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 2014  novembre 16 Domenica calendario

MAMME CONTRO I FIGLI. «E LA RETE È COMPLICE»

Lo scorso 15 ottobre, in un paesino della regione basca della Francia, una giovane madre è stata arrestata con l’accusa di avere ucciso il figlioletto di 18 mesi: il piccolo era morto quattro mesi prima nella culla, sembrava per colpa di un rigurgito, nulla che facesse pensare a una violenza. Con il tempo, però, alcuni tratti della personalità della donna, che aveva già perso due figli e postava spesso sui social network immagini dei suoi «principini», hanno insospettito le autorità: e se fosse stata lei? e se cercasse in questo modo tremendo di attirare l’attenzione su di sé? La giovane, riferisce il quotidiano «Sud-Ouest», ha confessato.
Pochi giorni prima, nella cittadina inglese di Worchester è iniziato il processo contro una donna di mezza età accusata di avere arrecato danni alla salute della figlia adolescente sottoponendola a una superflua cura ormonale: dopo essersi inventata un’inesistente disfunzione alla tiroide, e aver trovato dopo numerosi tentativi un medico disposto a «curarla», avrebbe iniettato alla ragazzina una dose di estrogeni tre volte superiore a quella prescritta.
Lo scorso agosto un’infermiera torinese è stata arrestata con accuse simili: avrebbe iniettato dosi d’insulina al suo bambino di 4 anni, con il solo intento — questa la tesi dell’accusa, che gli avvocati della donna respingono — di indebolire il piccolo fino a renderlo perennemente ammalato.
Due mesi prima, a giugno, una giovane madre single, Lacey Spears, è stata messa sotto processo nello Stato di New York con l’imputazione di avere ucciso il figlio di 5 anni: il piccolo Garnett era morto a gennaio dopo una misteriosa malattia e le autorità sospettano che la giovane lo abbia lentamente avvelenato facendogli ingerire dosi tossiche di sodio. Spears si è dichiarata non colpevole, ma il processo è ancora in corso.
In tutt’e quattro i casi si è parlato, in sede legale e sulla stampa, di «sindrome di Münchhausen per procura»: una rara — e forse controversa — malattia psichiatrica che secondo alcuni esperti si sta diffondendo in questi anni a causa della pervasività di internet, ma che altri studiosi guardano ancora con sospetto.
In pratica, si tratta di sfruttare le malattie dei figli per attirare l’attenzione su di sé, suscitando lodi (che brava madre, sempre dedita a curare il suo piccolo!) e compatimento (poverina, con un bimbo così malato...). È una variante della «sindrome di Münchhausen» (talvolta scritta con la grafia semplificata ma errata «Munchausen»), ovvero il disturbo per cui soggetti smaniosi di farsi notare — proprio come il leggendario barone celebre per i suoi racconti esagerati — si inventano malattie immaginarie.
La differenza qui è che il «mezzo» per ottenere l’attenzione sono i figli e le malattie non sono sempre immaginarie: «Il termine “sindrome di Münchhausen per procura” si applica sia a madri che mentono sullo stato di salute dei figli, inventando malanni o esagerandone la gravità, sia a quelle che arrivano a provocare una malattia nei figli, per esempio iniettando sostanze nocive», spiega a «la Lettura» Marc D. Feldman, membro della American Psychiatric Association e autore del libro Playing Sick? Untangling the Web of Munchausen Syndrome . Peraltro, aggiunge, «è frequente che si passi da una forma all’altra e anche casi apparentemente “lievi” sfociano nel maltrattamento del minore, perché portano a procedure mediche inutili».
Sebbene la «sindrome di Münchhausen per procura» sia nota dalla fine degli anni Settanta — il termine è stato coniato nel 1977 dal pediatra britannico Roy Meadow, tanto che talvolta viene definita «sindrome di Meadow» — Feldman è convinto che la diffusione di internet abbia «contribuito ad alimentare» questo disturbo: «In Rete esistono innumerevoli gruppi che offrono sostegno incondizionato ai genitori di bambini malati, accessibili 24 ore su 24. Quando un individuo cerca compatimento o empatia, può andare online e ottiene subito tutta la gratificazione emotiva che desidera», dice lo psichiatra. «Prima era necessario portare un bambino all’ospedale, ora basta postare la foto di un bimbo malato per ritrovarsi al centro dell’attenzione: io dunque la chiamo “sindrome di Münchhausen per procura via internet”».
La pensa così anche lo psicologo forense Eric G. Mart, autore di Munchausen’s Syndrome by Proxy Reconsidered . Che a «la Lettura» spiega: «Credo anch’io che il web possa alimentare questo genere di disturbi. Basta fare in giro sui forum dedicati a malattie specifiche per vedere che ci sono genitori un po’ troppo entusiasti quando al loro bambino vengono diagnosticati la fibromialgia o l’autismo». I media anglofoni hanno dedicato molto spazio all’attività online di Lacey Spears, la donna sotto processo nello Stato di New York, che aveva raccontato la malattia del figlio su Twitter, Facebook e un blog (garnettsjourney.blogspot.it): «Nell’era della condivisione ossessiva Spears aveva trovato un vasto pubblico», ha scritto il «New York Times». Il britannico «Daily Mail» lo ha ribattezzato il caso della «mamma blogger».
C’è tuttavia chi ritiene che l’impatto della Rete sulla vicenda sia ingigantito. A ben vedere, il blog di Lacey Spears contiene soltanto due post e i tweet relativi alla malattia del figlio non superano la ventina. «La notizia di una mamma che ha ucciso il figlio non era abbastanza sensazionale, così i media l’hanno raccontata come una storia sul mommy blogging», cioè la pratica di tenere diari online sulle proprie esperienze di genitori, fa notare Andy Hinds sul sito «The Daily Beast». «Il sottinteso era che il mommy blogging , con le sue implicazioni narcisistiche, ha svolto un ruolo nella morte del bimbo». Lo stesso Feldman sostiene che in alcuni casi la gratificazione offerta dal web potrebbe in realtà mitigare gli aspetti più nocivi della malattia: «Una madre affetta da questa sindrome può trovare in Rete l’attenzione cui anela senza bisogno di provocare un danno al figlio. Dunque internet potrebbe ridurre la probabilità di danni fisici, ma serve più ricerca per stabilirlo».

Altri studiosi invitano alla cautela davanti al concetto stesso di «sindrome di Münchhausen per procura» e alle sue implicazioni legali. «Ci sono seri problemi con la sua definizione e con i criteri di diagnosi», aggiunge Eric G. Mart. Per indicare un disturbo simile, infatti, esistono troppi termini diversi. Oltre ai già citati «sindrome di Münchhausen per procura» e «sindrome di Meadow», alcuni psichiatri parlano di «disturbo fittizio per procura», mentre l’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha introdotto il «disturbo fittizio imposto ad altri».
Il problema, sostiene Mart, è che «ogni etichetta implica criteri diagnostici leggermente diversi e questo complica gli studi comparati». Inoltre è un disturbo che «va di moda» e che dunque viene diagnosticato un po’ troppo spesso: «Visto che c’è tutta questa sovraesposizione mediatica sulla sindrome di Münchhausen per procura gli psichiatri tendono a cercarla e di conseguenza a diagnosticarla». Nella sua esperienza di consulente, Mart ha poi notato che i giudici talvolta accettano con un po’ troppa facilità tesi che partono da questo disturbo: «Nei tribunali statunitensi gli standard di prove sufficienti a definire un caso di maltrattamento di questo genere sono piuttosto bassi e manca il personale addestrato». Il risultato è che i genitori sotto accusa spesso non sono messi in condizione di difendersi, perché le autorità non prendono in considerazione spiegazioni alternative: «Ci sono madri che sottopongono i figli a cure inutili perché sono semplicemente troppo ansiose, e può capitare che con l’aiuto di internet un genitore possa diagnosticare una malattia che il medico non ha visto», spiega Mart. Il punto, conclude lo psicologo, è che «non tutto ciò che sembra “sindrome di Münchhausen” è per forza “sindrome di Münchhausen”».