Salvatore Silvano Nigro, Il Sole 24 Ore 16/11/2014, 16 novembre 2014
COME DIFENDERSI DAGLI ESORDIENTI
Era un grande scrittore, ma diceva di condurre una vita da impiegato del catasto. La sua era una dichiarazione di decorosa modestia. Con essa, Leonardo Sciascia amava collocarsi in quella zona umbratile che lo salvava dai salotti, dal presenzialismo e dal clamore del successo. Lasciava cadere la battuta tra le pause e le interruzioni del suo ragionar calmo e laconico, magari decentrandola nell’autoironia di un sorriso. Della sua regola di vita, Sciascia era più che convinto. Non lo erano per nulla i postulanti, che lo volevano potente e intrigante, pronto a soddisfare l’"amicizia": parola italiota da sempre ufficialmente protetta, timbrata com’è da pretese mafiose, camorristiche, o di basso familismo. Sciascia si schermiva. Parava i colpi. E ne soffriva.
La parola "amicizia" può essere moralmente patologica, eccedente, smisurata. Dovrebbe giustificare tutto, e tutto assolvere. Fa appello ai sentimenti, e a un malinteso senso di complice e generosa umanità. È ricattatoria.
Sciascia era scrittore di successo e di prestigio. Attorno a lui (come a tutti quelli che vengono ritenuti "arrivati") sciamavano "amici" con manoscritti in mano o sotto il braccio. Pretendevano un giudizio che, tra congiurati d’affetto e di frequentazione, non poteva non essere positivo. E la parola "giudizio", nel vocabolario dell’amicizia, significava semplicemente: «mandare il manoscritto a un editore», con entusiasmo, garantendone (o imponendone) la pubblicazione: «quando una cosa si vuole fare, si fa». Ne nasceva una pantomima di disagio e di pena. Sciascia la raccontava, con ironica leggerezza: «Il mio ospite conviene che sì, ci sono tanti seccatori: ma il suo caso è diverso, il suo lavoro io ho il dovere di leggerlo e di mandarlo all’editore; e lui e io insieme, lui come rivelazione e io come rivelatore, passeremo alla gloria eterna. Declino il dovere e rinuncio alla gloria adducendo il fatto che presso gli editori esistono persone intelligenti che si dedicano esclusivamente a leggere manoscritti. Non ci crede. Insisto. Avanza dubbi sulla intelligenza di questi lettori. Rispondo che sono intelligenti. Ribatte che forse sì, ma forse non sono onesti. Certifico l’onestà dei lettori editoriali. Va bene, saranno intelligenti, saranno onesti: ma io il manoscritto debbo mandarlo scavalcando lettori e redattori».
Sciascia apriva le braccia, sconfortato. Dichiarava che nulla poteva presso gli editori. Il cliente in cerca di patronato trasaliva. E si chiedeva se per caso non si fosse confuso, sbagliando persona. Era una scena che Sciascia viveva pirandellianamente. La raccontava però alla maniera antica della quattrocentesca Novella del Grasso legnaiuolo: «Qualcuno arrivava a chiedermi se io sono proprio quello che scrive, se per caso non si trovava davanti a un omonimo».
I manoscritti si accumulavano. Diventavano cataste. Sciascia non li leggeva. E neppure li buttava. Aveva rispetto per gli autori. Da qualche parte molti di questi manoscritti esisteranno ancora.
Quanto qui raccontato è ai confini del genere novellistico. Eppure è estrapolato da un articolo di giornale dedicato ai "mestieri difficili", il più difficile dei quali è quello di scrittore. Soprattutto quando si ha la delicatezza di Sciascia, che aveva considerazione per le ambizioni altrui, persino quando erano sbagliate; e si angosciava, e si sentiva in colpa, se un suo amico scrittore non raggiungeva il successo. Esagerava. Mi si permetta un ricordo. Sciascia era gravemente malato. Riceveva gli amici in un appartamentino messogli a disposizione da Elvira Sellerio a Milano, in via Solferino. Non si reggeva in piedi. Stentava a parlare. Uno scrittore di grande insuccesso gli chiese se poteva raccontare su un giornale che lui stava morendo. Sciascia assentì, abbassando il mento con rassegnazione e magnanimità. Si sentiva in difetto di fronte all’insuccesso dell’amico.
L’articolo è stato recuperato dall’archivio del giornale «L’Ora» di Palermo. Venne pubblicato da Sciascia il 29 gennaio del 1966. «L’Ora» non era soltanto un foglio di battaglia, contro la mafia e il malgoverno. Era anche una officina letteraria, dentro la quale appuntirono le penne scrittori come Sciascia, Consolo, Perriera e Giuliana Saladino. Dentro l’archivio del giornale palermitano bisognerebbe ridiscendere. Vi si troverebbero tanti racconti di Sciascia, mascherati da articoli occasionali. Alcuni non sono neppure registrati nelle bibliografie.
L’editore Henry Beyle ha il merito di avere recuperato questo impareggiabile e dimenticato racconto di Sciascia. E d’averlo fatto in un’edizione d’artista, in trecentosettantacinque copie numerate, degna dello scrittore che fu sodale dello stampatore d’arte Franco Sciardelli e del l’editore Enzo Crea, inventore, a Roma, delle preziose Edizioni dell’Elefante.
I mestieri difficili è una scialuppa sontuosa che non sfigura accanto a quella nave ammiraglia che è l’edizione adelphiana delle «Opere» di Sciascia, curata da Paolo Squillaciotti.
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Leonardo Sciascia, I mestieri difficili, Edizioni Henry Beyle, Milano,
pagg. 20, € 20,00
Salvatore Silvano Nigro, Il Sole 24 Ore 16/11/2014