Davide Piacenza, Rivistastudio.com 18/11/2014, 18 novembre 2014
LE VITE DI STEVE GLASS
Venerdì 8 maggio 1998 Stephen Randall Glass, di Highland Park, sobborgo benestante e wasp della North Shore di Chicago, aveva poco più che venticinque anni, la mia stessa età. Era approdato a The New Republic, lo storico settimanale liberal americano, nel 1995, come stagista incaricato di tenere la corrispondenza e svolgere compiti secondari per conto del direttore di allora, Andrew Sullivan. Ma ne aveva fatta di strada, da quei giorni: con l’arrivo al timone del giornale di Michael Kelly, in precedenza commentatore politico sulle pagine del New Yorker, Glass si era lentamente ma tenacemente conquistato un nome nei circoli che contano di Washington per i suoi pezzi d’inchiesta, finendo per diventare un caso giornalistico osservato e riverito a livello nazionale. Dopo nemmeno un triennio di lavoro era giunto a guadagnare quasi 150.000 dollari l’anno, grazie a contratti di collaborazione con alcune tra le più prestigiose testate d’America (Rolling Stone, Harper’s, Mother Jones, l’ora defunto George, The New York Times Magazine).
Le storie di quel ragazzo impacciato e dotato di una disponibilità onnipresente e ai confini del morboso avevano quel qualcosa in più: non soltanto erano divertenti, originali e dissacranti, ma presentavano sempre aneddoti e note di colore che in breve erano diventate lo stilema distintivo del giovane reporter. Il suddetto «qualcosa in più», però, quel venerdì di primavera si scoprì essere a sua volta il più inaspettato dei coup de théâtre: Stephen Glass era diventato famoso inventando fatti, luoghi, persone, tessendo una tela surreale di menzogne e coperture rimasta in piedi per anni, settimana dopo settimana, articolo dopo articolo. Una tela da cui l’8 maggio 1998 non è più riuscito a divincolarsi.
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Stephen Glass è nato il 15 settembre 1972 a Highland Park, Illinois, in una famiglia di religione ebraica. Il padre Jeffrey era gastroenterologo, mentre la madre, Michele, faceva l’infermiera. Sia lui che il fratello minore, Michael, hanno frequentato la prestigiosa Highland Park High School, un istituto tra i più in vista dello Stato e serbatoio di finalisti di importanti borse di studio nazionali, come la National Merit, che lo stesso Michael arrivò vicino a conquistare. I fratelli Glass mostravano anche una predilezione per il teatro, un altro dei campi di eccellenza della Highland Park. Steve era diventato direttore tecnico di Stunt, una compagnia teatrale studentesca. Nell’ultimo anno di scuola superiore aveva inoltre partecipato ad Adventures of the Mind, una specie di gara di pensiero creativo con consegne quali inventare uno slogan pubblicitario o un musical in pochi minuti. Con una frase che letta oggi appare amaramente profetica, Glass affidò all’annuario scolastico di quell’anno i suoi pensieri: «Inizi con un’idea e la espandi finché non diventa realtà. Ti rende più consapevole non soltanto delle tue capacità, ma ti avvicina anche ai diversi tipi di carriera che potrai intraprendere dopo la laurea».
E la procedura di trasformazione di idee in realtà, pur fatalmente destinata a fallire, è stata il modus operandi di Stephen Glass fin dall’inizio della sua scalata al successo a New Republic. Michael Kelly, il direttore, si era preso a cuore la causa dei più giovani della redazione (oltre a Glass c’erano, tra gli altri, Jonathan Chait, ora commentatore politico del New York e Hanna Rosin, che oggi scrive su The Atlantic e Slate) e il taglio degli articoli del giovane dell’Illinois era a tutti gli effetti una manna per le rinnovate ambizioni del magazine.
Quando, nel dicembre del 1996, Glass firmò il suo primo articolo lungo, un’inchiesta sul Center for Science in the Public Interest, un centro di studi nutrizionali diretto da Michael Jacobson, Kelly, ricevute forti lamentele da parte dello stesso Jacobson, gli rispose con una lettera dai toni piccati dove pretendeva «scuse per Stephen Glass e per questo giornale». E il copione si ripeté anche in seguito alle obiezioni avanzate di un terzo giornalista, Jim Naureckas («prendo seriamente le critiche a New Republic, quando vengono da mittenti credibili. Lei non lo è»). Nell’articolo scritto da Glass, Jacobson veniva ritratto durante un lungo ed eccessivamente ostile interrogatorio di una cameriera di un ristorante cinese, e più in fondo si leggeva una frase incendiaria di un imprecisato funzionario della Food and Drug Administration. Il pezzo faceva passare l’ente di Jacobson come una congrega votata alla diffusione di psicosi alimentari, ma in nessuno dei due casi citati veniva fornita una fonte diretta, con nome e cognome, e rintracciabile. Come si sarebbe scoperto soltanto due anni dopo, era il primo di una lunga serie di invenzioni.
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Il resoconto più completo e dettagliato dell’incredibile messinscena di Glass è tuttora un articolo uscito su Vanity Fair nel settembre del 1998 e firmato da Buzz Bissinger, “Shattered Glass”, da cui in seguito nel 2003 è stato tratto un omonimo film diretto da Billy Ray (in Italia è uscito col titolo L’inventore di favole) con Hayden Christensen, Peter Sarsgaard e Chloe Sevigny. Nel suo lungo approfondimento, Bissinger ferma la lente d’ingrandimento sul complicato e spesso farraginoso schema di espedienti escogitato dal reporter per non essere scoperto da colleghi e amici.
Glass si dedicò a lungo a guadagnarsi la fiducia della redazione di New Republic, che lo ricorda come una persona sempre disponibile, umile e pressoché sprovvista di autostima (la sua frase più ripetuta, poi divenuta un mantra rivelatore nel protagonista del film di Ray, era un preoccupato «Ce l’hai con me?»), nonostante l’enorme successo di cui godeva. Stephen vestiva da figlio di papà, era imbranato ed effemminato, sapeva tutto di tutti perché ascoltava i problemi altrui, dava consigli, si faceva carico dei pesi dei colleghi. Nel frattempo, però, come un dottor Jekyll della Beltway, creava note false, false carte intestate, falsi messaggi vocali lasciati nella sua segreteria, falsi appunti, inventava società ed eventi immaginari, addirittura inseriva falsi errori nei suoi pezzi che servivano da ami per i responsabili del reparto fact-checking (di cui peraltro lui stesso aveva fatto parte, garantendosi per giunta una reputazione da revisore inflessibile). E continuava ad alzare il tiro, aggiungendo sempre nuove narrazioni immaginarie a cui piegare la realtà in cui viveva.
A rovinarlo fu senz’altro proprio la sua tendenza a tenere fede a quanto scritto nell’annuario scolastico: espandere le sue idee. Se i primi pezzi contenevano soltanto qualche particolare frutto della sua fantasia, Glass si trovò presto a inventare intere situazioni, personaggi, casi, in un gorgo di fiction che ha finito per risucchiarlo. Nello specifico, il passo falso che gli fece perdere l’equilibrio sopra l’abisso che aveva creato fu “Hack Heaven”, una storia da lui firmata per il New Republic del 18 maggio 1998 che trattava il presunto fenomeno degli hacker adolescenti assunti da aziende informatiche altrimenti incapaci di arginare le loro malefatte. Il quindicenne Ian Restil che agisce sotto il nome di “Big Bad Bionic Boy”, centro dell’articolo, non è mai esistito, così come non è mai esistita la Jukt Micronics, la società di software californiana di primo piano («big time», scrive Glass nel suo articolo, che si può trovare integralmente qui) che nel pezzo lo ingaggia per rimettere a posto i suoi database online.
Ogni singolo virgolettato, organizzazione (la fantomatica National Assembly of Hackers, ad esempio, che secondo Glass si sarebbe riunita poco prima a Bethesda, nel Maryland, casualmente anche la cittadina dove viveva Restil), ente governativo e fatto menzionato dall’autore è falso, un’abbacinante infilata di invenzioni pubblicate come reportage da uno dei maggiori settimanali americani. A dare l’input per accertarne la falsità è stato Adam Penenberg, oggi professore alla New York University e all’epoca reporter di Forbes Digital Tool (il risibile nome che aveva la versione digitale di Forbes), che quel venerdì, l’8 maggio, chiamò in redazione a Washington per parlare con Glass. Aveva fatto qualche ricerca sul meeting degli hacker e altri riferimenti del pezzo, e molte cose non gli tornavano. Al telefono c’era anche Chuck Lane, neo direttore succeduto a Kelly e oggi columnist del Washington Post, che da qualche tempo, avendo un temperamento diverso rispetto al suo predecessore, nutriva dubbi sul giovane talento della redazione.
«Non riusciamo a trovare nulla della Jukt», spiegò ai due Kambiz Foroohar, responsabile di Forbes Digital Tool. Avevano provato a chiamare e mandare email, ma i telefoni non erano raggiungibili e le mail tornavano al mittente. Non bastasse: «abbiamo dato un’occhiata al loro sito e ci sembra sospetto». Naturale, l’aveva aperto Glass stesso sulla piattaforma Aol poco tempo prima. Il falsario però non si scompose: «Non ho un sito web», chiosò restando impassibile, «perciò non capisco molto di queste cose. Mi fido più di voi che di me, ragazzi». Poi, fingendo un atteggiamento pensoso: «Sapete? Comincio a pensare di essere stato ingannato». Pescando a piene mani dal suo repertorio di bravo ragazzo bisognoso della stima altrui e sempre pronto a mostrarsi compiacente, Stephen Glass stava per averla vinta.
Lane però in mattinata chiese a Glass di portarlo a Bethesda, nel luogo dove si sarebbe dovuta svolgere la conferenza degli hacker. Il racconto dell’articolo di Bissinger a questo punto si fa di una bellezza rarefatta, che unisce al già preponderante nonsense di questa vicenda una nota di surrealismo. Direttore e fiore all’occhiello del giornale escono insieme e salgono sull’Honda di Glass, che «guida piano, va ai 37, forse 40 all’ora» e imbocca Wisconsin Avenue, l’arteria principale che collega Washington alla suburbia del Maryland. Entrano nella lobby dell’hotel Hyatt, quello di “Hack Heaven”, e Glass conduce Lane giù per una scala mobile e attraverso un corridoio, fino all’atrio di un palazzo antistante «a forma di ferro di cavallo, per nulla plausibile come ambientazione della conferenza che Glass aveva riportato». Eppure il ragazzo inizia a sommergere Lane di dettagli minuziosi riguardanti la sua immaginaria permanenza nell’hotel: era seduto su quella sedia nell’angolo, vedeva i partecipanti da questa prospettiva, prendeva note su quel tavolino. Tutto coincideva con ciò che era arrivato ai fact-checker di New Republic. Senza un tremito o un balbettio, Stephen Glass stava ricostruendo fino al più ininfluente dei dettagli una scena che non era mai esistita.
Quando un addetto alla sicurezza del posto fa notare al duo che l’edificio in quel tal giorno in realtà era chiuso, Glass si affretta a dire «quel che so è che mi hanno fatto entrare». Tornati in macchina, prima Glass ripete per un quarto d’ora «non ho fatto nulla di male». Poi, all’improvviso: «Ok, Chuck, ho mentito. Non sono andato alla conferenza», una frase che sembra aprire le porte a una confessione totale, ma in realtà è soltanto un altro aggiustamento di tiro: il summit c’era, certo, ma lui aveva scelto di farselo raccontare da alcuni partecipanti. Ecco la nuova versione, seguita dalle lacrime sulla spalla di Lane per la sua vita che va a rotoli, i genitori che lo costringono a laurearsi in legge (e Glass era davvero iscritto al Georgetown University Law Center), i timori di essere licenziato dal giornale.
Di ritorno a Washington, Chuck Lane si focalizzò su un altro pezzo recente firmato da Glass: un’esposizione di cimeli di Monica Lewinsky, la stagista della Casa Bianca dello scandalo scoppiato pochi mesi prima. Nessuna telefonata poté confermare quanto scritto dal suo giornalista. Decise di sospenderlo, ma rimaneva il fatto che finora l’unica invenzione da lui ammessa era quella inerente al luogo della conferenza. Restavano altre matasse da sbrogliare. George Sims, il portavoce della Jukt Micronics, e il suo messaggio in segreteria stranamente proveniente da un telefono cellulare di Palo Alto, ad esempio, andavano ancora compresi. La sera di venerdì, al telefono con Lane, Margaret Talbot – caporedattrice del magazine – fece per caso riferimento al fratello di Stephen, Michael, che viveva in California. A Palo Alto.
Il mattino dopo Lane si svegliò presto e andò in redazione in anticipo: ci trovò Glass, e decise che era ora di mettere in scena la resa dei conti. Gli intimò di dire tutta la verità e lo ammonì circa la gravità dell’aver messo in mezzo un suo familiare. Lui negò, disse che George Sims era «una persona vera», si allontanò dicendo di avere un aereo per Chicago. Tornò dieci minuti dopo per ammettere la sua seconda bugia. Ma ormai, come un artista in parabola discendente che non sa far altro che il numero che l’ha reso popolare, non sapeva più cosa fosse la verità: spiegò che Sims esisteva, ma l’ansia generata in lui dai reporter di Forbes l’aveva costretto a chiedere al fratello di fingersi chi non era, per calmare le acque. In ogni caso poteva spiegare tutto, si capisce.
Se non fosse stato per il rigore di Chuck Lane, Stephen Glass sarebbe rimasto a camminare sul versante opposto del crinale che separa la tragedia di un uomo dal suo successo, e chissà per quanto ancora.
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In occasione del centenario di New Republic Hanna Rosin, autodefinitasi «migliore amica» di Glass a quei tempi, l’ha incontrato per la prima volta dopo sedici anni. «L’ultima volta che gli ho parlato» scrive nel risultato dell’incontro pubblicato sull’ultimo numero del giornale, che non ha mai completamente superato i contraccolpi di questa vicenda, «mi stava implorando di proteggerlo da Chuck Lane».
«Quello che ho fatto è orribile, e chiedere alle persone di difendermi è stato orribile», sono state tra le prime parole pronunciate da uno Stephen Glass ormai di mezza età, con gli stessi riccioli, gli stessi occhiali ma una presenza più matura e virile. Oggi lavora in uno studio legale di Beverly Hills che si occupa di lesioni personali e vive con la sua fidanzata, Julie Hilden, un cane e due gatti. I suoi sensi di colpa si acutizzano quando ripensa a Kelly, che provo subitò a mettere contro Lane. Michael Kelly è morto appena cinque primavere dopo, nell’aprile 2003, poco lontano da Baghdad. Raccontava la guerra in Iraq.
«Volevo che provaste qualcosa in mia presenza, che foste entusiasti all’idea di starmi accanto», ha spiegato alla sua vecchia amica una delle più grandi nemesi del giornalismo mondiale. Le ha detto che desiderava essere apprezzato da lei e da Jonathan (Chait) perché vedeva in loro la sua nuova famiglia. “Hello, my name is Stephen Glass, and I’m sorry” è l’esergo del racconto di un’amicizia, prima ancora che l’ultimo atto di una vicenda senza pari. Sotto la superficie delle righe scritte da Hanna Rosin risaltano dozzine di tic, ansie e sforzi tipici di una persona tradita che prova a ritrovare la sua fiducia nel traditore («suonava come il vecchio Steve», «l’ho ascoltato e ho sentito scattare un allarme»).
Come un paziente di un libro di Oliver Sacks, Glass continua a vivere negli anni della sua grande truffa: quando si decise a vedere Shattered Glass a una proiezione organizzata da David Carr, non trovò il posto e temette di doverlo dire e non essere creduto («Il film fa sembrare che ci fosse un qualche divertimento da parte mia. Ma non è mai stato divertente. Mi sentivo depresso, ansioso e triste» è il suo commento alla pellicola). È stato per lungo tempo convinto che i suoi vecchi amici di New Republic continuassero a vivere insieme, anche a decenni di distanza. Con Rosin ha ripercorso tutte le sue mistificazioni, una per una, nei minimi dettagli, come quando portava in scena i suoi spettacoli. Solo che stavolta lo ha fatto per scusarsi.
Approfondendo la storia di Stephen Glass me ne è quasi immediatamente tornata in mente un’altra, anch’essa di pura nonfiction e anch’essa molto famosa: quella di Jean-Claude Romand, l’omicida protagonista del memorabile L’Avversario di Emmanuel Carrère. Romand finse con successo per diciotto anni di essere un ricercatore dell’Oms a Ginevra, quando in realtà usciva di casa e passava le sue giornate all’aeroporto, in bar e ristoranti lungo la strada, a camminare nei boschi al confine tra Francia e Svizzera, all’insaputa di tutti. Come Romand, Glass è un ex adolescente timido e introverso con problemi di relazione con gli altri. Come Romand, la vita di Glass è segnata da un rapporto ambiguo con genitori assillanti e pieni di ambizioni per i figli. E come Romand, Glass ha iniziato con qualche bugia di poco conto, «un banale incidente», per poi espandere il suo raggio d’azione.
Una domanda si staglia come un monolite sopra a entrambe queste due vicende degli anni Novanta: che cosa pensava? Per quanto Romand avrebbe potuto accumulare debiti truffando i suoi familiari? Come faceva Glass a credere di potersi inventare dichiarazioni di politici, conferenze e portavoce in articoli letti da centinaia di migliaia di persone? Per entrambi sembra valido quel profilo antropologico tratteggiato da Carrère, l’Avversario che induce a mentire promettendo stima e amore sempre più inafferrabili. Sia Carrère che Rosin alla fine dei loro scritti sembrano sentirsi in dovere di giustificare l’aver fatto concessioni, seppur minime, a un bugiardo di quelle proporzioni – per quanto i due casi presentino evidenti differenze. Per Carrère la sua stessa opera può essere «soltanto un crimine o una preghiera». Per Hanna, la vecchia amica di Steve, «il perdono è una scelta». E lei, dice, ha deciso di farla.
Oggi Glass si occupa di persone vittime di infortuni e incidenti. Le sue traversie hanno un ruolo fondamentale nel suo lavoro: a ogni cliente racconta dall’inizio la sua storia, in modo che quest’ultimo sia di riflesso invogliato a condividere i suoi segreti (un testimone che non sarebbe dovuto essere lì con lui nel momento dell’incidente, tipicamente), sovente importanti in ottica processuale. In una palingenesi atipica Stephen Glass confessa ogni settimana, forse per sopperire a quante volte non ha confessato l’8 maggio 1998. Ha compromesso il giornale dove lavorava e la sua carriera da giornalista e molto altro, ma gli dispiace. Questo sì: gli dispiace.