Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 15 Sabato calendario

FACCIO BALLAR EIL MONDO MA NON CHIEDETEMI DI BALLARE

Claudio Cecchetto è l’uomo che ha inventato Radio Deejay, che ha scoperto e lanciato le carriere di Gerry Scotti, Linus, Albertino, Jovanotti, Fiorello, Amadeus, Marco Baldini, Max Pezzali, Fabio Volo, Dj Francesco. Ha fatto ballare il mondo e tutti i villaggi turistici con il GiocaJouer: dormire, salutare, autostop. Centinaia di migliaia di copie vendute. Oggi Claudio Cecchetto è Peter Pan col maglioncino blu, senza più le scarpe da ginnastica come quando salì sul palco di Sanremo nel 1980 (non aveva neanche trent’anni), con i capelli un po’ più corti («ma non così corti... e comunque l’importante è averli in testa»), con 62 anni alle spalle e ora anche un libro, In diretta. Il GiocaJouer della mia vita, appena pubblicato da Baldini&Castoldi. «Ma non l’ho scritto come uno scrittore scrive un libro, o un cantante una canzone: è la mia vita».
Sono quasi quattrocento pagine.
«E ho anche tagliato. È diviso in mosse, come il GiocaJouer: cantare, mixare, guadagnare, Mike, Fiorello. Un’idea di Lorenzo».
Gliel’ha suggerito Jovanotti?
«Ad aprile, quando sono andato da lui a New York. È pensato come un album: ascolti la canzone che vuoi, salti il resto. Un libro jazz».
Partiamo dall’inizio. In realtà lei non è milanese...
«Sono nato a Ceggia, in provincia di Venezia. Però i miei si trasferirono a Milano quando avevo due anni».
Com’era da ragazzino?
«Dovevo fare sempre qualcosa. Ho fatto anche il chierichetto».
Un dj in chiesa?
«Vengo da una famiglia cattolica, non bigotta, ma in paese tutti andavano a Messa, si vestivano bene per andare in chiesa. Ci andavo anche io. Ma volevo fare qualcosa».
Che cosa le piaceva di più?
«La campanellina. Avevo sentito dire che quando suonava, tutti abbassavano gli occhi perché scendeva Gesù. Io volevo provare a suonarla e a non abbassare gli occhi, per vederlo».
Quanti anni aveva?
«Sei o sette. In chiesa ho conosciuto anche la prima star: Montini».
Il Papa?
«Da arcivescovo di Milano aveva fatto un incontro con le parrocchie e c’erano una cinquantina di chierichetti, fra cui io. Gli ho porto il telo per asciugarsi le mani. Lui me lo ha ridato e ha aspettato. Non sapevo che fare. Poi mi è arrivato il suggerimento: bacia l’anello».
Ha iniziato a fare il dj in discoteca.
«A un certo punto ho iniziato a lavorare al Divina. I clienti erano quasi tutti gay, anche se non era un locale gay. Era un ambiente festoso, è stata la prima discoteca a non suonare i “lenti”. Era avanti».
La radio com’è arrivata?
«Qualche anno prima, nel ’75, lavoravo in una discoteca ed è arrivato il proprietario di una delle prime radio libere, Radio Milano International. Reclutavano fra i dj perché era un lavoro illegale e mal pagato».
Niente soldi?
«Noi dj avevamo deciso di fare cartello e farci pagare. Quando mi proposero un provino io chiesi: “Quanto mi date?” E loro: “Niente”. “Ok, vengo”».
Come è andata?
«Non avevo mai parlato in radio. Mentre ero lì, il proprietario litigò al telefono con uno dei dj. Si girò, mi vide e mi disse: fra mezz’ora vai in onda».
Ce l’ha fatta?
«Mi hanno dato un Campari e mi hanno presentato agli spettatori come il nuovo dj, Marco. Il primo disco che ho fatto suonare, me lo ricordo bene, durava sette minuti. Per riprendermi».
Poi è passato in tv.
«Grazie a Mike Bongiorno».
Il talent scout del futuro talent scout?
«Gli ero stato segnalato dopo uno spettacolo che avevo presentato al Lirico. Arrivò in radio. Quando me lo dissero pensai a uno scherzo».
E poi?
«Un collega mi spostò di peso, andai in sala e lo vidi davvero: era Mike. Si abbassò anche gli occhiali. Un vero spettacolo».
E che cosa le disse?
«“Mi piaci, al mattino seguo sempre la tua trasmissione”. Io andavo in onda al pomeriggio, ma sono stato zitto. Glielo ho detto dieci anni dopo».
E lui?
«Non fece una piega. “Beh, ho fatto bene lo stesso, no?” Lui voleva che fossi il suo erede, il re dei quiz. Mi difendeva sua moglie Daniela, gli diceva: “Ma se a lui piace la musica, lasciagliela fare”».
L’ha deluso?
«Beh, il suo erede viene dalla mia scuderia: Gerry Scotti».
In due anni, dal 1978 al 1980 è passato da TeleMilano58 al Festival di Sanremo.
«Pazzesco. La vita è piena di occasioni, e io ero preparato a cogliere i treni che sono passati. TeleMilano58 voleva chiudere il programma, ma Boncompagni aveva chiuso con Discoring sulla Rai e io feci il provino. Venticinque per un posto».
E a Sanremo come è arrivato?
«Ero a Discoring da due mesi e mi chiamò Gianni Ravera, il patron del festival. L’edizione del ’79 non era andata benissimo e voleva cambiare, voleva un presentatore più veloce di quelli tradizionali, e quindi aveva cercato un dj».
Un azzardo.
«Alcuni dicevano che non si capiva quando parlavo, invece lui ci scherzò su: “Tu vai veloce, così ci metto più cantanti”. Mi ha gasato, anche se avevo molti dubbi».
Aveva paura di quel palco?
«Per fortuna, un mese dopo mi dissero che ci sarebbe stato anche Benigni. Saltai dalla gioia: ero sicuro che sarebbe stato un successo».
Lo è stato?
«Ventotto milioni di telespettatori. Idem i due anni successivi. Mi hanno visto tutti».
In scarpe da ginnastica...
«Erano comode. E poi ogni generazione ha il suo simbolo: noi avevamo le scarpe da ginnastica, quelle alte da basket».
Biagi all’epoca disse che Cecchetto «parla prima di pensare». Una critica?
«Una goduria. Oltretutto è vero, parlo talmente veloce... Ma il fatto che Biagi si occupasse di me era una medaglia».
Alla fine del Festival dell’82 inaugurò radio Deejay.
«Ravera ci rimase male».
Si è sentito ingrato?
«Per me lui è stato fondamentale, mi ha dato la popolarità. Ma avevo firmato per Canale5 perché il contratto mi dava la possibilità di realizzare il mio sogno: una radio tutta mia. Anche il nome, deejay, era inventato: in inglese era d.j.».
Il primo acquisto?
«Gerry Scotti. Era a Radio Milano International, stava per andare a Los Angeles per fare il pubblicitario. Gli ho detto: “Sei fatto per questo lavoro, sarai un grande”. L’ho convinto a restare».
Non si sarà pentito.
«No».
Poi è arrivato Linus. Un simbolo di Radio Deejay. Avete litigato?
«Ma no. È successo che avevo venduto delle quote al gruppo Espresso, che poi si è preso tutta la radio. Linus e altri sono rimasti con l’Espresso».
Si è sentito tradito quando non l’ha seguita a Capital?
«Perché avrei dovuto? Chi mi ha seguito, come Fiorello, Lorenzo, Amadeus, avevano anche altri interessi, oltre alla radio».
Ha iniziato anche a produrre. Sandy Marton...
«L’icona degli anni Ottanta, con il suo People from Ibiza, l’estate, il Festivalbar. E lui bello com’era. E poi Sabrina Salerno».
Boys boys boys...
«Ha venduto 14 milioni di copie in tutto il mondo. Me la chiedono ancora. È il disco che mi è costato meno e con cui ho guadagnato di più: l’abbiamo prodotto in un giorno».
Il suo pupillo è Jovanotti?
«Lui e Max Pezzali. Lorenzo è un dj, quindi ci siamo intesi subito. Con lui ho iniziato a pensare all’artista, prima che al disco».
Fiorello, Lorenzo, Max Pezzali sono stati tutti «rivalutati». Se lo aspettava?
«Uno puoi dire che sia un caso, due fortuna. Ma tre... era tutto previsto. Del resto non ho litigato con nessuno per averli. Per me le cose per cui venivano criticati erano i loro punti di forza».
Quali critiche facevano?
«Di Lorenzo dicevano che è fuori: ma certo, con tutta quella energia. A Max dissero che Hanno ucciso l’uomo ragno non potesse essere un titolo: per me era eccezionale».
E Fiorello?
«Tutti dicevano “bravo, bravo” però lo trovavano invadente. Per me era prorompente».
Che cosa hanno in comune i suoi talenti?
«Tutti bravi ragazzi. Lo vedi da come si comportano col loro pubblico, sono generosi».
E poi?
«Vengono tutti dalla provincia. È quella che ha più fame, già la città è un traguardo».
Anni Ottanta, Novanta o Duemila: quali sceglie?
«Di solito uno sceglie quelli in cui era giovane. Ma io non sono nostalgico: spero sempre che il futuro sia meglio. Anche per il libro, alcuni mi dicono: “Non esiste più quell’Italia...” Ma il mio non è un libro nostalgico».
Che cos’è?
«È un libro di speranza. Anche partendo da Chioggia puoi realizzare i tuoi sogni».
È ancora uno da dance?
«Sì, sempre».
Balla?
«Mai ballato. Faccio ballare».
Quanti dischi ha?
«Nessuno. Sono tutti in cantina. Gliel’ho detto che non sono nostalgico. Sono anche tutti appiccicosi...»
I suoi due figli amano la musica?
«Come tutti i ragazzi. Per ora è un hobby, vedremo se riuscirà a farli vivere».
Fa il talent scout anche dei suoi figli?
«Se mi chiedono un consiglio glielo dò, ma io non forzo le passioni. Sono giovani».
Come ha conosciuto sua moglie?
«Avevo accompagnato Sabrina Salerno alla trasmissione della Carrà e l’ho vista. Un colpo di fulmine».
Quindi è merito della Carrà.
«O di Sabrina... Siamo insieme da più di 25 anni».
Però ha detto che «il numero uno è sempre single».
«Essere il numero uno è un traguardo e vorrebbero arrivarci tutti. Perciò il numero uno ha solo avversari, che possono anche coalizzarsi contro di lui. Non troverà mai alleati».
Lavora sempre?
«In vacanza mi annoio. Del resto non sono mica in miniera. Il mio lavoro è divertente, vado in giro, parlo con le persone. Ringrazio Dio perché il mio hobby è diventato il mio lavoro. Una volta ho chiesto a mio figlio Jody: “Come rispondi a chi ti chiede che cosa fa il papà?”».
Che cosa rispondeva?
«Parla».