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 2014  novembre 16 Domenica calendario

NORMAN DELLE COPERTINE

«Rispettare le scadenze e farsi venire nuove idee sono il flagello di un illustratore. Questa non è una caricatura di me stesso; sono davvero fatto così». Chi parla è Norman Rockwell (1894-1978); ciò di cui parla è un dipinto che raffigura sé stesso, uno dei rari autoritratti. Non è quello, però, celeberrimo, che campeggia al centro di questa pagina e troneggia in una delle sale più belle della mostra che la Fondazione Roma dedica alla sua arte. È di molto precedente: siamo nell’ottobre del 1938 quando «Artist Facing Blank Canvas» («Artista di fronte a una tela vuota») esce sulla copertina del «Saturday Evening Post». Ma c’è molto, in questo e nel successivo triplo autoritratto, del 1960, di quello che c’è da sapere di Rockwell.
Prima di tutto la definizione che di sé da Rockwell. «Illustratore». Non se ne vergognava, non gli sembrava sminuente. Era un pittore di primissima grandezza e tecnica sopraffina (e lo capisce anche un orbo) ma sapeva benissimo che quella sua arte era messa al servizio di un ben preciso mezzo di comunicazione: un giornale, meglio: la copertina di una rivista popolare. Rockwell conservò con sé, per tutta la vita, la prima copertina da lui realizzata il «Post»: «Ragazzino con carrozzina» del 1916. Aveva 22 anni. Era un memento e promessa di futuro. Da quella prima cover iniziò una delle collaborazioni artista-editore-testata più riuscite e longeve delle storia: Rockwell creò, infatti, per la rivista ben 321 copertine in 47 (!) anni. Di fatto, per l’America, Rockwell era il «Post» e viceversa. Ogni copertina, la stessa storia. E Norman lo sa bene. Farsi venire un’idea buona e rispettare la scadenza: un orologio è appeso sulla sinistra della tela nella quale l’artista ha già disegnato la tipica struttura della prima pagina del «Post» dell’epoca. Due linee parallele nere, un tondo – che è cifra pittorica di questa fase di Rockwell – a delineare i confini dell’immagine rispetto agli altri elementi testuali, la testata, con le lettere disegnate a mano. Ovviamente è una questione di soggetti, è una questione di opportunità, e anche di possibilità. Hai una sola prima pagina, non la puoi sbagliare. Per anni Rockwell ricorre a espedienti visivi-semantici piuttosto semplici: la raffigurazione della rassicurante famiglia e vita americana, sempre un gattino o un cane da qualche parte, ragazzini sorridenti, babbi natale quand’è stagione, tacchini del ringraziamento... I buoni, insomma: ogni copertina narra una storia e quella storia ha sempre un lieto fine. Diceva, del resto, che non gli riusciva di dipingere i personaggi cattivi. Ma non era certo un ingenuo: quando disegna l’albero genealogico di un tipico ragazzino americano, lo fa discendere da farabutti e pirati, da indiani d’America e donne di dubbia moralità: cioè come si è fatta l’America. Le copertine, nel tempo, vanno intanto cambiando: da scene divertite e spensierate si passa ai fatti di cronaca (la trasvolata di Lindbergh), ai mutamenti sociali. La sua ultima copertina realizzata per la rivista, il ritratto di John F. Kennedy (1960), sarebbe poi stata pubblicata una seconda volta in occasione della tragica morte del presidente nel 1963. Nella parte finale della carriera, la produzione di Rockwell è molto più impegnata e "scura": l’ultimo suo dipinto, un omicidio nel Sud degli Stati Uniti, è una scena addirittura biblica, immersa in un buio infernale, rischiarata dal bianco della camicie, disperatamente chiazzate dal rosso del sangue: una moderna pietà che è spiazzante e non diresti mai che l’ha dipinta la stessa mano, la stessa mente (sì, le due cose vanno insieme, ha ragione Tullio Pericoli, nel caso dell’artista) dei cagnolini guizzanti e delle ragazzine che stanno per assaggiare la prima cucchiaiata di gelato.
Ecco. La mostra di Palazzo Sciarra a Roma non è solo un omaggio all’arte eccezionale di Rockwell (che ci voleva); è proprio un modo di accompagnare lo spettatore attraverso la vita artistica di questo gigante facendogli capire cosa ha fatto, come e perché. L’allestimento è sobrio, al limite del didascalico: ma così deve essere. Interpreta benissimo la stessa natura del lavoro di Rockwell. Una copertina, a suo modo, deve essere didascalica: poi c’è modo e modo di esserlo. La mostra di Roma è fatta per essere capita e per proporre al visitatore un’esperienza di contatto reale con l’artista. La sfilata delle copertine prelude al metodo della loro realizzazione (Rockwell dipingeva a olio quello che sarebbe poi stata la pagina), con il pensiero dell’effetto che avrebbe fatto una volta nel chiosco dell’edicolante. Poi ecco i dipinti, i ritratti, i temi più impegnati, i documenti: è un pezzo, lungo, di storia americana (reale e onirica allo stesso tempo). La mostra di Roma non è mai banale, come non lo era Rockwell. Retorico e leccato, sì, quando ci voleva, ma consapevole dei propri mezzi. Quando nel 1960 realizza il «Triplo autoritratto», sfoggia una perfetta conoscenza della tradizione. Al cavalletto i ritratti di Dürer, Rembrandt, Picasso e Van Gogh. Di me si penserà pure, sembra voler dire, che sono un inutile illustratore, ma sono in grado di dipingere come gli antichi maestri. Aveva solo scelto di fare anziché tele da appendere alle pareti delle case dei nobili, dei fogli di giornale per le case di tutti. Aveva scelto di essere a suo modo contemporaneo, sapendo però quale enorme tradizione aveva alle sue spalle. Perciò è diventato un classico della sua nazione. Aveva un’idea nobile della pittura, anche quando era al servizio di una cosa vile come la pubblicità o il giornalismo. È una lezione che ha sempre impartito a quei critici che blateravano della sua banalità solo perché dipingeva bene. Persino troppo bene.
Stefano Salis, Il Sole 24 Ore 16/11/2014