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 2014  novembre 15 Sabato calendario

MI CHIAMO GINESTRA: NON POTEVO MANCARE NEL FILM SU LEOPARDI


[Ginestra Paladino]

Tiene la figlia stretta a sé, lo sguardo impietrito per l’impotenza. Sullo sfondo il vulcano erutta, mentre la voce fuori campo di Elio Germano inizia a declamare: «Qui su l’arida schiena/ del formidabil monte/ sterminator Vesevo,/ la qual null’altro allegra arbor né fiore,/ tuoi cespi solitari intorno spargi,/ odorata ginestra,/ contenta dei deserti». C’è un legame invisibile tra l’attrice e la poesia nella scena clou di Il giovane favoloso di Mario Martone, film boom d’incassi a (confortante) sorpresa. Perché si chiama... Ginestra. Ginestra Paladino: è la figlia di Mimmo, uno dei maestri della Transavanguardia. Eclettica, ha alternato l’impegno teatrale con Toni Servillo (Sabato, domenica, lunedì), Enzo Moscato e Pappi Corsicato, al monologo da lei scritto (La rivoluzione siamo noi), al cinema (L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino e Manuale d’amore di Giovanni Veronesi) e alla tv (Distretto di polizia).

Nomen omen. Ha qualche punto in comune con la ginestra della visione leopardiana? Flessibile, eppur salda?
Eh, questi versi sono stati la mia spada di Damocle sin dall’esame di terza media: tutti si aspettavano che li sapessi a memoria, e non è che siano pochi... È un fiore che conosco bene. La campagna dove sono cresciuta, nel Beneventano, ne è piena: non si recide facilmente, però si piega. Con il passare degli anni mi rendo conto di somigliarle: più volte hanno provato a spezzarmi, più volte mi sono rialzata.
Come mai le hanno dato questo nome?
Negli anni Settanta i miei genitori frequentavano gli autori dell’Arte Povera e la moglie di uno di loro, Pier Paolo Calzolari, si chiama Ginestra. Mamma l’ha trovato bello.
Bello, e altrettanto impegnativo.
All’inizio ho avuto difficoltà a gestirlo (i compagni di classe non ti danno tregua), poi invece l’ho apprezzato e portato con gioia. Infatti ai miei figli non ho dato per reazione nomi molto comuni, bensì Ettore, Leandro e Pietro.
La sua infanzia non sarà stata ordinaria comunque, a prescindere dal nome.
Se sei in un circo non ti accorgi di stare su un trapezio. A posteriori ti dici: wow, che esperienza! Lo stesso per me: quando ho messo a posto l’archivio di mio papà - foto, filmati - mi sono resa conto di aver attraversato due generazioni di arte contemporanea... All’epoca mi pareva normale.
Ricordi ancora vivi?
Avrò avuto 4 anni. In una galleria di Rotterdam papà esponeva una installazione: per terra c’era la sabbia. I bambini olandesi passavano e la lasciavano al posto suo. Per me la sabbia era sinonimo di gioco e, con nonchalance, mi sono seduta e ho fatto un castello. Ah: un’altra volta, ad Amsterdam, ho lanciato Cicciobello, il bambolotto, su un Van Gogh.
Cicciobello?
Cicciobello era il compagno dei miei viaggi, stupendi ma sempre legati a mostre: mi dovevo adattare a un sistema anni ‘70 in cui era naturale che i bambini stessero con gli adulti.
Mai una ribellione?
Mah, niente di clamoroso: alla Biennale di Venezia dell’89 rimasi sempre in camera a guardare la tv... Cose così.
E la scelta di diventare attrice?
Coincidenza: c’entra Martone. Quando avevo 16 anni diresse Veglia, di cui papà curò la scenografia. Mi sentì catturata in maniera profonda. Figlia ubbidiente, ero consapevole di dover finire il liceo e frequentare l’università. Mi iscrissi a Filosofia ma lì iniziai davvero a scalpitare: chiesi a Mario di suggerirmi un percorso da attrice, mi indirizzò alla Scuola Paolo Grassi, a Milano. Quando mi hanno preso, mia mamma stava per piangere, papà era contentissimo: è il mio complice sotterraneo da vent’anni.
Cosa significa per lei recitare? Qualcosa di liberatorio, un uscire da sé?
Forse all’inizio... Adesso è piacere puro, mi dà energia. Non devo fuggire da me stessa: mi reputo abbastanza contenta di quello che sono, i miei figli - che ho intensamente voluto - mi hanno dato questa forza. Sono una madre e una figlia felice, con i miei ho un dialogo costante. Che papà sia un artista è solo un valore aggiunto.