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 2014  novembre 17 Lunedì calendario

LE MIE CANZONI NATE IN UNA NOTTE

No, non scrivo più canzoni. Non credo. La chitarra è lì da tempo, la prendo qualche volta se ci sono amici. È uno scherzo. Più facile scrivere libri, con Loriano, inteso come Loriano Macchiavelli. Gialli ambientanti qui, a Pavana. Forse non ricordo nemmeno come si fa a scrivere una canzone. A me sono sempre venute abbastanza in fretta.
LA LOCOMOTIVA. Il pezzo che ha chiuso quasi tutti i miei concerti nasce quasi per caso. Era il tempo dell’Osteria delle Dame, a Bologna. Quelle erano le nostre notti. Bellissime. E spesso giravano storie sugli anarchici. Una sera viene fuori la storia di questo Pietro Rigosi, lo descrivevano come un matto che da Poggio Renatico porta la locomotiva verso la stazione di Bologna a tutta velocità, cinquanta chilometri all’ora. Si sbracciavano i suoi colleghi, gli chiedevano di fermare, ma lui continuava a buttare carbone. Un matto, nei racconti. In realtà quando ne parlai con il mio vicino di casa, il protagonista di un’altra canzone, il pensionato, mi disse: “Guarda che non fu né un folle, né un incidente. Rigosi era un anarchico e quello fu un gesto politico”. Quella stessa notte, molte delle mie canzoni sono nate di notte, mi misi a scrivere. In venti minuti c’era La Locomitiva. Una strofa mi accompagnava verso l’altra. Alla fine mi accorsi che mancava la strofa iniziale, “Non so che viso avesse, neppure come si chiamava”, che forse fu il segreto della canzone stessa.
IL PENSIONATO. Era il mio vicino di casa. La canzone è quello che era lui, la casa, vivevamo accanto, quando morì acquistai anche l’altra metà. Siamo in via Paolo Fabbri 43. L’aneddoto curioso. Mi incontrano per strada due signore anziane, che vivono al 45. “Sappiamo che ha dedicato una canzone al suo vicino, ora i prossimi saremo noi”. E io, che pensavo scherzassero rispondo: "Certo”. La mattina dopo, che per me voleva dire notte, forse ero andato a dormire da mezz’ora, non di più, squilla il telefono. “Professore”, mi chiamavano così, perché all’epoca insegnavo, “siamo i signori del 45, ci abbiamo pensato a lungo, ma non abbiamo molto piacere ad avere una canzone. Preferiremmo rimanerne fuori”. Io ringrazio la signora, torno a dormire. Bellissimo. È Bologna questa, era la Cirenaica, quel quartiere lì. Dove a un passo c’era, c’è ancora, l’osteria da Vito. Ci trovavamo lì, dopo le Dame, da Vito. Passavano tutti. Morandi, Ron, qualche volta Lucio Dalla, Vecchioni, De André.
SCIROCCO. Una volta mi sembra di averlo detto, forse tecnicamente è una delle canzoni meglio riuscite. Nasce quasi per caso, come spesso avviene nelle canzoni. La musica la strimpello con Juan Carlos Biondini, Flaco, giusto per intenderci. Ci mettiamo a strimpellare e viene fuori una melodia. La musica è sua. Di Flaco. Io un giorno a Bologna incontro un amico. Lui mi dice che deve incontrare la sua donna in via dei Giudei. Conoscevo la storia, lui sposato, lei stanca di fare la seconda. Questa molto banalmente è la storia. E nel vederlo capisco anche quale sia il finale, e così è stato. Con lei che se ne va. Io la faccio arrivare vestita in un abito di percalle che le fasciava i fianchi. C’è lo scirocco, nella fantasia di chi scrive, in realtà un vento quasi inusuale per Bologna. Raro, ma quando arriva si fa sentire molto bene. Il percalle è invece l’atmosfera argentina, in realtà io non so neanche come sia fatta la stoffa in percalle. Ma dovevamo rispettare la melodia, un tango argentino, appunto . E so che le ballerine argentine si vestono con abiti in percalle. A un certo punto del brano passa anche un veliero, “e volavan via velieri come in un porto canale”. Il veliero credo che sia lei. E comunque Bologna ha una sua storia marinara. Non lo sa nessuno, ma Bologna ha una passato di città marinara, aveva sbocco sull’Adriatica e la marineria bolognese riuscì a sconfiggere quella veneziana in una storica battaglia.
AUTOGRILL. Questa è una canzone completamente inventata. Direi una delle pochissime insieme al Vecchio e il bambino, che è ovviamente fantasiosa. Nella mia testa il pezzo nasce in un posto surreale, sicuramente non in Italia, visto che si parla di “nichel di mancia”. No, non è una canzone della catena per la ristorazione che si trova sulle autostrade italiane che io frequento poco e malvolentieri, non ho neanche la patente. Chissà cosa sia. Le tendine in nylon rosa. Bella, romantica. Succede che un mio cugino che lavora in una tivvù locale ne tira fuori un video. Ben fatto. Ma non era la canzone. Dietro al banco ci mette una biondona prosperosa, ma non c’entra assolutamente nulla. Io scrivo (e canto) “bionda senza averne l’aria”, proprio perché non deve essere necessariamente bionda e soprattutto non deve essere biondona. No, diciamo che il video non è per niente azzeccato. La canzone sì, ripeto, perché ha un tratto quasi unico, non esiste né il luogo né la storia. Solo io ce l’ho in testa e chi l’ascolta può verniciarla come vuole.
VORREI. Qui parliamo di un pezzo complicato, ma nasce in dieci anni. E’ l’unica canzone che ha richiesto così molto tempo, perché io in genere scrivevo in una notte, al massimo finivo il giorno successivo. Vorrei mi ha impegnato molto, la storia la conoscono tutti, è una dedica a mia moglie che mi ha fatto scontare la canzone: è voluta tornare in tutti i luoghi citati, da Barcellona a Istanbul. Lo sapevo. Però ne sono fiero. E’ un gran bel pezzo.
LA TIETA (O ZIETTA). Anche questa rappresenta un caso unico nel mio repertorio. E’ la traduzione di un pezzo di Joan Manuel Serrat. Scrivere in italiano non è assolutamente semplice. In inglese è molto più facile, tanto è vero che il rock ’n roll in Italia non è mai esistito, impossibile trasformarlo in rima. Ci è riuscito Celentano, “Il tuo bacio è come un rock, che ti morde col tuo swing, è assai facile al knockout che ti fulmina sul ring”. Tutta così. Finita. Allora ho pensato di tradurre La Tieta di Serrat dal catalano al dialetto modenese, perché ho potuto usare le tronche che in dialetto modenese esistono. Il risultato è che il pubblico resta spaesato, forse capisce meglio il linguaggio originale che non il dialetto, ma è bella. Non è mia, per fortuna o purtroppo. Anche perché è una canzone tristissima, si chiude con il funerale della zietta dove dietro al feretro c’è un amico scoperto un momento fa, che nemmeno lei sapeva di avere.
(testo raccolto da Emiliano Liuzzi)
Francesco Guccini, il Fatto Quotidiano 17/11/2014