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 2014  novembre 15 Sabato calendario

LA RIVOLTA DEI DIPENDENTI A RISCHIO I TAGLI ALLE CAMERE

ROMA E’ una rivolta di massa. A falangi compatte. Ma a protestare non sono mica i soliti noti in (ex)tuta blu o senza contratto. A schierarsi sul fronte del ”no”, questa volta, sono i super-pagati dipendenti di Camera e Senato. Che in oltre mille hanno presentato ricorso - le sentenze sono attese per la prossima settimana - contro la manovra varata il 6 ottobre dalle presidenze delle Camere che taglia un migliaio di buste paga sulle quasi 2.500 della forza lavoro del Parlamento.
Questa rocciosa élite di dipendenti pubblici (alcuni qualificatissimi altri con normali funzioni di centralinista o impiegato) quest’anno costerà ai contribuenti italiani la bellezza di 384 milioni di euro, per un esborso medio a cranio leggermente superiore ai 150.000 euro. Il che vuol dire che al pugno di stipendi che svettano dall’alto dei loro 500.000 euro lordi annui se ne aggiungono molti legati a mansioni, sempre importanti, ma più semplici che arrivano a quota 90 mila euro lordi dopo soli 20 anni di servizio e a ben 136 mila dopo 40 anni. Per completare il quadro occorre sapere che, a dispetto dei fiumi di inchiostro scritti contro la casta politica, Camera e Senato spendono molto di più per i loro dipendenti che per i politici. I dipendenti di Montecitorio, ad esempio, assorbiranno nel 2014 ben 258 milioni contro i 145 milioni destinati agli onorevoli. Rimborsi compresi.
MESI DI TIRA E MOLLA
Poiché alla sola Camera oltre 90 dipendenti supereranno quest’anno la soglia dei 240 mila euro lordi (che dal primo aprile rappresenta il tetto massimo di retribuzione per gli alti burocrati dello Stato), le presidenze delle due Camere hanno deciso di intervenire. Dopo mesi di trattative, cincischiamenti e persino qualche accenno di protesta nei corridoi della Camera (atto gravissimo, un po’ come se i carabinieri si ammutinassero), le due amministrazioni hanno varato un piano di tagli graduali per tutti i Parlamento-boys in modo da riportare gli stipendi più alti a quota 240.000 sforbiciando anche le robustissime retribuzioni dei livelli inferiori. Il piano vale 97 milioni di risparmio in tutto.
Per dire tutta la verità, oltre alla gradualità, i tagli sono meno severi di quanto appaia perché fuori dal tetto restano indennità e contributi. Così come gli stipnedi dei cinque o sei dirigenti più importanti che scenderanno a quota 360 mila solo nel 2018.
Ma ciò nonostante e nonostante l’evidente disparità di trattamento a loro favore rispetto al taglio immediato inferto alle buste paga del capo della Polizia o del direttore dell’Agenzia delle Entrate, gran parte dei dipendenti di Camera e Senato si sentono trattati ingiustamente. La loro tesi è che si vedono privati di un “diritto acquisito” al momento dell’assunzione.
IL GIUDIZIO
A giudicare se questa tesi è valida o meno saranno - almeno per ora - i “Tribunali” interni di Camera e Senato che sono presieduti da politici. Già perché anche i dipendenti dei due rami del Parlamento sono soggetti alla cosiddetta autodichìa. Legge che prevede l’autonomia totale del Parlamento dagli altri organi dello Stato, magistratura compresa.
Ma anche su questo fronte stanno emergendo novità. Fino a quando l’autodichìa è servita a proteggere floridi stipendi (e non parliamo delle doratissime pensioni) nessuno l’ha messa in discussione. Ora che viene interpretata come una leva per intaccare (attenzione al verbo: intaccare, non abolire) i privilegi, si sta cambiando registro. In pratica, alcuni sindacati interni si sono rivolti ad avvocati specializzati in diritto del lavoro con l’evidente obiettivo di allargare la guerriglia e di arrivare in qualche modo alla Corte Costituzionale.
Strada rischiosissima, però. Se la Corte Costituzionale dovesse stabilire l’incostituzionalità dei tagli perché inflitti ad una sola categoria di statali ne verrebbe sancito anche il principio che i dipendenti delle Camere sono ”semplici” impiegati pubblici. Qualificatissimi, certo. Ma pur sempre umani e italici travet e dunque, come tutti, destinati a lamentarsi un po’ del proprio stipendio.