Gabriella Greison, il Fatto Quotidiano 17/11/2014, 17 novembre 2014
NELLA TANA DI GOOGLE IL MONDO NON PUÒ ENTRARE
La rivista americana Forbes stila la nuova classifica degli uomini più ricchi nel settore della tecnologia (rispetto allo scorso anno, guadagni in crescita del 23%), e metà dei presenti vivono nella Silicon Valley, area a Sud della San Francisco Bay Area. Dopo Bill Gates (81 miliardi di dollari), ci sono Larry Page e Sergey Brin, i due fondatori di Google (sommando il patrimonio dei due, si arriva a 62,5 miliardi). Mi fermo, non vado oltre con l’articolo, ogni volta mi capita la stessa cosa quando leggo cifre così, non riesco nemmeno a immaginarle e quindi mi annoio. C’è una cosa che però posso fare: smettere di immaginare la Silicon Valley, e andare a vedere con i miei occhi come si vive laggiù. La Silicon Valley, vissuta come Disneyland. Obiettivo: il complesso di Google.
L’orizzonte finisce qui
Arrivo a Mountain View in 50 minuti di viaggio con la Caltrain (la metropolitana leggera di San Francisco, si prende lungo la 22nd St.). Lungo il tragitto leggo altre notizie dalla free press in dotazione nella mia carrozza: Larry Page dona 15 milioni per la ricerca contro Ebola e Google fa una sottoscrizione come Facebook; Google che si allea con Apple per avere i film Disney sui dispositivi digitali; Google che investe 200 milioni di dollari in un impianto della Nasa; utili dell’ultimo trimestre di Google che si aggirano intorno ai 62 miliardi, e i 55 mila dipendenti che festeggiano. Ultima pagina: viene ripresa un’intervista dal Financial Times dove Larry Page racconta come i robot sostituiranno presto gli uomini, e il suo recente interesse per gli studi sulla fusione nucleare per avere energia a basso costo. Nessun altro argomento riesce ad avere una sola riga sui giornali locali, pare che non interessi nulla di ciò che avviene fuori confine, o che il mondo sia tutto qui. Scendo, la prima impressione è di aver speso bene i 2 dollari di biglietto, anche solo per le aspettative che questo posto crea nella mia immaginazione. Intorno a me, niente di avveniristico: una strada principale contornata da casette a schiera, un supermarket , una caffetteria, nessun hotel. Seguo le dinamiche di due famiglie alle prese con la spesa e un divertente passatempo in un giardino (grandi contro piccoli a basket), pare una puntata della Famiglia Bradford, tutto è ancora così. E poi quelle di due gruppi di ragazzi: aria rilassata, libri in mano avvolti da elastico, qui vicino c’è Stanford. Prendo l’express-train, in 5 minuti sono a Bayshore/Nasa. Scendo, il panorama è cambiato di nuovo. Questa volta pare il deserto. Ma la scritta NASA enorme, gigantesca, massiccia ferma lo sguardo a un chilometro di distanza, sopra una costruzione di cemento cilindrica.
Proseguo in direzione Nord, a piedi passo sotto la Highway 101 e prendo Shoreline Blvd, in cinquanta minuti di camminata incontro nell’ordine: due ragazze con ipod che fanno jogging, un bambino che gioca alla playstation camminando, un motociclista con tanica di benzina, tre signore sedute su una panchina al telefonino, tre ragazzi che cantano a squarciagola sullo skate. Seconda tappa, la scritta Microsoft spunta tra due caseggiati. Oltrepasso alcune strutture, facendo lo slalom tra le sedi di altre aziende. Il paesaggio cambia di nuovo.
La Disneyland della tecnologia
Qui sembra di essere in Svizzera. Arrivo nel parcheggio riservato ai dipendenti. Scendono dalle auto e la prima cosa che fanno è guardare il badge che l’altro espone alla cintura dei pantaloni: c’è un codice che fa capire subito se sei un interno (e allora il saluto è molto rilassato), se sei consulente esterno (e allora scatta la diffidenza), se sei stagista (badge bianco) allora sei scattante e operativo. Tutti uomini, eppure ne avrò guardati una cinquantina arrivare. Interessanti i dialoghi, la durata e la dinamica, a seconda del badge che si trovano di fronte, mettono piede fuori dall’auto e parlano solo di lavoro. Proseguo il cammino, c’è il Museo del Computer a pochi passi (venti minuti a piedi). L’edificio è mastodontico, pezzi di hardware appesi alle pareti e i codici binari riprodotti sulle superfici a vetro ti invogliano a entrare, anche perché pensi chissà cosa mi sono perso, chissà cosa non è arrivato in Italia. Dentro, c’è tutto. Puoi anche dialogare con un robot, o scambiarti messaggi cifrati con altre macchine. Ti danno un kit per costruirti un computer da solo. Qui arrivano le famiglie per le gite di mezza giornata, i bambini escono sapendo tradurre in linguaggio binario le parole, e argomentano di intelligenza artificiale.
Proseguo, con googlemaps cammino quaranta minuti prima di arrivare a Google (che strano, se lo utilizzi proprio qui dove lo hanno creato c’è il dettaglio persino con i nomi degli alberi), arrivo al civico 1600 di Amphitheatre Park. Ora il paesaggio ha l’aspetto di un campus. I quattro colori primari di Google vengono utilizzati per qualsiasi cosa, dagli ombrelloni nella caffetteria, ai cartelli lungo le strade che collegano gli edifici, alle biciclette per uso interno, ai campi sportivi. Tutto è blu, rosso, giallo e verde, alternati in sequenza. Anche gli alimentatori delle auto elettriche dei dipendenti, anche le montature degli occhiali, anche le tazze dei wc. A parte questo, l’aspetto è più simile ad un’azienda “immateriale”. Dentro pare non esserci nulla. È qui, ma potrebbe essere ovunque. Questa è la prima impressione. Tutto è in vetro, come a voler mostrare trasparenza. All’interno dei quattro grandi edifici, i gruppi di lavoro sono sempre identici, tutte le razze distingue il settore di appartenenza. Gli uffici vengono chiamati cubi, e sono tutti condivisi con altri. Non c’è privacy.
Pensatoio informale
Ci sono impiegati che arrivano alla propria scrivania in bici. La sala che mi colpisce è quella “per pensare”: qui i dipendenti si siedono sulle poltrone pensatoio, dotate di casco tipo da parrucchiere che ti esclude la vista da altro, e pensano. L’abbigliamento di tutti è informale, compreso quello di Sergey Brin (uno dei due fondatori, l’altro è Larry Page) che incontri tranquillamente con indosso t-shirt, zainetto su due spalle, e googleglass. Anche il “Tech stop” è interessante: chiunque abbia un problema a un apparecchio, si ferma qui e glielo aggiustano o sostituiscono nel giro di cinque minuti, per ridurre i tempi morti non dedicati al lavoro. Ci sono 20 ristoranti, 15 caffè diversi, campi sportivi sparsi lungo tutto il campus. Vengono organizzate anche lezioni di fitness direttamente in ufficio, grazie all’arrivo nelle sale della camionetta di “Hiit school” che scarica tutto il materiale necessario: tapis roulant, cyclette, pesi, e istruttori compresi. Yoga, pilates, anche corsi di meditazione o di training autogeno per capire come trasformare lo stress in energia lavorativa. Le pause per lo sport sono obbligatorie, così come c’è l’obbligo di non inviare mail oltre le dieci di sera, e altre regole molto particolari. Gli stagisti (chiamati noogler) indossano tutti un cappellino con i 4 colori standard e un’elica in cima, tipo Doraemon.
Ci sono enormi scivoli che i dipendenti prendono per scendere ai piani più bassi. Pupazzetti colorati o frisbee sono sulle scrivanie. Davanti a uno schermo enorme ci sono diversi dipendenti che controllano il google alert aziendale: chi ha inserito la parola “google” nei motori di ricerca, in quale parte del mondo viene citata più volte, di cosa si lamenta la gente. Tutti argomenti su cui discutono nelle riunioni. Altri temi di discussione sono: quanti clic ha il doodle del giorno, le classifiche di Youtube, come migliorare la mappatura del mondo, perché si parla di Google.
Twitter: @greison_anatomy
Gabriella Greison, il Fatto Quotidiano 17/11/2014