Anche perché si sono accorti di militare in un partito, il Pd, in tutto e per tutto “craxiano”» (Bettino Craxi, politico. 19 gennaio 2000).

• «Sono stato il padre di tutte le rovesciate. Un’idea assurda: intercettare al volo, con una rotazione all’indietro del corpo, un pallone destinato a passare lontano da me. Andargli incontro, come inseguire un destino. Il mio “colpo” più famoso? In un Fiorentina-Juve del 15 gennaio 1950. Fu un gesto clamoroso. Ed è per questo che da allora, ogni anno, compaio nella copertina delle Figurine Panini. Una curiosità: la rovesciata era un’azione difensiva, stavo spazzando il pallone dalla mia area. E infatti la partita finì zero a zero» (Carlo Parola, calciatore. 22 marzo 2000).

• «Io ero discretissimo. Cinico, secondo alcuni. Il capitale come una religione. Io, il suo sacerdote. In silenzio, in silenzio. Il potere al quale si inchinano bocche saziate a monete. (…) Parlare di me significa parlare della mia creatura, Mediobanca, fondata il 10 aprile 1946, un istituto unico in Italia, una banca d’affari che ha rapporti stretti con lo sviluppo delle imprese, si assume dei rischi, ma con autonomia e indipendenza. Non c’è grande impresa italiana che non abbia trovato al suo capezzale Mediobanca. E me, il suo demiurgo» (Enrico Cuccia, banchiere. 23 giugno 2000).

• «Occorrono cinquanta litri di acido e tre ore per ottenere la disintegrazione di un corpo. Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, il cranio si deforma. Può restare parzialmente intatto il bacino… Alla fine non si vede quasi più niente. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare da qualche parte. A San Giuseppe Jato li andavamo a buttare nel torrente. Quando i palermitani ci sfottevano chiamandoci “zoticoni” o “cafoni” o “peri incretati”, cioè piedi sporchi di fango, noi rispondevamo: “E voi, allora? Bella acqua che bevete a Palermo…”. La diga dello Jato è infatti una delle principali risorse idriche del capoluogo siciliano» (Bernardo Brusca, mafioso. 8 dicembre 2000).

• «Attento, testardo, cinico, un po’ sognatore. Al signor Enzo piacevo tanto proprio per questo. Sono stato l’ultimo italiano a vincere con una Ferrari» (Michele Alboreto, pilota automobilistico. 25 aprile 2001).

• «Centocinquant’anni di onorata carriera, e oggi c’è una generazione che non mi conosce. (…) Mi rimpiangete in molti, ma mi cercano soltanto collezionisti e nostalgici. Ed è rimasto solo quel detto: “Sono senza una lira”. Adesso siete senza “la” lira» (la lira. 1° gennaio 2002).

• «Mi mettevo l’orologio sul polsino, e tutti mi imitavano, illudendosi di poter tenere il mio tempo. La mia azienda fu in grado di dettare condizioni allo Stato. Noi davamo le macchine agli italiani, lo Stato ci doveva dare le strade. Noi facevamo girare il Paese, ma alla Rai non dovevano trasmettere gli spot delle auto giapponesi. Noi facevamo debiti, lo Stato doveva inventarsi qualche cosa per pagarli al posto nostro, o farli pagare agli italiani» (Gianni Agnelli, industriale. 24 gennaio 2003).

• «Sono stata la prima e l’unica protagonista della finanza italiana. Mi sentivo come Dorothy nel Mago di Oz. La gran sciura dei danée, e i denari erano la mia strada di mattoni gialli. Parlavo in meneghino, ricevevo i miei ospiti con una rosa. Mi chiamavano “Anna dei miracoli” o “la signora Compro io”. (…) A me si devono tante cose, dall’invenzione del catalogo Postalmarket fino alla costruzione del Pirellone, il simbolo del mio tempo, il castello di Oz» (Anna Bonomi Bolchini, imprenditrice. 22 aprile 2003).

• «Ero lì perché davano un buono stipendio: 10mila euro al mese. Ero un mercenario, lavoravo per una compagnia militare privata. (…) Non facciamo poesia, facciamo la guerra. Solo, ho chiesto di aver levata la benda dagli occhi e gli ho detto: “Vi faccio vedere come muore un italiano”. E l’ho fatto gratis. Voi litigate: è un eroe, no, non è un eroe. A me è importato soltanto morire in piedi» (Fabrizio Quattrocchi, guardia di sicurezza privata. 14 aprile 2004).

• «Italia-Germania, 3 a 1, Mondiali ’82, Sandro Pertini presidente. “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”» (Nando Martellini, cronista sportivo. 5 maggio 2004).

• «Mi ha ucciso la pallottola amica di un marine, in un posto di blocco, in Iraq, mentre cercavo di salvare la giornalista Giuliana Sgrena, che era stata rapita. (…) Ero in missione per lo Stato, allo Stato ho dato la vita, ma giustizia non ne ho avuta, né è stato possibile accertare la verità sulla mia morte. Anche il nome – Mario Luiz Lozano – del soldato americano che sparò sulla mia auto è stato scoperto per puro caso. Gli Stati Uniti hanno respinto qualsiasi forma di collaborazione con la magistratura italiana che indagava sull’omicidio. Nei 715039 file rilasciati da Wikileaks sulla diplomazia Usa ai tempi delle guerra in Iraq e Afghanistan ci sono anche 26 documenti sulla mia morte – altrimenti rimasti segreti – che raccontano come Berlusconi e il ministro degli Esteri Gianfranco Fini accettarono un compromesso con gli Usa che salvò la faccia a tutti e preservò ragione di Stato, carriere e rapporti personali e diplomatici, facendo solo una vittima: la verità. La stessa cosa avvenuta con il caso del Cermis, quello della funivia tranciata da un aereo americano: un’altra strage contro cittadini inermi rimasta impunita» (Nicola Calipari, agente segreto. 4 marzo 2005).

• «“Quante divisioni ha il papa?” ironizzava sempre Stalin, per dire che la ragione sta dalla parte della forza, e i sovietici avevano il più immane numero di divisioni militari che la storia avesse mai conosciuto. Potevano mandare i loro carri armati a Roma in qualsiasi momento. Poi sono arrivato io, profeta disarmato. Ho combattuto e ho vinto. Il comunismo non cade nel 1989, cade prima, nel 1978, il giorno della mia elezione a Pontefice. Solo che loro, quelli dall’altra parte del muro, non l’avevano capito» (Giovanni Paolo II, papa. 2 aprile 2005).

• «La massoneria. Michele Sindona. La P2 e la mafia. Il Banco ambrosiano di Roberto Calvi. Lo Ior e il riciclaggio dei soldi sporchi. La morte di Giovanni Paolo I e la scomparsa di Emanuela Orlandi. Perché? Non si può mica governare la Chiesa con le Ave Maria» (Paul Marcinkus, arcivescovo, ex presidente dello Ior. 20 febbraio 2006).

• «Siccome non ci trovavano hanno pensato che papà ci avesse ucciso. Perché ormai quando un bimbo sparisce non si pensa più all’orco cattivo: si pensa subito al papà. Dopo tre anni, nello stesso pozzo, profondo 25 metri, è caduto un altro bambino. Lui ha avuto la forza di gridare aiuto. Salvando lui, i pompieri si sono accorti di noi. Di quello che restava: “Erano così leggeri che li abbiamo raccolti con una mano”. Il padre assassino non è l’assassino, dunque. E il giallo non è giallo, è solo una tragedia» (Ciccio e Tore Pappalardi, bambini. 5 giugno 2006).

• «Noi eravamo la Volante Rossa, il gruppo di partigiani che, nella Milano del 1945, continua a combattere armi in pugno, non più sui monti ma dentro le città. Eravamo una cinquantina, li guidavo io, che ero il più grande. Avevo vent’anni e mi facevo chiamare “Tenente Alavaro”. Avevo giurato vendetta dopo aver visto fucilare quindici miei compagni a piazzale Loreto. Mussolini era stato sconfitto, Hitler era seppellito sotto le macerie del suo bunker a Berlino, l’Italia era libera, ma noi continuavamo a usare mitra e pistole, anche perché i fascisti erano ben altro che scomparsi, e c’erano molti conti personali. Armati, sparavamo. Sempre in sella a una bicicletta» (Giulio Paggio, partigiano e terrorista. 15 novembre 2008).

• «Un convoglio ferroviario che trasportava gpl poco prima della mezzanotte deragliò nella stazione di Viareggio: alcuni carri cisterna si rovesciarono e uno si squarciò, provocando la fuoriuscita del gas. Poi, l’esplosione. Lo Stato con noi ha scelto la fuga. Al processo per la strage nella quale siamo morti non si è costituito parte civile. Uno schiaffo. Lo Stato se ne frega di 32 morti e della verità» (quelli che abitavano vicino alla stazione di Viareggio. 29 giugno 2009).

• «“Suo marito mangia mais quando viene a casa?” “No”. “E come mai?” “Sono vedova”. (…) Allegria!» (Mike Bongiorno, conduttore televisivo. 8 settembre 2009).

• «In testa Leonardo Da Vinci. Secondo Giuseppe Verdi. Terzi Falcone&Borsellino, perdono in semifinale con Leonardo Da Vinci. Quarto Galileo Galilei, perde in semifinale con Giuseppe Verdi. Quinta Laura Pausini, prevale su Dante Alighieri, Luigi Pirandello, Enrico Fermi» (Il più grande italiano di tutti i tempi, trasmissione televisiva. 10 febbraio 2010).

• «“Chiquita: 10 e lode”. “O così, o Pomì”. “Che morbido, è nuovo? No, lavato con Perlana”. E ancora, la pubblicità choc anni Settanta della ragazza in hot pants, per i jeans Jesus: “Chi mi ama mi segua”. E come scordare il veterinario dell’amaro Montenegro, impegnato in mille avventure? Erano tutte idee mie» (Emanuele Pirella, pubblicitario. 23 marzo 2010).

• «Io ho avuto il coraggio, quando mi hanno arrestato, di cominciare a dire la verità, e di raccontare la vera storia del terrorismo nero italiano. È stato Franco Freda a organizzare la strage di piazza Fontana del 1969. Noi terroristi di destra avevamo rapporti con molti apparati dello Stato per scambiarci reciprocamente informazioni: “Era prevista per il dicembre 1969 l’attuazione di un golpe cui dovevano partecipare le stesse forze che l’anno seguente, nella notte fra l’8 e il 9 dicembre 1970, tentarono di mettere in atto quello che è noto come golpe Borghese. Quando, nel dicembre 1969, si stabilì che il golpe non ci doveva essere, alcuni giovani estremisti, più o meno collegati ai gruppi giovanili del Fronte nazionale, decisero di forzare la situazione attuando gli attentati del 12 dicembre 1969 al fine di provocare l’intervento stabilizzatore delle Forze armate”» (Sergio Calore, terrorista. 6 ottobre 2010).

• «Primo: non prenderle! Secondo: è imperativo vincere. Terzo: non c’è un terzo punto perché i primi due han già detto tutto» (Enzo Bearzot, allenatore. 21 dicembre 2010).

• «Mamma, forse sarebbe stato meglio che la ragion di partito avesse imposto il contrario: fare abortire te, e dare un figlio a papà e alla sua compagna Nilde Iotti. Non avevo identità. Tutti mi chiamavano “il figlio del Migliore”, e basta, sballottato tra Mosca e Parigi come un piccolo vagabondo della vostra rivoluzione, e poi chiuso in collegio. Dicevate che ero schizofrenico, e per questo mi avete seppellito vivo nella stanza di una clinica, a Modena, in gran segreto, per trent’anni. Nello schedario era indicato solo il mio nome – che liberazione! E in gran segreto, solo, sono morto. O forse mi sono ammalato perché non mi avete mai amato. Era la ragion di partito che ve lo imponeva: si ama il popolo, compagno Togliatti, non certo i figli!» (Aldo Togliatti. 9 luglio 2011).

• «Sono stato il primo omosessuale dichiarato in Italia. All’anagrafe ero Gioacchino Starace, nipote di Achille, il gerarca fascista. Negli anni cinquanta ho pubblicato Roma capovolta, il libro ipercensurato che raccontò la realtà omosessuale nell’Italia di allora. Una volta un giornalista impertinente mi chiese: “Chissà che direbbe tuo nonno Achille Starace se ti vedesse, lui che voleva tutti gli italiani maschi e forti…”. Senza scompormi, risposi: “Direbbe che dopo tanta virilità in famiglia, un po’ di relax ci vuole”» (Gioacchina Stajano, scrittrice e giornalista. 26 luglio 2011).

• «La mia vita cambiò il 18 maggio del 1988, quando l’Anonima sequestri calabrese rapì mio figlio, che aveva 18 anni, davanti alla concessionaria di mio marito, a Pavia. Per liberarlo volevano 8 miliardi di lire. Io ho fatto una cosa che nessuno aveva mai pensato di fare, e che solo il coraggio di una madre può: scesi nei paesi della Locride e andai a sfidare la ’ndrangheta nel cuore del suo territorio, mi incatenai in piazza per chiederne la liberazione e la solidarietà delle donne di Calabria. Quella foto fece il giro del mondo, mobilitò le coscienze e il governo. Divenni popolare, ma a me non interessava. Mi ero incatenata per fare capire che mio figlio era in quello stato da
17 mesi. Volevo solo riavere indietro Cesare. E il 30 gennaio del 1990 mio figlio fu liberato» (Angela Casella, mamma. 9 dicembre 2011).

• «Alle 8 e 10 dell’8 agosto 1956 una nuvola di fumo si levò da un pozzo di una miniera di carbone (la Bois du Cazier) di Marcinelle, in Belgio. Era nota per essere poco sicura. Ma più della paura, era la fame che ci portava lì. Parlavo solo il molisano. Avevo azionato un ascensore mentre saliva un montacarichi. Fu tranciato un tubo di petrolio e divampò un incendio che uccise 262 minatori di 12 nazionalità. Più della metà, 136, italiani. Spinti in Belgio dall’accordo tra Roma e Bruxelles che prevedeva la fornitura di manodopera in cambio di carbone. Quella di Marcinelle fu la più grande sciagura mineraria europea. Al processo i proprietari della miniera furono assolti, l’unico responsabile ero io, mi spiegarono. Sapevano che non era vero. Mi diedero un lasciapassare per il Canada, una casa e una pensione extra in cambio del mio silenzio. Qualche anno prima di morire mi colpì l’Alzheimer: la mia memoria era tornata in miniera, io la seguii poco dopo» (Antonio Iannetta, minatore. 11 febbraio 2012).

• «Ero un rigger, cioè quello che con una speciale imbracatura si arrampica sulle travi di un palco allestito per un concerto per montarne la struttura. Mi ero dovuto pagare sia l’attrezzatura che i corsi. Sono morto durante l’allestimento del palco per il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria. L’Inail ha riconosciuto a mia madre un rimborso di 1936 euro. Tanto valeva dunque la mia vita? Cosa sono, un bue?» (Matteo Armellini, operaio. 5 marzo 2012).

• «Al mio funerale sono venuti tutti: E.T., il mostro di Alien, anche il manichino dell’anarchico Giuseppe Pinelli (quando hanno dovuto simulare il suo volo dal quarto piano della Questura di Milano, il pupazzo l’ho realizzato io), il mio King Kong alto dodici metri, e tutti gli altri» (Carlo Rambaldi, artista. 10 agosto 2012).

• «Sono morto di uranio impoverito: tumore al cervello. Fino all’ultimo ho combattuto la mia battaglia senza speranza per denunciare la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio. Ho anche intrapreso uno sciopero della chemio per vedere se il ministero della Difesa aveva il coraggio di lasciarmi morire. Ho avuto la risposta» (Salvo Cannizzo, militare. 17 settembre 2012).

• «A chi mi chiedeva della mia vecchiaia così lunga e così lucida rispondevo: “Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”. Ancora oggi, io sono la mente, il corpo non conta, contano le idee che restano» (Rita Levi Montalcini, neurologa. 30 dicembre 2012).

• «All’arte ho consacrato tutto. Sono stata sposata e maga, Fedra e bisbetica domata, Medea e Madre Coraggio, bambina e ultracentenaria, sexy e androgina, prostituta e suora, comica e tragica. (…) Per Dario Fo ero una bestia da palcoscenico. Per Federico Fellini “una via di mezzo tra una divinità egizia e un extraterrestre”» (Mariangela Melato, attrice. 11 gennaio 2013).

• «Su Andreotti non finirete mai di scrivere e discutere. Era ambiguo, equivoco, come l’Italia che rappresentava. Ma su una cosa siete tutti d’accordo: se è vero che morto un papa se ne fa sempre un altro, è vero che morto Andreotti, invece, finisce tutto. È come se fosse morto l’ultimo papa, perché la politica perde il suo gran sacerdote, l’uomo che ne aveva officiato i riti negli ultimi settant’anni, dal 1947. Non sono mai esistite la prima o la seconda Repubblica. Esiste solo un prima e dopo Giulio» (un’era. 6 maggio 2013).

• «Mi chiamavo Enrico Sbriccoli ma per il mondo ero Jimmy Fontana. Quello che il mondo non sapeva è che ero anche un gran collezionista di armi. Nel 1971 acquisto una mitraglietta Skorpion. Un gioiellino: dodici colpi al secondo. Nel 1977 la rivendo per 200mila lire. La ritrovano nel 1988 in un covo delle Br. È l’arma con la quale sono stati realizzati diversi attentati terroristici: l’omicidio di Roberto Ruffilli, quello di Ezio Tarantelli, il duplice assassinio di Acca Larentia. Non sono stato mai indagato. Intorno a me girava il mondo, come sempre. Gira il mondo gira…» (Jimmy Fontana, cantante. 11 settembre 2013).

• «A tre anni avevo già visto tutto: la droga girare per casa, i tossici bussare alla porta di giorno e di notte, gli sbirri portarsi via mamma e papà, le sbarre del carcere, l’aula del tribunale. Ho visto tutto. Fino all’esecuzione di nonno Peppino e di zia Betty. Poi mi hanno sparato in testa e hanno dato fuoco al mio corpo. Come nonno e zia. Dieci litri di benzina per la Fiat Punto. Io ero nel sedile posteriore. Una vita senza speranza, perché nessuno me l’ha mai data» (Cocò Campolongo, bambino. 19 gennaio 2014).

• «Sono stato il giudice che ha trovato la formula del “malore attivo” per spiegare la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. (…) Sono stato anche il capo del pool Mani pulite. (…) Nella mia carriera ho preso insulti da tutte le parti. Mi hanno dato del fascista ai tempi di Pinelli, mi hanno dato del comunista durante Tangentopoli. Quando un magistrato è accusato sia da destra che da sinistra, vuol dire che nel suo lavoro non guarda in faccia a nessuno» (Gerardo D’Ambrosio, magistrato. 30 marzo 2014).

• «Tutti, tutti dormono sulla collina. (…) A guardare la collina dall’alto, riflette un Paese dove non esiste la storia: è stata divorata nel sole. La vita è sciolta da ogni obbligo di possedere un significato, o una semplice coerenza logica, una narrazione. A guardare la collina dall’alto, la scena è poco allegra: si ha un senso come di decadenza, di disfacimento. Le anime formicolanti galleggiano, come turaccioli. L’Italia è Pompei. A guardare la collina dall’alto, non si vedono infatti che polvere e ossa, ruderi di vite tatuate, schegge. Pulviscolo, farina al vento. (…) Io, la collina, contemplo questo paesaggio di rovine. Tutti ascolto, tutti assolvo. E canto» (la collina).