Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 16/11/2014, 16 novembre 2014
PASSIONI E TESORI AL POSTRIBOLO CON STENDHAL
La quarta annualità di Letteratura Francese fu il mio ultimo esame: un vero incubo. Comprendeva l’intera storia letteraria, dal Medio Evo fino al Nouveau Roman. Con stima colpevolmente approssimativa si potrebbe dire che i grandi scrittori francesi siano una settantina, per non dire della pletora di stimabili minori. Bisognerà concedere a ciascuno (mi tengo basso) almeno tre opere degne di nota. Il che significa che, per superare quel maledetto esame, dovevi essere in grado di memorizzare più di duecentocinquanta titoli, con tanto di trame, intrecci, personaggi. Si trattava di una sfida titanica. Del resto, il Professore, che in seguito sarebbe diventato il mio Maestro, era un esaminatore esigente e capriccioso fin quasi al caligolismo. Bastava dimenticare il nome di un famoso personaggio di Balzac, o la data di pubblicazione de La Principessa di Clèves per essere sottoposti a umiliazioni dostoevskijane. Preparare quell’esame significava sacrificare sei mesi di vita: a tutt’oggi ho un ricordo terrificante di quel semestre.
A fronte di tale sforzo, però, c’era la Storia della letteratura francese curata da Giovanni Macchia e dai suoi allievi (tra i quali anche il mio Maestro). L’immersione in quei volumi era un’esperienza elettrizzante, sia per come erano concepiti sia per come erano scritti. E mi fornirono la bussola di cui a tutt’oggi mi avvalgo.
Giovanni Macchia pensava che la critica fosse un esercizio creativo. I veri critici inventano gli artisti, proprio come Baudelaire aveva inventato Poe, Delacroix e Wagner. L’obiettività, l’asetticità, la pedanteria, il tecnicismo sono i peccati mortali del critico. Mi verrebbe quasi da dire che mentre un narratore o un poeta possono consentirsi di essere noiosi, tale lusso è interdetto al critico. «La critica migliore» scriveva Baudelaire «è divertente e poetica; non quella, fredda e algebrica, che, con il pretesto di spiegare tutto, non ha né odio né amore, e rinuncia volontariamente a ogni temperamento».
Vita e arte
Macchia scriveva dei giganti della letteratura francese con piglio talmente amichevole da autorizzare il sospetto che li avesse conosciuti. Era come se fosse appena tornato da una cavalcata con Montaigne, da un dopoteatro dai coniugi Molière, dal postribolo preferito da Stendhal... La consuetudine con i classici era tale che certe volte dava loro del tu, come quando scrisse: «Caro dolcissimo Proust, tu sei stato l’ultimo erede di una tradizione che ha creduto, come fine supremo dell’uomo, nell’arte». Una dichiarazione che non va intesa nel senso decadente di fare della propria vita un’opera d’arte; ma, per l’appunto, nell’accezione proustiana dell’arte che autorizza qualsiasi sacrificio, persino quello della vita. Un’idea che, oggi, a più di dieci anni dalla sua morte, si attaglia a Giovanni Macchia come un completo di sartoria. «La letteratura mi si configurò, a quei tempi giovanili, non solo come un problema di natura formale. La letteratura indicava un modo per dare un senso alla vita, e la vita prendeva un senso dalla letteratura».
Macchia non scorda mai che l’arte è fatta di vita, e che la vita si specchia nell’arte; così come non dimentica che, per quanto contigue, vita e arte non sono la stessa cosa, e raramente trovano modo di intrecciarsi. «Non è nella vita che un artista deve cercare la felicità» scrive da qualche parte.
Macchia ama cogliere i suoi scrittori in posa, nel gesto che meglio li rappresenta: Molière è «l’ombra di chi si è allontanato dal palcoscenico poco prima che lo spettacolo iniziasse». La Rochefoucauld, quel grande politico sconfitto, non usa la penna come un’arma di vendetta e di riscatto ma come «la muta testimone della propria disfatta»; Victor Hugo sta «fermo e tranquillo nella sua solitudine». A Macchia interessano i grandi scrittori e i grandi libri. Delle monografie accademiche può farne a meno, così come dei metodi critici alla moda. Ostenta un altezzoso disinteresse per la sociologia, per la psicoanalisi, per la fenomenologia; diffida degli alfieri del formalismo e degli strutturalisti di grido. Usa la vita degli scrittori-amici con spregiudicatezza. Su un invito a pranzo di Desportes, su una manciata di lettere bruciate da Balzac, su una foto di Camus allestisce trame e interpretazioni vertiginose.
Il suo metodo è antitetico a quello di Mario Praz. Se Praz ha un debole per i minori, convinto che incarnino lo spirito di un’epoca, Macchia se la fa sopratutto con i pesi massimi. Sa che prenderli di petto sarebbe pericoloso. Allora li affronta di sguincio, lateralmente, con ironia severa, enfatizzando aspetti in apparenza marginali, guardandosi bene dal raccontarli con toni oracolari. Ha una predilezione per il metodo induttivo: trae leggi universali dal dettaglio. Ha il coraggio, l’indipendenza, il gusto saldo e il disprezzo per le mode tipico degli irregolari, ma non ne ha i vezzi; sebbene sia un uomo piuttosto garbato non nasconde le sue antipatie (ai Surrealisti, per esempio, dà una bella strigliata; non ama Rimbaud e i ribellisti che a lui si ispirano). Quando leggi Macchia non ti chiedi quale sia la sua fede politica, né ti domandi se dietro a pagine così gustose si nasconda un ateo o un devoto. L’uomo c’è, lo senti, ma non si vede.
Una tana in cui nascondersi
Montaigne considera misero «colui che non ha in casa sua dove star con se stesso, dove farsi la sua corte privata, dove nascondersi!». E subito ci viene in mente la famosa biblioteca della famosa torre dove, da un certo punto della sua vita in poi, si rintanò. «Una stanza del tesoro piena di libri, statuette, immagini, vasi, amuleti e curiosità etnografiche volti a stimolare sia l’intelletto che l’immaginazione» (la definizione è di Sara Bakewell).
Chissà perché è sempre così che ho immaginato la biblioteca di Macchia. Uno spazio fiabesco, da Mille e una notte , fantasmagorico come una litografia di Escher e un labirinto di Borges. Non solo luogo di studio, di tedio e di tortura, ma anche la tana dedicata agli svaghi interiori, alle voluttà intellettuali. Una torre d’avorio fornita di ogni confort.
Quando ero ancora studente, si favoleggiava di questa biblioteca di più di trentamila volumi, che occupava diversi vani della casa di Macchia, dove lui, come Madame de Rambouillet, ospitava i suoi amici nel weekend. Si diceva che gli scaffali fossero lustri, ordinati, che l’archivio fosse contenuto da una cassettiera antica piena di schede: un Tempio, insomma, dal valore inestimabile.
Di recente ho avuto la fortuna di essere introdotto in questa grotta di Ali Babà da Giuliana Zagra, scrupolosa e appassionata responsabile del Fondo Macchia, attualmente ospitato dalla Biblioteca Nazionale di Roma.
Un soffio di vita
A questo punto, prima di andare avanti, lasciatemi dire che non ho alcuna attitudine per la bibliofilia e per i suoi misteri. Soffro di un forte astigmatismo e di una lieve dislessia. Sono allergico alla polvere, alle scartoffie, disordinato e pasticcione fino al parossismo. Non ho alcun tipo di memoria, soprattutto quella fotografica. Ancora oggi i libri troppo belli, rari e antichi, mi intimidiscono. Leggendo, mi capita di usare una penna verde per sottolineare e prendere appunti. Presto libri senza accertarmi che rientrino alla base. Se un libro di un grande autore non mi piace me ne disfo volentieri. L’effetto che produce su di me una grande biblioteca non è diverso da quello che mi suscita un bookstore troppo fornito o un negozio di antiquariato stipato di reliquie: una specie di vertigine minacciosa, una sazietà che tracima nella nausea.
E allora perché attardandomi, piluccando qua e là, nella Biblioteca Macchia mi sono emozionato?
Ciò da cui spira un soffio di vita, ecco cosa ci emoziona. È questa la ragione per cui un brutto film, un libro banale, una serata con gli amici noiosa ci lascia un senso di irritazione e di morte. Abbiamo fame di vita, di impressioni durevoli, qualcosa su cui investire e fantasticare. Siamo come il bambino del famoso racconto di Walter Pater: in preda a una «concupiscenza degli occhi».
Macchia, parlando della sua smania di acquisire libri antichi, spiegava: «Un’edizione magari con la dedica autografa dell’autore scatena la mia fantasia: quel libro ha vissuto tante vite, tutte quelle di coloro che lo hanno posseduto, ha trascorso con loro giornate felici e uggiose, è scampato a guerre e terremoti. Quando poi siano state le mani stesse di un autore ad averlo toccato, allora mi pare che sulla rilegatura, dentro le pagine, restino impronte del suo sentire, del suo pensiero».
Qualcosa di analogo è capitato a me perdendomi tra i suoi libri. Tracce di vita ovunque capaci di trasportarti in altre epoche. Vere e proprie macchine del tempo. Una prima edizione di Ursule Mirouet di Balzac del 1842, appartenuta ai fratelli Goncourt: c’è il loro ex libris impreziosito dalla firma di Edmond. L’ Orazio del 1733 dell’editore londinese Giovanni Pine, l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert e chi più ne ha più ne metta... Per chi ama i libri una specie di fabbrica del cioccolato di Willy Wonka. Ma sopratutto ci sono i libri su cui Macchia studiava. I suoi Molière, i suoi Baudelaire, i suoi Proust, sfogliati, sottolineati, annotati. Questi, in un certo senso, sono ancora più preziosi.
D’un tratto ho capito anche perché una biblioteca può essere così angosciante. La morte è dietro l’angolo, tra le pagine polverose. Impieghi una vita intera a raccogliere tutti quei volumi, li assimili, lasci che ti ispirino. Poi un giorno, in un attimo, tutto questo ben di Dio si disperde. È come un crollo in Borsa. Un intero patrimonio di sapienza andato in fumo insieme alle tue cellule cerebrali. Che peccato, che spreco!
Uscendo, mi sono ripromesso di affidare a studenti volenterosi tesi di Laurea su Macchia e sulla sua biblioteca. Vecchi libri, giovani cuori: non c’è connubio più sexy.
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La biblioteca di Giovanni Macchia per la rilevanza e rarità dei libri che la compongono fu vincolata dallo Stato già a partire dal 1979. Nel 1993 venne acquistata dalla Fondazione Roma con l’accordo che sarebbe rimasta in usufrutto allo studioso per il resto della sua vita e successivamente donata alla Biblioteca Nazionale centrale di Roma. Nel 2003, due anni dopo la scomparsa del critico, la collezione fu trasferita dall’appartamento dei Parioli in via Guido d’Arezzo alla Nazionale. Qui una scelta di circa 8 mila volumi tra i più significativi e pregiati è stata collocata in una sala intestata al suo nome secondo un percorso bibliografico che rappresenta i principali interessi di Macchia: la letteratura francese, la storia del teatro, il collezionismo, e i suoi autori prediletti, Molière, Baudelaire, Proust, Manzoni. I restanti 12 mila volumi conservati in magazzino costituiscono un’importante integrazione alle collezioni di letteratura italiana contemporanea. La quarta annualità di Letteratura Francese fu il mio ultimo esame: un vero incubo. Comprendeva l’intera storia letteraria, dal Medio Evo fino al Nouveau Roman. Con stima colpevolmente approssimativa si potrebbe dire che i grandi scrittori francesi siano una settantina, per non dire della pletora di stimabili minori. Bisognerà concedere a ciascuno (mi tengo basso) almeno tre opere degne di nota. Il che significa che, per superare quel maledetto esame, dovevi essere in grado di memorizzare più di duecentocinquanta titoli, con tanto di trame, intrecci, personaggi. Si trattava di una sfida titanica. Del resto, il Professore, che in seguito sarebbe diventato il mio Maestro, era un esaminatore esigente e capriccioso fin quasi al caligolismo. Bastava dimenticare il nome di un famoso personaggio di Balzac, o la data di pubblicazione de La Principessa di Clèves per essere sottoposti a umiliazioni dostoevskijane. Preparare quell’esame significava sacrificare sei mesi di vita: a tutt’oggi ho un ricordo terrificante di quel semestre.
A fronte di tale sforzo, però, c’era la Storia della letteratura francese curata da Giovanni Macchia e dai suoi allievi (tra i quali anche il mio Maestro). L’immersione in quei volumi era un’esperienza elettrizzante, sia per come erano concepiti sia per come erano scritti. E mi fornirono la bussola di cui a tutt’oggi mi avvalgo.
Giovanni Macchia pensava che la critica fosse un esercizio creativo. I veri critici inventano gli artisti, proprio come Baudelaire aveva inventato Poe, Delacroix e Wagner. L’obiettività, l’asetticità, la pedanteria, il tecnicismo sono i peccati mortali del critico. Mi verrebbe quasi da dire che mentre un narratore o un poeta possono consentirsi di essere noiosi, tale lusso è interdetto al critico. «La critica migliore» scriveva Baudelaire «è divertente e poetica; non quella, fredda e algebrica, che, con il pretesto di spiegare tutto, non ha né odio né amore, e rinuncia volontariamente a ogni temperamento».
Vita e arte
Macchia scriveva dei giganti della letteratura francese con piglio talmente amichevole da autorizzare il sospetto che li avesse conosciuti. Era come se fosse appena tornato da una cavalcata con Montaigne, da un dopoteatro dai coniugi Molière, dal postribolo preferito da Stendhal... La consuetudine con i classici era tale che certe volte dava loro del tu, come quando scrisse: «Caro dolcissimo Proust, tu sei stato l’ultimo erede di una tradizione che ha creduto, come fine supremo dell’uomo, nell’arte». Una dichiarazione che non va intesa nel senso decadente di fare della propria vita un’opera d’arte; ma, per l’appunto, nell’accezione proustiana dell’arte che autorizza qualsiasi sacrificio, persino quello della vita. Un’idea che, oggi, a più di dieci anni dalla sua morte, si attaglia a Giovanni Macchia come un completo di sartoria. «La letteratura mi si configurò, a quei tempi giovanili, non solo come un problema di natura formale. La letteratura indicava un modo per dare un senso alla vita, e la vita prendeva un senso dalla letteratura».
Macchia non scorda mai che l’arte è fatta di vita, e che la vita si specchia nell’arte; così come non dimentica che, per quanto contigue, vita e arte non sono la stessa cosa, e raramente trovano modo di intrecciarsi. «Non è nella vita che un artista deve cercare la felicità» scrive da qualche parte.
Macchia ama cogliere i suoi scrittori in posa, nel gesto che meglio li rappresenta: Molière è «l’ombra di chi si è allontanato dal palcoscenico poco prima che lo spettacolo iniziasse». La Rochefoucauld, quel grande politico sconfitto, non usa la penna come un’arma di vendetta e di riscatto ma come «la muta testimone della propria disfatta»; Victor Hugo sta «fermo e tranquillo nella sua solitudine». A Macchia interessano i grandi scrittori e i grandi libri. Delle monografie accademiche può farne a meno, così come dei metodi critici alla moda. Ostenta un altezzoso disinteresse per la sociologia, per la psicoanalisi, per la fenomenologia; diffida degli alfieri del formalismo e degli strutturalisti di grido. Usa la vita degli scrittori-amici con spregiudicatezza. Su un invito a pranzo di Desportes, su una manciata di lettere bruciate da Balzac, su una foto di Camus allestisce trame e interpretazioni vertiginose.
Il suo metodo è antitetico a quello di Mario Praz. Se Praz ha un debole per i minori, convinto che incarnino lo spirito di un’epoca, Macchia se la fa sopratutto con i pesi massimi. Sa che prenderli di petto sarebbe pericoloso. Allora li affronta di sguincio, lateralmente, con ironia severa, enfatizzando aspetti in apparenza marginali, guardandosi bene dal raccontarli con toni oracolari. Ha una predilezione per il metodo induttivo: trae leggi universali dal dettaglio. Ha il coraggio, l’indipendenza, il gusto saldo e il disprezzo per le mode tipico degli irregolari, ma non ne ha i vezzi; sebbene sia un uomo piuttosto garbato non nasconde le sue antipatie (ai Surrealisti, per esempio, dà una bella strigliata; non ama Rimbaud e i ribellisti che a lui si ispirano). Quando leggi Macchia non ti chiedi quale sia la sua fede politica, né ti domandi se dietro a pagine così gustose si nasconda un ateo o un devoto. L’uomo c’è, lo senti, ma non si vede.
Una tana in cui nascondersi
Montaigne considera misero «colui che non ha in casa sua dove star con se stesso, dove farsi la sua corte privata, dove nascondersi!». E subito ci viene in mente la famosa biblioteca della famosa torre dove, da un certo punto della sua vita in poi, si rintanò. «Una stanza del tesoro piena di libri, statuette, immagini, vasi, amuleti e curiosità etnografiche volti a stimolare sia l’intelletto che l’immaginazione» (la definizione è di Sara Bakewell).
Chissà perché è sempre così che ho immaginato la biblioteca di Macchia. Uno spazio fiabesco, da Mille e una notte , fantasmagorico come una litografia di Escher e un labirinto di Borges. Non solo luogo di studio, di tedio e di tortura, ma anche la tana dedicata agli svaghi interiori, alle voluttà intellettuali. Una torre d’avorio fornita di ogni confort.
Quando ero ancora studente, si favoleggiava di questa biblioteca di più di trentamila volumi, che occupava diversi vani della casa di Macchia, dove lui, come Madame de Rambouillet, ospitava i suoi amici nel weekend. Si diceva che gli scaffali fossero lustri, ordinati, che l’archivio fosse contenuto da una cassettiera antica piena di schede: un Tempio, insomma, dal valore inestimabile.
Di recente ho avuto la fortuna di essere introdotto in questa grotta di Ali Babà da Giuliana Zagra, scrupolosa e appassionata responsabile del Fondo Macchia, attualmente ospitato dalla Biblioteca Nazionale di Roma.
Un soffio di vita
A questo punto, prima di andare avanti, lasciatemi dire che non ho alcuna attitudine per la bibliofilia e per i suoi misteri. Soffro di un forte astigmatismo e di una lieve dislessia. Sono allergico alla polvere, alle scartoffie, disordinato e pasticcione fino al parossismo. Non ho alcun tipo di memoria, soprattutto quella fotografica. Ancora oggi i libri troppo belli, rari e antichi, mi intimidiscono. Leggendo, mi capita di usare una penna verde per sottolineare e prendere appunti. Presto libri senza accertarmi che rientrino alla base. Se un libro di un grande autore non mi piace me ne disfo volentieri. L’effetto che produce su di me una grande biblioteca non è diverso da quello che mi suscita un bookstore troppo fornito o un negozio di antiquariato stipato di reliquie: una specie di vertigine minacciosa, una sazietà che tracima nella nausea.
E allora perché attardandomi, piluccando qua e là, nella Biblioteca Macchia mi sono emozionato?
Ciò da cui spira un soffio di vita, ecco cosa ci emoziona. È questa la ragione per cui un brutto film, un libro banale, una serata con gli amici noiosa ci lascia un senso di irritazione e di morte. Abbiamo fame di vita, di impressioni durevoli, qualcosa su cui investire e fantasticare. Siamo come il bambino del famoso racconto di Walter Pater: in preda a una «concupiscenza degli occhi».
Macchia, parlando della sua smania di acquisire libri antichi, spiegava: «Un’edizione magari con la dedica autografa dell’autore scatena la mia fantasia: quel libro ha vissuto tante vite, tutte quelle di coloro che lo hanno posseduto, ha trascorso con loro giornate felici e uggiose, è scampato a guerre e terremoti. Quando poi siano state le mani stesse di un autore ad averlo toccato, allora mi pare che sulla rilegatura, dentro le pagine, restino impronte del suo sentire, del suo pensiero».
Qualcosa di analogo è capitato a me perdendomi tra i suoi libri. Tracce di vita ovunque capaci di trasportarti in altre epoche. Vere e proprie macchine del tempo. Una prima edizione di Ursule Mirouet di Balzac del 1842, appartenuta ai fratelli Goncourt: c’è il loro ex libris impreziosito dalla firma di Edmond. L’ Orazio del 1733 dell’editore londinese Giovanni Pine, l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert e chi più ne ha più ne metta... Per chi ama i libri una specie di fabbrica del cioccolato di Willy Wonka. Ma sopratutto ci sono i libri su cui Macchia studiava. I suoi Molière, i suoi Baudelaire, i suoi Proust, sfogliati, sottolineati, annotati. Questi, in un certo senso, sono ancora più preziosi.
D’un tratto ho capito anche perché una biblioteca può essere così angosciante. La morte è dietro l’angolo, tra le pagine polverose. Impieghi una vita intera a raccogliere tutti quei volumi, li assimili, lasci che ti ispirino. Poi un giorno, in un attimo, tutto questo ben di Dio si disperde. È come un crollo in Borsa. Un intero patrimonio di sapienza andato in fumo insieme alle tue cellule cerebrali. Che peccato, che spreco!
Uscendo, mi sono ripromesso di affidare a studenti volenterosi tesi di Laurea su Macchia e sulla sua biblioteca. Vecchi libri, giovani cuori: non c’è connubio più sexy.