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 2014  novembre 17 Lunedì calendario

IL GIORNO IN CUI HO SMESSO DI CREDERE IN DIO

Don Giovanni frequentava spesso la nostra cascina, arrivava da noi in bicicletta. Partiva dalla parrocchia del Redentore, che si trovava alla periferia di Milano in zona Loreto e pedalava fino alla campagna per poi fermarsi a conversare o, a volte, a mangiare con me e i miei genitori. Ma era in primavera, in occasione della Festa degli Asparagi, che don Giovanni diventava il nostro ospite d’onore e la festa si concludeva sempre con un grande pranzo. Per me e per i miei fratelli, cinque maschi e una femmina, precocemente rimasti orfani di padre, era molto più che «il Don»: era un confidente, un consigliere affettuoso e un amico capace di risolvere anche le piccole infelicità dei bambini.
Don Giovanni era molto fiero di me: da bambino non perdevo mai una messa né un rosario, ero un inappuntabile chierichetto ed ero persino stato elevato al grado di «paggetto», una vera e propria onorificenza nella Chiesa di allora. Per questo fu lui, forse, a soffrire di più quando, molti anni dopo, gli rivelai che avevo perso la fede.
Glielo dissi un giorno di primavera. Dopo un lungo periodo di silenzio in cui non ci eravamo più né visti né sentiti, don Giovanni si presentò all’Istituto nazionale tumori di Milano dove lavoravo come assistente. Aveva un tumore del colon in stadio piuttosto avanzato e mi fece promettere che l’avrei operato personalmente. Così feci e l’intervento andò benissimo. Il giorno delle dimissioni, sulla porta d’uscita dell’ospedale, mi strappò però una seconda promessa: sarei andato a trovarlo una volta ogni quattro mesi nella sua nuova parrocchia (in un paesino di campagna) per regalarci un po’ di tempo solo per noi. Iniziò così un periodo di conversazioni e di scambio intellettuale sul senso della vita, della scienza e della fede, che segnò per sempre il mio pensiero. [...] Dopo due, o forse tre anni che ci eravamo ritrovati, ci fu una svolta dolorosa: visitandolo, gli trovai una massa dura e voluminosa nell’addome. Non ci fu bisogno di troppe parole per spiegargli che aveva una metastasi epatica e che (all’epoca era così) i mezzi per trattarla erano molto limitati. Gli feci allora la terza promessa: «Non dovrai soffrire, Giovanni, te lo prometto». Mi fu molto grato per questo, perché non faceva parte di quei credenti che ritengono che il dolore avvicini a Dio. La nostra ultima sera insieme mi disse: «Ti ringrazio per la carità che dimostri, anche senza fede. C’è tanta fede senza carità». La promessa che non mi chiese mai di fargli fu quella di riavvicinarmi alla fede, e di questo sono io a essergli profondamente grato. [...] Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola. Ero il tipico ragazzo di periferia, i miei atteggiamenti erano spavaldi, avevo sempre bisogno di mettermi in mostra: era l’unico modo che conoscevo per vincere la timidezza e affermare la mia personalità. Di fatto, sono sempre stato anticonformista, ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa mia natura mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino [...]. Poi arrivò la guerra e i miei interrogativi si fecero più drammatici. A diciotto anni non volevo andare a combattere, ma finii in una retata e mi ritrovai con indosso un’uniforme che non aveva per me alcun valore e fui ben armato per uccidere altri ragazzi, in tutto e per tutto uguali a me, salvo per il fatto che indossavano una divisa diversa.
Ho vissuto in pieno, soprattutto nel lungo periodo di clandestinità (legata alla Resistenza), la violenza dissennata della Seconda guerra mondiale, fui gravemente ferito e sono uno dei pochi sopravvissuti allo scoppio di una mina, su cui saltai mentre scappavo da un’imboscata nemica. Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov’era Dio ad Auschwitz?». [...] La scelta di fare il medico è, profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro, e sfidando la rassegnazione che allora imperava, decisi di indagare se attraverso la conoscenza e il sapere si potesse vincere quell’immenso e assurdo dolore. [...] Per chi il male non è un’idea astratta, ma è qualcosa che si vede, si tocca e, nel mio caso, ha un nome, tumore, diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di una donna o di un uomo lo tiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta per l’anestesia, è a te, chirurgo, che affida la sua vita. L’ultimo sguardo di paura o fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devi decidere che cosa fare, quanto asportare, come fermare un’emorragia.
Ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche con la tua carità come la chiamava don Giovanni) per la persona malata, sia questa il prete che ha consolato le tue lacrime quando eri bambino, o la mamma che sta per avere un figlio che voleva allattare proprio con quel seno che tu le hai appena tolto, o un paziente sconosciuto che da te si aspettava soltanto la guarigione, che non è arrivata. Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio. Ho sviluppato questa convinzione soprattutto all’Istituto nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto frequentavo il reparto di pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade – e per i bambini oggi succede sempre più spesso – che il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia.
Umberto Veronesi, la Repubblica 17/11/2014