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 2014  novembre 15 Sabato calendario

CACCIA AL TESORO (IN FONDO AL FIORDO)


C’è un posto dove russi e ucraini vivono insieme in pace e armonia. È in un piccolo arcipelago oltre il Circolo Polare nel mar Glaciale Artico, a mille chilometri dal Polo Nord e 3 mila da Mosca, dove 500 ex cittadini sovietici lavorano in una vecchia miniera ai confini del mondo tra ghiacciai, nevi perenni, aurore boreali, foche, trichechi, renne, e più orsi polari (4 mila) che abitanti (2.500). Nelle Svalbard norvegesi, l’isola di Spitsbergen, il cui nome significa “costa fredda”, è un’enclave russa sotto la sovranità territoriale di Oslo. Anche Mosca, secondo un trattato del 1920, ha diritto di sfruttarne suolo e risorse. E pur se le miniere sono in perdita da decenni, non vuole mollarla per nessuna ragione. Il carbone è solo una scusa: in ballo ci sono le immense riserve di idrocarburi, pesce e minerali preziosi custodite sul fondo del Mar di Barents. Che ora, con lo scioglimento dei ghiacci, diventano sempre più accessibili, e fanno gola a tutte le potenze mondiali. La corsa al nuovo Klondike dei ghiacci è già cominciata: nel 2007 Mosca ha piantato una bandiera in titanio nella gelida profondità di questi abissi.

E lo scorso ottobre ha annunciato che presidierà militarmente le proprie coste confinanti con l’Artico, sottomarini inclusi, per “proteggere gli interessi russi”. Nella primavera 2015 chiederà all’Onu di allargare il proprio territorio nell’Oceano Artico di circa 1,2 milioni di chilometri quadrati. Ma a Pyramiden e Grumant, ex villaggi minerari sovietici abbandonati nel ‘61 e nel ‘98, il tempo è fermo agli anni Cinquanta, l’epoca d’oro quando sulle Svalbard abitavano più sovietici (1500) che norvegesi, manifesto dell’utopia socialista realizzata, e l’Artico era l’avamposto più settentrionale della Guerra fredda, l’ultimo a cadere. Oggi ricordano il film Stalker di Tarkovsky: condomini diroccati e deserti tagliati dal vento, una ferrovia arrugginita, e la statua di Lenin più a Nord del mondo. Su una parete scrostata una foto di Gorbaciov in bianco e nero. Un vecchio cimitero sepolto nella neve. A Pyramiden sono rimaste sette persone, e nemmeno un bar.
L’ultimo bastione russo nell’arcipelago è Barentsburg, sede della società ArktikUgol che impiega i minatori, in maggioranza provenienti dal Donbass nell’Est ma anche dall’ovest dell’Ucraina, e dal Sud della Russia. C’è una biblioteca, un complesso sportivo con piscina di acqua attinta dal Mar di Groenlandia, un gruppo folk, un museo, si pubblica una rivista bimestrale, il Giornale Russo delle Svalbard, e d’estate si tiene un festival di musica nordica russa, o meglio “Pomora”, dal nome dell’antico popolo slavo che avrebbe messo piede per primo su queste terre, molto prima dei norvegesi secondo gli scienziati di Mosca.
Il Palazzo della Cultura «è molto frequentato, specie durante le feste nazionali» russe, dice il direttore Valeri Norkin, arrivato un anno fa da Lugansk su invito di amici: «Qui non c’è altro da fare». Depressione? «Non è un posto dove si può passeggiare o andare fuori nel weekend, non ci sono strade fuori città». Montagne tutt’intorno, il fiordo freddo anche d’estate. Difficile metter radici: nessuno è nato qui, i lavoratori si danno il cambio ogni cinque anni, oltre, pare, rischiano di impazzire. Età media 30-35 anni, 62% sono uomini, 50 i bambini, stipendi molto più alti che in patria. A 55 km c’è Longyearbyen, la capitale norvegese di 2 mila abitanti: un altro mondo, «più internazionale, più libera, più ricca» nota Norkin, ha locali notturni, l’aeroporto, la Banca dei semi globali finanziata da Bill Gates, e una miniera appena aperta, anche questa per ragioni strategiche e geopolitiche. Ci si arriva in nave (1,5 ore) d’estate, o in elicottero (15 minuti). Il futuro? «Non ne parliamo: lavoriamo e basta. Ma se chiude la miniera, se ne vanno tutti».

Barentsburg non è un posto per vecchi. Anche se il freddo è relativo, grazie alla Corrente del Golfo ha un clima simile alla Carelia. Qualcosa dell’utopia socialista è rimasto: zona tax free e demilitarizzata. Lena, 37 anni, come tutti, non usa denaro liquido ma una speciale tessera-stipendio della ArktikUgol da cui vengono detratte spese, pasti e consumazioni. Poche, in verità. Le manca Donetsk (Ucraina) nonostante la guerra: ogni giorno preoccupata chiama i suoi parenti rimasti lì. Ha gli occhi gonfi di orgoglio quando mette in tavola come un dono prezioso un piattino con fette di cetriolo coltivate sul davanzale d’inverno.

Al futuro pensa invece Timofei Rogozhin, e non si annoia. «D’inverno, certo, la notte polare non finisce mai, inizia a fine ottobre e termina a fine febbraio… è facile farsi catturare dalla nostalgia. Cerchiamo di comunicare di più, stare più vicini anche se non è semplice». Fondatore del tour operator RussiaDiscovery, si è trasferito a maggio da Murmansk, Nord della Russia, con la famiglia, e ha un sogno: sviluppare il turismo nell’enclave. A finanziarlo, da tre anni, è la stessa ArktikUgol. «È difficile: ma questo è un posto unico al mondo, con una natura selvaggia meravigliosa, il 90% è riserva protetta». I norvegesi hanno cominciato prima, negli anni ‘90, e oggi si accaparrano quasi tutti i 70-80mila turisti che ogni anno visitano l’arcipelago, norvegesi e stranieri, perlopiù con gite in barca che fanno tappa un giorno: «ma è un turismo da vecchi, noi puntiamo ai russi che hanno voglia di avventura e agli appassionati dell’estremo». Cani da slitta, trekking, crociere estive, sci alpinismo, escursioni, pesca d’altura, spedizioni polari, droni e archeologia industriale sovietica. «Lenin e le vecchie lapidi sono per i turisti. Li adorano. E noi non interferiamo» strizza l’occhio Timofei convinto: il futuro delle Svalbard è nel turismo, nell’ecologia e nella scienza. Qui vengono molti ricercatori, anche italiani, a studiare l’alternanza luce-buio, le galassie.

A Barentsburg dal 2012 ha riaperto un albergo e un ostello, un Centro di ricerca finanziato da Mosca «per garantire la presenza russa nelle Svalbard» e si produce persino una birra, “Orso Rosso”. Per ora i numeri sono bassi: dei 12 mila visitatori di passaggio a Barentsburg, solo 70 quest’anno si fermeranno più di poche ore. Il problema sono i costi: volare quassù costa meno via Oslo (400 euro) che col diretto da Mosca (700). Timofei sogna i charter dalla madrepatria. E l’adesione della Norvegia, Paese Nato, alle sanzioni contro la Russia? «Beh, qui da noi è un po’ più facile. Siamo più lontani dalla politica, in tutti i sensi», ride.