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 2014  novembre 15 Sabato calendario

«DOPO NAPOLITANO SUL COLLE UN ALTRO PRESIDENTE A TEMPO»

[Intervista a Rino Formica] –
Non è cambiato granché Rino Formica in vent’anni. Ha lasciato il Parlamento nel ’94, a 67 anni, e da allora non l’ho rivisto. Oggi, a 87, ha la stessa testa, la voce e il portamento solido di allora. Anche la mano sottile dalla stretta forte, è la stessa. «L’età invece è abusiva, sono un bel po’ sopra la media», ironizza l’ex pluriministro socialista (Finanze, Lavoro, Commercio estero) quando gli dico che lo trovo identico. «Intendo però proseguire perché mi interessa l’irrazionalità del mondo d’oggi», dice e mi fa sedere nello studio sui fori romani. Qui viene per scrivere, leggere, ricevere. Da lustri, l’ex visir socialista delle Puglie, si è romanizzato. Sorvolo l’accenno all’irrazionalità dei tempi, per non farmi intrappolare in discussioni filosofiche di cui Rino è un patito. Ai tempi del craxismo trionfante, Formica era il politico più analizzatore e astratto in circolazione. Una specie di De Mita, ma più sanguigno, con l’erre moscia anziché le dentali flaccide dell’irpino. Aveva scoppi sulfurei. Definiva la politica «sangue e merda», il suo avversario, Beniamino Andreatta, «una comare sul ballatoio» e cose così. Era spesso colorito. Da tesoriere del Psi gli toccava pagare il filosofo Paolo Flores d’Arcais, collaboratore all’epoca di una rivista craxiana, e contando le banconote esclamava: «Ma quanto c..zo ci costa questo intellettuale?!». «Cosa ha fatto dopo l’uscita dal Parlamento?», chiedo. «Ero in età di pensione - risponde - e mi sono preso il lusso di meditare. Ho chiuso con la politica dopo che, con Mani pulite, era venuto meno il Psi. Ho evitato il penoso nomadismo di tanti socialisti tra un partito e l’altro. Avevo il vantaggio dei miei 67 anni. È andata peggio ai cinquanta-sessantenni. Troppo giovani per ritirarsi, troppo vecchi e carichi di antichi rancori per riciclarsi». Formica, per pudore o per avere effettivamente recuperato la serenità, non accenna alla vicenda che l’ha più angustiato in questi vent’anni: l’incriminazione per tangenti in due cause, artificiosamente avviate dal pm pugliese, Alberto Maritati. Un tizio col ticchio della politica, poi diventato senatore Ds, per graziosa concessione di Max D’Alema. Da entrambe le accuse, Formica è stato pienamente assolto, ma già ultraottantenne, dopo diciassette anni di calvario. Se non ne parla lui, glielo ricordo io: «Perché non ha sfidato a duello Maritati dopo lo scherzo che le ha fatto?». «Non potevo dargli questo onore - risponde con gli occhi che gli brillano di malizia e sano rancore -. Né ce ne fu bisogno. Bastò l’umiliazione che Maritati subì quando la procura di Bari al processo e quella di Roma nell’istruttoria del Tribunale dei ministri cancellarono l’accusa. Avevo capito da tempo che quella di Maritati era una vendetta politica...». «Vendetta?», stupisco. «Nel 1979, il pm si era candidato alle politiche con il Psi, ma il seggio a Montecitorio fu conquistato da altro candidato. Maritati pensò che a danneggiarlo fossi stato io, che in Puglia contavo, mentre in realtà le mene erano state di altri. Così, consumò la sua piccola vendetta, prima di passare a D’Alema», dice con voce placida. Sarà che con gli anni si vola alto, ma la sua calma mi fa rabbia. Tanto più che Formica è stato a lungo agli arresti. «Ha almeno chiesto il risarcimento?», dico. «Parzialmente, per principio. Mi hanno riconosciuto 16.500 euro. Mai effettivamente versati, però». Ride. Da prenderlo a schiaffi. Col prurito alle mani, inizio l’intervista. Ha mai visto l’Italia così in affanno? «Crisi economiche e sociali ne avevamo già avute. Ma tanti guai insieme, anche istituzionali e costituzionali, ne fanno una crisi unica. Le riforme sarebbero dovute cominciare negli anni Settanta. Noi socialisti lo capimmo e, con Bettino Craxi, il riformismo divenne la nostra stella polare». Gli attuali politici sono all’altezza? «Oggi, sono selezionati al contrario: il peggiore è premiato, il migliore compresso. Al carisma del partito, si è sostituito il carisma del capo. Ma il capo - contrariamente al partito - non seleziona i più bravi, ma i mediocri che non gli fanno ombra. Quelli che oggi governano». Come avreste reagito voi della Prima Repubblica ai guai odierni? «In passato, c’era un forte legame tra politica e forze sociali, avevamo il controllo totale del bilancio statale e la sovranità monetaria. Il contesto è del tutto mutato». Tornare all’antico? «L’idea di un ritorno all’autarchia della sovranità nazionale è sbagliata. Oggi, va riorganizzata la sovranità sovranazionale dell’Ue». Uscire dall’euro? «Suicidio collettivo del Paese. Con questa idea che serpeggia da noi, già adesso nell’Ue si fanno contratti con le ditte italiane con la clausola di rischio cambio. Fare, come chiedono Grillo e Lega, un referendum è quanto di più anti italiano ci possa essere. Mi fa paura anche Renzi. Temo che la sua disinvoltura possa spingerlo ad agevolare una campagna di uscita dall’euro». Le piace Matteo Renzi? «È un improvvisatore e un arrogante nel gestire il potere. Nel 2013, il Pd ha fatto una campagna elettorale che sposò il piano sul lavoro della Cgil. I suoi parlamentari sono stati eletti con quel programma. Arriva Renzi e ha la faccia tosta di dire: “Ma chi c..zo è questa Cgil?”». Non le è simpatico. «Con lui sta crescendo nel Paese il disamore per istituzioni e politica. I sondaggi indicano un’impennata dell’astensionismo. La situazione è rivoluzionaria ma la rivoluzione non si può fare. Sa qual è lo stato d’animo che colgo?» Non mi tenga sulle spine. «La gente percepisce che lo Stato nulla può fare per tutelare i suoi diritti, al lavoro, allo studio, ecc. Abbiamo - pressoché unici - messo, all’art. 81 della Costituzione, il pareggio di bilancio. Così, la politica si è legata le mani». Ne consegue? «Se abbiamo il pilota automatico come possono le istituzioni fare qualcosa per la parte sofferente del Paese? Lavoro, scuola, sviluppo si finanziano a debito. Se non ci si può ricorrere, si ferma tutto». Bel quadro. Torniamo a Renzi. «In Europa è stupidamente insolente e sostanzialmente impotente. Così, ha sciupato il semestre di presidenza Ue. Avrebbe dovuto barattare la cessione di sovranità in economia con la possibilità di indebitarci garantiti dall’Ue». La squadra renziana? «Renzi ha scelto i ministri tra quelli che sanno meno di lui. E siccome lui non sa nulla di nulla, ha voluto chi ne sa anche meno. Questo è stato il suo criterio. Se uno di loro imparerà troppo in fretta, sarà sostituito». Il patto del Nazareno? «Berlusconi non lo ha fatto per Forza Italia, ma per Mediaset. Renzi lo ha fatto per garantirsi dagli agguati della sua opposizione interna. In sostanza, Matteo ha sottoscritto una polizza assicurativa in favore degli affari Mediaset, Silvio ne ha firmata un’altra per garantire a Renzi la governabilità». Domanda a bruciapelo: chi sarà il prossimo capo dello Stato? «Un ex presidente della Corte Costituzionale, quale che esso sia, che resterà sul Colle un tempo limitato». Le dà di volta il cervello? «Già ora Napolitano era un presidente provvisorio, come Enrico De Nicola settant’anni fa. Per le stesse ragioni, sarà provvisorio anche il prossimo». Sveli l’arcano. «Come Napolitano per il secondo mandato, anche il suo successore sarà eletto da questo “Parlamento costituente” che sarà superato dalla riforma del Senato. Il valore delle sue nomine non va perciò oltre i mesi o gli anni delle modifiche istituzionali. La prossima presidenza è, dunque, a tempo: quello necessario a terminare la riforma. Il presidente a durata settennale è rinviato alla prossima legislatura». Dopo Renzi che c’è? «O il sonno eterno del sistema dei partiti o la sua reviviscenza con la fine dei partiti azienda e padronali. In questo caso, Fi dovrà mandare a casa il Cav, se no, meglio fare segretario Fedele Confalonieri. A casa pure Renzi, se no, tanto vale che ne prenda il posto Marco Carrai (uomo di fiducia e d’affari del premier, ndr)». Mai pensato di espatriare? «Il nostro è un Paese con più vitalità di qualsiasi altro. Siamo fantasiosi come quei giocatori che a furia di dribblare, dribblano anche il palo della porta. Spettacolo che non mi perdo finché vivo».