Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 17/11/2014, 17 novembre 2014
LA MIA BANDA NON SUONA PIÙ IL ROCK
Difficile pensare cosa resta della musica d’autore, cinquant’anni dopo. Restano i motivi, forse, scolpiti nella memoria, i primi balli e i baci, le serate vuote, riempite da chiacchiere con gli amici. Ma soprattutto, resta un’industria che non è più considerata tale. Può bastare un esempio solo: nel 1995 la discografia intera fatturava qualcosa come 500 milioni di euro e, cinque anni dopo, erano 576 milioni e 600 mila euro. Gli ultimi dati, quelli relativi al 2013, dicono che la cifra è scesa a 179 milioni e cento mila euro. Molto più che dimezzata. Numeri ufficiali, in mano alla Fimi, acronimo della federazione industria musicale italiana. E in quei 179 milioni è compresa tutto il comparto musica, da quella su disco a quella che proviene dal digitale. Parlare di crisi è anche ottimistico.
Un segnale di ripresa c’è e riguarda il buon vecchio vinile che ha un mercato in espansione e, dopo la scomparsa, va avanti a più 30 per cento, anno su anno. Più 36 tra il 2012 e il 2013. Ma non basta e la tendenza non è attendibile.
Il patrimonio non c’è più
Ma cosa è successo? Semplice, l’industria digitale ha reso molto più vulnerabile la musica. Ha tolto etichette e copertine. Ha compresso i fatturati. E i fenomeni di oggi durano il lampo di pochi minuti. Non ne troverete di Battisti-Mogol in giro. Magari esistono anche, ma nessuno è disposto a investire. Il problema è fatturare tutto e subito. Era il 1964. Al festival di Sanremo fece il suo ingresso quella che sarebbe diventata la figlia di tutti gli italiani, Gigliola Cinquetti. Bellissima, pulita. Non ho l’età, cantava. C’era anche Bobby Solo con “Una lacrima sul viso”, squalificato perché, rimasto senza voce, Solo cantò in playback. Nei porti d’Italia erano attesi altri dischi, quelli dei Beatles, già un fenomeno mondiale, ma che in Italia non erano ancora arrivati. Meglio: suonarono alla radio, ma i dischi in giro non si trovavano, erano solo a Londra.
È l’anno, il 1964, in cui forse la canzone d’autore italiana inizia a cambiare verso. Attorno alla Rca girano dei ragazzi che portano il nome di Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo, Piero Ciampi, Duilio Del Prete, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Saranno loro quelli che manderanno in pensione gli anni Cinquanta, il cuore e amore, ritornello cruciale e indispensabile. Ma come in ogni fermento serve anche un personaggio al quale fare riferimento: si chiama Nanni Ricordi e a lui la canzone d’autore deve molto. In quel sottobosco di produttori si muovono personaggi come Franco Crepax, storico collaboratore di Ricordi, i fratelli Gian Piero e Gianfranco Reverberi, ma soprattutto, Vincenzo Micocci.
La canzone d’autore arriva al massimo della maturazione e ci resterà per almeno tre decenni successivi, è vero, ma ci sono etichette discografiche che investono, soprattutto sui giovani. Non è solo il nuovo a imporsi, ma la produzione che impone il nuovo. Ricordi edizioni musicali, ma anche Rca, Cgd, Emi che segneranno un momento decisivo. “Io ho iniziato a vendere dal quarto disco”, racconta Guccini, “ma nessuno oggi mi permetterebbe tre fiaschi dal punto di vista commerciale. Allora ci credevano, la diversità forse sta solo in questo. Oggi o arrivi in classifica al primo altrimenti arrivederci”.
Il trionfo definitivo della canzone d’autore fatta a testo, più che a musica, arriva insieme al vento del Sessantotto. Non c’è stato ancora il maggio, ma in inverno, a Sanremo, vince Canzone per te di Endrigo. Non solo. Sempre nel 1968 la hit parade è questione di Azzurro, cantata da Adriano Celentano e scritta da Paolo Conte, Applausi dei Camaleonti, Angeli Negri, Vengo anch’io no tu no, Canzone di Don Backy (o Celentano, non si è mai capito), Insieme a te non ci sto più (ancora Paolo Conte), Nel cuore e nell’anima dell’Equipe 84.
Possiamo rivisitarla oggi la classifica, quasi mezzo secolo dopo. Troviamo Vasco Rossi, ottimo sessantenne, secondo le classifiche autore di uno dei migliori album di sempre, Bollicine, ma senza la verve di quando ne aveva 30. C’è ancora Paolo Conte, la bravissima Fiorella Mannoia che però canta gli altri e celebra le sue vecchie hit, Laura Pausini e una cantautrice raffinata, Chiara Civello, ma anche lei con un album che non prevede sue produzioni, ma vecchi successi di altri. Ancora pochi altri, ma niente che faccia pensare a una nuova stagione. Il cantautorato è in crisi, crisi di produzione (nel senso delle etichette), crisi creativa e di talenti.
Dice Francesco De Gregori che la canzone non è poesia, ma l’unione di parole intelligenti e musicali che sono vive grazie alla musica. Ma questo non vuol dire che siano meno importanti per le persone. Sono loro, come il cinema, a dare forma alla nostra cultura. Ma anche De Gregori a ogni disco che è una raccolta di vecchi brani, dimostra di non aver più molto da dire. E poco fanno anche le trasmissioni televisive come X Factor che nella maggioranza dei casi richiedono grandi interpretazioni di pezzi altrui. Manca l’invenzione, l’unione tra parole e musica che sembra inceppata. Se parliamo del cantautorato vengono in mente anche i nomi come quelli di Ivano Fossati, esiliato da se stesso, perché il momento era arrivato. Preferisce scrivere libri anche Francesco Guccini: “Mi diverto di più, e non ho iniziato oggi. Ma era arrivato il momento di smettere”. Gino Paoli, invece, se ne sta alla guida della Siae, un lavoro da impiegato e politico, per uno come lui che ha girato il mondo con le parole e la melodia. Anche Celentano se ne sta alla larga da tempo dagli spartiti.
Ma più di ogni altra cosa il cantautorato non ha lasciato una scuola. E sfugge anche il motivo. I presupposti ci sarebbero stati anche perché l’italiano non è una lingua musicalmente facile. Servono dei voli stratosferici perché non si incespichi nella banalità. E alla fine, dopo locomotive, guerre di piero, buone novelle, voci del padrone, Titanic e Panama, si è tornati alla musica che bacia molto, lancia stelle e ti voglio bene, ma tiene a fatica in piedi un concetto. Quella definizione di poesia che De Gregori, lo stesso Guccini, De André, hanno sempre rifiutato. “Lei si sente più poeta o cantautore?”, chiese una volta Vincenzo Mollica a Faber. E lui rispose con una citazione: “Benedetto Croce diceva che fino a 18 anni tutti scriviamo poesie. Poi restano i poeti e i cretini. Io precauzionalmente preferirei essere considerato un cantautore”.
Scuola, è vero. Probabilmente maestri fin troppo venerati, come scriveva Edmondo Berselli, quello che l’Italia dall’animo pop l’ha scritta meglio di chiunque altro. E un sottobosco fatto di fermento culturale che non esiste più.
Non va meglio all’estero
In Italia un album diventa Disco di Platino dopo aver venduto 50.000 copie, per gli Stati Uniti invece bisogna toccare quota un milione. Il parametro è stato introdotto nel 1976 e il 2014 sarà il primo anno in cui l’America non riuscirà ad assegnarlo, salvo sorprese nei prossimi due mesi. L’unico disco che ha superato quella cifra (triplicandola) è quello del film Disney "Frozen", ma essendo una colonna sonora non rientra in questo tipo di conteggio nonostante i 3.2 milioni di copie vendute (e ovviamente ci si aspetta che con il periodo natalizio crescano ancora). Altri album che hanno avuto buoni risultati sono l’omonimo di Beyoncé e l’esordio "Pure Heroine" di Lorde, che si sono fermati comunque sulle 800.000 copie. E vengono contati anche i brani scaricati da internet. Segno che qualcosa non funziona più e che i clienti non vogliono più la mediazione e il ruolo svolto dalla casa discografica: si sceglie in rete. Tranne che per il mercato del vinile, che è tornato sul mercato. Mania vintage? Non è escluso. Serve ancora tempo per dirlo.
Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 17/11/2014