Andrea Tornago, Wired.it 17/11/2014, 17 novembre 2014
Tutto da riscrivere, 36 anni dopo. Dalla presenza di elementi esterni nel commando delle Brigate Rosse, al ruolo del “consulente” degli Usa nella gestione del sequestro Moro
Tutto da riscrivere, 36 anni dopo. Dalla presenza di elementi esterni nel commando delle Brigate Rosse, al ruolo del “consulente” degli Usa nella gestione del sequestro Moro. Fino all’esatta dinamica dell’agguato di via Fani, in cui il 16 marzo 1978 venne eliminata la scorta e rapito il presidente della Dc Aldo Moro. Un evento spartiacque nella storia d’Italia, che non ha smesso di proiettare le sue ombre sul presente. È un documento straordinario quello del procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, che rimette in discussione più di trent’anni di storia giudiziaria sul caso Moro. A partire dall’aspetto più inquietante: il ruolo del consulente inviato dal Dipartimento di Stato Usa per affiancare le autorità italiane nella gestione del sequestro, Steve Pieczenik. Contro cui ora il pg di Roma chiede di procedere per “concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978” per aver contribuito a far apparire la morte dell’ostaggio come “lo sbocco necessario e ineludibile, per le Br, dell’operazione militare attuata in via Fani”. Pieczenik, allora stretto collaboratore del segretario di Stato Usa Henry Kissinger, si era già assunto questa responsabilità in un’intervista a Panorma nel 1994 e nel libro-intervista del giornalista Emmanuel Amara pubblicato in Francia nel 2006, Nous avons tué Aldo Moro. Ma per la prima volta la procura generale di Roma gli attribuisce intenzioni e fatti determinati, finora mai formulati con tanta chiarezza: la missione di Pieczenik avrebbe avuto come obiettivo “mettere le mani sui testi e sui nastri dell’interrogatorio di Moro, eliminare Moro, costringere al silenzio le Br”. Una missione di fog of war (“nebbia di guerra”). Per la magistratura italiana “la più grande operazione di guerra psicologica dal 1945”. Il “consulente” Usa al Viminale. Pochi giorni dopo il sequestro di Aldo Moro a Roma arriva un “consulente” del Dipartimento di Stato Usa esperto di lotta al terrorismo, uomo vicino al “falco” Henry Kissinger. Durante il rapimento lavora a stretto contatto con il ministro degli Interni Francesco Cossiga in qualità di esperto di antiterrorismo, uno dei ruoli che occupa anche nell’amministrazione americana. Psichiatra nato a Cuba e cresciuto in Francia, laureato ad Harvard e al Massachussets Institut of Technology, “il dottor Pieczenik è uno di quegli uomini ombra cresciuti nel dopoguerra – scrive Emmanuel Amara in Abbiamo ucciso Aldo Moro – in piena guerra fredda. Su di lui si sa pochissimo. (…) Furono le eminenze grigie di Henry Kissinger a offrirgli il primo lavoro come consulente presso il ministero degli Esteri”. Il suo contributo in quegli anni spaziava dai negoziati sugli ostaggi all’addestramento alla guerra psicologica per gli agenti della Cia. In Italia Pieczenik – scrive il procuratore generale di Roma – arriva dopo la pubblicazione del comunicato n. 3 delle Br, il 29 marzo ’78. In quel documento i brigatisti annunciano che l’interrogatorio di Moro procede “con la completa collaborazione del prigioniero” e che le informazioni “verranno rese note al movimento rivoluzionario”. E allegano una lettera di Moro al ministro Cossiga – che in un primo momento sarebbe dovuta rimanere riservata – in cui il presidente della Dc cerca di indicare al governo una via d’uscita. Invoca una “ragion di Stato” per cui si sarebbe dovuta intavolare una trattativa, precisando di essere “sotto un dominio pieno e incontrollato” e di correre “il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa”. Quella frase di Moro, scrive il procuratore generale Lugi Ciampoli, è il momento di svolta nel rapimento. Il sequestro Moro d’un tratto diventa un pericolo serio per la Nato. Vi sono segreti che non possono essere rivelati, come la rete Stay-Behind “Gladio” che nel ’78 – in piena guerra fredda – è ancora coperta dal segreto di Stato. Gli Usa, che nella prima fase del rapimento avevano rifiutato di fornire aiuto all’Italia, inviano il loro uomo a Roma. Con intenti precisi e inconfessabili, che potrebbero spiegare anche il basso profilo attribuito fino ad ora al “consulente” americano nella gestione del sequestro: recuperare i nastri dell’interrogatorio di Moro, eliminare Moro, e costringere le Br al silenzio. “Mettere le mani sui testi e sui nastri dell’interrogatorio di Moro – scrive il pg di Roma – serviva a sapere cosa il prigioniero avesse detto, per predisporre una qualche difesa in caso ciò fosse venuto fuori: far sparire prove e testimoni; allestire prove false che smentissero quelle dichiarazioni; organizzare operazioni di «nebbia di guerra»”. La versione di Pieczenik. “Vi è forse, nel tener duro contro di me, una indicazione americana o tedesca?”. Oggi queste parole di Moro, scritte il 10 aprile ’78, risuonano quasi sinistre. Dalla “prigione del popolo” il presidente della Dc doveva aver percepito con precisione che il gioco non si svolgeva solo su uno scacchiere italiano. E d’altra parte Pieczenik, in Abbiamo ucciso Aldo Moro, descrive un quadro ancora più grave. “[Cossiga] non mi nascose niente – prosegue il consulente Usa – e qualche ora dopo il mio arrivo, durante il nostro primo incontro, mi confidò: «Non abbiamo nessuna idea di come affrontare questa crisi, non abbiamo né una strategia né un sistema operativo»”. Lo psichiatra americano riceve carta bianca dal governo italiano. Dorme per quattro settimane “con la pistola appoggiata alla gamba e con la canna puntata in direzione della porta” all’hotel Excelsior, nel centro di Roma, “lo stesso in cui il maestro venerabile della loggia P2 Licio Gelli aveva una suite”, ricorda lo storico e senatore del Pd Miguel Gotor. Diventa l’“uomo ombra” del comitato di crisi, racconta di aver convinto Cossiga di dover “sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia”. Le ammissioni di Pieczenik ora si trasformano nell’atto di accusa della magistratura italiana: “Fin dal mio arrivo, l’apparente volontà di negoziare nascondeva in realtà una totale assenza di trattative – sostiene sempre Pieczenik – e le Br commisero un grave errore con me: non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola”. Metterli in condizione di dover uccidere Aldo Moro. E costringerli a non rivelare quanto emerso nell’interrogatorio del presidente della Dc. Obiettivo raggiunto, come dimostrerebbe l’improvvisa marcia indietro rispetto alle rivelazioni che i brigatisti avevano promesso di “rendere note al popolo”. E la scomparsa dei nastri con la registrazione dell’interrogatorio di Moro. Un risultato, quest’ultimo, difficile da ottenere, raggiunto con strategie ancora più oscure: vi fu un ruolo della Nato? O di “qualche non meglio precisato apparato di sicurezza” e della malavita organizzata? O di tutti quanti insieme? Pieczenik potrebbe essere chiamato a rispondere davanti alla Procura di Roma. Anche se sarà quasi impossibile, in quel caso, che la magistratura italiana ottenga la sua estradizione dagli Usa. E anche la nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro avrà qualche difficoltà a sentirlo, dato che Pieczenik – come nota lo storico Aldo Giannuli – si terrà lontano dall’Italia per paura di essere arrestato. “Quel che è certo – conclude il procuratore generale – è che Steve Pieczenik condusse in porto la più grande operazione di guerra psicologica dal 1945 in poi”.