Corriere della Sera 17/11/2014, 17 novembre 2014
RITORNO ALLA VITA
È trascorso un anno dall’uscita del mio libro e due da quella mattina di ottobre in cui i talebani mi spararono, mentre tornavo a casa dalle lezioni su un autobus. La mia famiglia ha affrontato molti cambiamenti. Siamo stati prelevati dalla nostra vallata di montagna nello Swat, in Pakistan, e trasportati in una casa di mattoni a Birmingham, in Inghilterra. A volte sembra così incredibile che mi viene voglia di darmi un pizzicotto.
Ora ho diciassette anni, ma una cosa che non è cambiata è la mia riluttanza ad alzarmi al mattino. La cosa stupefacente, invece, è che adesso è la voce di mio padre a svegliarmi. E’ il primo ad alzarsi e prepara la colazione per me, mia madre e i miei fratelli, Atal e Kushal. Ovviamente non lascia che il suo impegno passi inosservato, e ci tiene a far notare come spreme le arance fresche, come frigge le uova, scalda il pane e prende il miele dall’armadietto. «È solo la colazione!» lo prendo in giro. Per la prima volta nella sua vita fa pure la spesa, anche se lo odia. L’uomo che non sapeva il prezzo di un litro di latte va tanto spesso al supermercato da conoscere la posizione di tutti gli articoli sugli scaffali! «Sono diventato come una donna, un vero “femminista”!» dice, e io per scherzo gli tiro dietro qualche oggetto.
Poi io e i miei fratelli usciamo per correre ognuno in una scuola diversa. E lo stesso fa nostra madre Toor Pekai: questo è uno dei cambiamenti maggiori. Per cinque giorni alla settimana va in una scuola di lingue per imparare a leggere e a scrivere, e anche a parlare inglese. Mia madre non ha ricevuto alcuna istruzione, e forse è questo il motivo per cui ci ha sempre incoraggiati ad andare a scuola.
Un anno fa pensavo che non ci saremmo mai ambientati, invece comincio a sentirmi a casa a Birmingham. Non sarà mai come lo Swat, che mi manca ogni giorno, ma quando faccio un viaggio e poi torno, mi sento a casa mia. Ho persino smesso di pensare alla pioggia costante, però mi viene da ridere quando le mie amiche di qui si lamentano del caldo appena il termometro tocca i 20-25 gradi. A me sembra primavera. Alla scuola nuova sto facendo amicizie, anche se la mia migliore amica resta Moniba; stiamo ore su Skype a raccontarci tutto. Quando mi parla delle feste nello Swat, vorrei tanto essere là. A volte parlo con Shazia e Kainat, le altre due ragazze ferite sull’autobus, che ora stanno in Galles all’Atlantic College. È difficile per loro vivere in una cultura così diversa, ma sanno che è una grande opportunità di realizzare il loro sogno, quello di aiutare la loro comunità d’origine.
Il sistema scolastico qui è molto diverso da quello del Pakistan. Nella mia vecchia scuola ero «quella brava». Qui in Gran Bretagna, gli insegnanti si aspettano di più dagli studenti. In Pakistan scrivevamo lunghe risposte ai quesiti. Si poteva scrivere quello che si voleva; a volte i professori si stufavano e non leggevano fino in fondo, ma davano ugualmente voti alti! Può darsi che le aspettative fossero più basse perché il solo fatto di andare a scuola era una sfida. A casa mia ero considerata un’amante dei libri perché ne avevo letti otto o nove. Ma nel Regno Unito ho conosciuto ragazze che hanno letto centinaia di libri. Adesso mi rendo conto di non avere letto quasi nulla. L’anno prossimo farò la maturità e spero di andare all’università a studiare Scienze politiche e Filosofia.
Ho ancora la speranza di tornare nello Swat. Sono certa che un giorno sarà possibile. Sogno di poter essere un personaggio influente nella vita politica pachistana, un giorno. Purtroppo Maulana Fazlullah, il capo dei talebani dello Swat che mi hanno sparato, ora è il capo dei talebani di tutto il Pakistan. Questo ha reso ancora più rischioso il ritorno in patria. Ora la mia salute è buona. I dottori dicono che ora il recupero del mio nervo facciale è al 96%. L’impianto cocleare ha migliorato il mio udito. Non soffro più di mal di testa e posso fare sport, purché gli altri stiano attenti a non tirarmi una palla in testa!
Quando ricevo un premio mando il denaro nello Swat: spero di aiutare i bambini ad andare a scuola o gli adulti ad avviare piccole attività, come un negozio o un taxi, con cui guadagnare soldi per la famiglia. Con il Malala Fund, ho avviato progetti in Giordania, Pakistan, Kenya e Nigeria. Come dice mio padre, siamo gli esuli trattati meglio al mondo, in una bella casa, eppure daremmo qualsiasi cosa per la nostra patria. Nell’ultimo anno sono cambiate tante cose, ma in realtà io sono ancora quella Malala che andava a scuola nello Swat. La mia vita è cambiata, ma io no. Se lo chiedeste a mia madre, risponderebbe: «Sì, forse Malala è diventata più saggia, ma a casa è sempre la stessa ragazzina litigiosa che getta la camicia di qua e i pantaloni di là, la stessa ragazzina disordinata che strilla sempre: “Non ho fatto i compiti!”». Certe cose, anche se sono piccole, restano sempre uguali.
Birmingham, luglio 2014